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Umanesimo, storia e filosofia

2.1. Il dibattito sull’umanesimo

2.1.2. L’esistenzialismo di Sartre

Nel 1945 Sartre tenne una conferenza96 al Club Maintenant da

cui trasse un breve opuscolo, dal titolo L’esistenzialismo è un umanesimo97, pensato come una difesa contro le critiche mosse alla sua

filosofia esistenzialista. Sia che vengano da parte marxista o cattolica, le accuse insistono tutte su quella concezione pessimistica della

96 SAFRANSKI R., Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Longanesi, Milano 1996,

p. 429: “A sentire questa conferenza, tenuta nella Salle des Centraux, era affluita una gran massa di persone in attesa che quella sera venisse proclamata l’enciclica dell’esistenzialismo. E così fu: l’accalcarsi della folla, il parapiglia, sedie rotte, Sartre ci mise un quarto d’ora per farsi strada sino al podio. Nella sala surriscaldata, sovraffollata, sovreccitata, Sartre cominciò, tenendo pigramente le mani in tasca, a sciominare le sue dichiarazioni, che frase dopo frase destavano l’impressione di una formulazione valida e definitiva. Gli uditori accalcati, spintonati, quasi soffocati, potevano avere la sensazione di sentire pronunciate delle frasi che d’ora in poi sarebbero state citate incessantemente. Non soltanto in Francia, dopo questa conferenza, non ci fu giorno in cui non si facesse parola o citazione di Sartre e dell’esistenzialismo.”

97 SARTRE J.P., L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Parigi 1946; trad. it. a cura di G.

natura umana che tale indirizzo di pensiero sembra aver promosso. In tal senso, si inneggerebbe ora ad “un quietismo della disperazione” che renderebbe vana l’azione, ora ad un atteggiamento egoistico che rinchiuderebbe l’individuo in una solitudine sorda ad ogni umana solidarietà. Il tentativo di replicare a tali giudizi induce Sartre a offrire una serie di chiarimenti circa la sua filosofia che ormai, divenuta di moda e spesso volgarizzata da “gente avida di scandali e di novità”, pare aver perso la sua autentica vocazione: quella di configurarsi come l’autentico umanismo. Di qui la necessità di enunciare i principali contenuti filosofici dell’esistenzialismo al fine di evitare facili fraintendimenti e impostare la discussione su basi più solide e concrete.

Viene innanzitutto discussa l’idea che nell’uomo l’esistenza precede la sua essenza. Giudicata come il principio fondante di ogni esistenzialismo, essa permette di ribaltare il modo tradizionale di affrontare il problema dell’uomo. Attraverso l’esempio della costruzione di un oggetto come il tagliacarte, Sartre mostra che tale operazione è resa possibile dal fatto che l’artigiano prima di mettersi al lavoro possiede già nella sua mente l’essenza del prodotto che intende realizzare come l’insieme delle conoscenze e delle qualità che ne permettono la fabbricazione. Tale visione tecnica del mondo ritorna spesso nella storia del pensiero occidentale sia che ci si occupi del rapporto tra l’uomo e Dio (in tal caso il concetto di uomo è nella mente di Dio come l’idea del tagliacarte nella mente dell’artigiano) sia che si definisca, come avviene nei filosofi del XVIII secolo, la natura umana come un concetto universale di cui il singolo individuo è un esempio concreto che si attua nella storia. L’esistenzialismo ateo ritiene, invece, che non vi sia alcuna essenza in grado di definire

quell’essere particolare che è l’uomo: questi è costantemente rimesso al suo carattere indefinito e proprio da esso riceve la sua dignità98.

In quanto esistenza, l’uomo si protende verso l’avvenire progettando il suo futuro per diventare ciò che ha scelto di essere. Una precisazione appare però importante. Tale scelta non corrisponde ad un atto di volontà cosciente che rinvia sempre ad una scelta più originaria e irriflessa ma equivale all’assunzione di una responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri : “Scegliendomi io scelgo l’uomo […]. Ogni cosa accade come se, per ogni singolo uomo, tutta l’umanità avesse gli occhi fissi su ciò che egli fa e si regolasse su ciò che egli fa.”99 Sono così posti i capisaldi di una morale nata sotto il

segno di quell’angoscia che deriva dall’avvertire in ogni istante il peso delle proprie azioni. Questa si impossessa di ogni coscienza la quale, sentendosi impegnata a dover compiere sempre gesti esemplari, avverte una profonda inquietudine. Venuto meno il carattere normativo dei valori e la presenza rassicurante di un Dio, l’uomo è abbandonato “perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità d’ancorarsi”, si ritrova “senza scuse”, senza un ordine che sia capace di orientarlo: egli si scopre libero, anzi, condannato alla sua libertà, costretto continuamente a inventarsi.

Se gli ideali non offrono più validi criteri al nostro agire, l’unico strumento a cui affidarsi sembra essere l’istinto, la forza

98 SARTRE J.P., L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Parigi 1946; trad. it. a cura di G.

Mursia Re, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1963, pp. 28-29: “Che significa in questo caso che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisca dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo.”

motrice del sentimento. A ben guardare, però, anche questa convinzione si dimostra un’illusione: il sentimento chiamato a fare da guida acquista il suo significato unicamente dall’atto che dovrebbe spingere a compiere, viene fondato proprio da ciò che pretende di fondare. Svanita la possibilità di rivolgersi alla propria interiorità, la disperazione si pone come la caratteristica dominante della condizione umana tanto che l’unica alternativa che si offre è quella di fare affidamento solamente su ciò che è immediatamente coinvolto nella propria azione senza curarsi di quelle circostanze che non si possono direttamente controllare.

Sartre si sforza, tuttavia, di fugare i sospetti di amoralità e di inazione che questa prospettiva sembra evocare. La soluzione che propone, infatti, non è quella della “malafede”, di una rassegnata accettazione dell’esistente che cerca di evadere in un mondo illusorio per evitare di confrontarsi con il proprio vero essere ma quella di un intimo attivismo che non ha più bisogno di vuote speranze perché si fonda sulla sola convinzione che l’uomo non esiste se non si versa nell’azione. L’esistenzialismo “dispone gli animi a comprendere che soltanto la realtà vale; che i sogni, le attese, le speranze permettono soltanto di definire un uomo come un sogno deluso, come una speranza mancata, come un’attesa inutile (…)”100. Si tratta di una

forma di realismo estremo che predica un bruto appiattimento sui fatti? Ovviamente no, dal momento che tale interpretazione porterebbe a identificare l’individuo con le sue opere e quindi a definirlo univocamente. Significa semplicemente che la soggettività non è sospesa nell’aria, che non esistono qualità disincarnate perché le caratteristiche di un individuo sono sempre saldamente ancorate al

progetto di vita che sceglie e in cui si impegna. Ponendo le sorti del soggetto nella sua stessa capacità di progettarsi senza alcun condizionamento esterno o interno, l’esistenzialismo prende così le distanze da tutte quelle visioni pessimistiche dell’uomo che si risolvono in uno sconfortante quietismo101.

Confutato il primo pregiudizio, Sartre passa ad occuparsi del secondo: il problema del solipsismo che “tende a murare l’uomo nella sua soggettività individuale”. Il filosofo ammette che la sua dottrina prende avvio dalla certezza della coscienza privata ma gli esiti a cui giunge non sono quelli del cartesianesimo. Fare affidamento su quella verità autoevidente che è il cogito non significa riproporre un dualismo delle sostanze ma salvaguardare, da un lato, “il regno umano come un insieme di valori distinti dal regno materiale”, dall’altro riformulare su nuove basi il problema dell’intersoggettività abbandonando la prospettiva egologica che domina il pensiero moderno e contemporaneo. Nel cogito, infatti, il soggetto non scopre soltanto se stesso ma anche gli altri, ritrova l’alterità come una condizione fondante la sua stessa identità. Caduta così l’obiezione principale cadono anche quelle ad essa collegate in base alle quali esistenzialismo significa arbitrio individuale, incapacità di valutare e mancanza di consapevolezza. Lungo questa direzione vengono riproposti e ulteriormente chiariti molti dei concetti a cui abbiamo fatto riferimento nelle righe precedenti. In particolare, viene ribadita la convinzione che l’uomo, in assenza di un sistema prestabilito di valori capace di fissare a priori un ideale di condotta, debba creare da

101Ivi, p. 60: “Appare chiaro che [l’esistenzialismo] non lo si può considerare come una

filosofia del quietismo, dato che definisce l’uomo in base all’azione, né come una descrizione pessimistica dell’uomo: non c’è anzi dottrina più ottimista, perché il destino dell’uomo è nell’uomo stesso; né come un tentativo di scoraggiare l’uomo distogliendolo dall’operare, perché l’esistenzialismo gli dice che non si può riporre speranza se non nell’agire e che la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione.”

sé quelle norme in grado di dar senso alla sua azione102. Facendo ciò,

egli si riconosce come l’assoluto garante del suo destino e ritrova nella libertà la cifra più autentica della propria esistenza.

Una volta respinte le principali critiche alle sue tesi, Sartre può finalmente ritornare sul motivo principale del suo scritto, quello che pone l’esistenzialismo come un vero e proprio umanesimo. Che non si tratti di una conclusione così immediata è lo stesso autore a riconoscerlo, soprattutto se si da credito a quanto egli scrive ne La Nausea. In quest’opera è criticato l’umanesimo in quanto tendenza a sacrificare la concretezza dell’individuo ad un’idea astratta di Uomo, una sorta di valore supremo che si ricava dagli atti più elevati compiuti dai singoli individui. È questo il caso dell’umanesimo classico che Sartre rifiuta perchè pone l’Umanità come una condizione ideale da raggiungere e realizzare: “l’esistenzialista”, però, “non prenderà mai l’uomo come fine, perché l’uomo è sempre da fare”103. In questa frase è contenuto il senso che si intende dare

all’umanesimo: sostenere che l’uomo si fa, che si costruisce in relazione alle proprie scelte, significa affermare che la sua principale caratteristica è quella di trascendersi continuamente per ritrovarsi in ciò che ancora non è ma che ha progettato di essere. L’uomo è tutto contratto in questo superamento, lì è il cuore della sua soggettività: aprendosi a ciò che è altro da sé egli si realizza come umano.

Riassumendo: la condizione fondante di ogni esistenzialismo è che non ci sia un’essenza in grado di definire l’uomo il quale viene invece determinato dalla sua stessa esistenza, dalla sua capacità di scegliere di volta in volta un fine trascendente a cui tendere; questo

102 Ivi, p. 82: “(…) dire che noi inventiamo i valori non significa altro che questo: la vita non

ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro il senso che scegliete.”

significa che la trascendenza è ciò che lo fa essere, che lo caratterizza propriamente in quanto uomo; da qui l’idea che l’esistenzialismo sia un umanismo104. Si tratta, tuttavia, di una conclusione che non manca

di suscitare qualche perplessità, prima fra tutte, quella relativa alla nota tesi che l’esistenza precede l’essenza. Cosa intende Sartre quando sottolinea la costitutiva aconcettualità dell’essere umano, l’impossibilità di cogliere un’idea astratta e universale di uomo da cui ottenere una sua definizione? Una prima spiegazione potrebbe ritrovarsi nel suo stesso itinerario filosofico.

All’indomani della guerra e della partecipazione al movimento di Resistenza, Sartre abbandona la prospettiva ontologico-esistenziale caratteristica di un’opera come L’Essere e il Nulla per abbracciare un’indagine capace di esercitare un’azione politico-culturale, non limitata alla descrizione teorica dei modi e delle condizioni generali dell’essere in grado di tradursi in un concreto impegno verso se stessi e gli altri. Manifesto di questo nuovo modo di concepire la ricerca filosofica è proprio la conferenza su esistenzialismo e umanesimo. Accanto alla riproposizione di molte tematiche care al filosofo, qui compare una più acuta consapevolezza della problematicità dell’esistenza a cui sembra far riferimento proprio la convinzione che la vita non si lascia imbrigliare tanto facilmente in vuoti schemi formali o in assenze astratte e universali. La tesi che l’esistenza precede l’essenza alluderebbe, quindi, al tentativo di offrire una collocazione maggiormente mondana e relazionale del soggetto: costantemente coinvolto nel reale, qui opera continuamente con i suoi

104Ivi, p. 86: “Umanismo perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui

e che proprio nell’abbandono egli deciderà di se stesso; e perché noi mostriamo che, non nel rivolgersi verso se stesso, ma sempre cadendo fuori di sé uno scopo – che è quella liberazione, quell’attuazione particolare – l’uomo si realizzerà pienamente come umano.”

simili, è sì un essere libero ma sempre situato in un contesto ben determinato.

Sartre vede l’uomo come un farsi, come un insieme di possibilità che si possono sempre attuare nella misura in cui rientrano in un progetto di vita. In quanto supremo legislatore, egli si definisce inventando costantemente il proprio mondo attraverso le sue decisioni e le sue opere. L’uomo non è una collezione di intenzioni quasi fosse un libro di ricette senza nulla da mangiare: i buoni propositi, le varie inclinazioni che caratterizzano il suo animo acquistano un significato solo nella misura in cui si legano empiricamente ad una prassi che si può realizzare. Compare qui l’esigenza di superare il carattere autoreferenziale del soggetto ritrovando il valore dell’individuo nel momento in cui si coniuga operosamente con il mondo: “(…) l’uomo non è chiuso in se stesso ma sempre presente in un universo umano”. Invece di indietreggiare dinanzi ad una realtà refrattaria ad accogliere i suoi propositi, l’uomo la trasforma calandosi in essa e assegnandole un valore in base al fine che ha deciso di perseguire con la sua azione.

Il concetto principale diventa ora quello di condizione umana, dell’ “insieme dei limiti a priori che delineano la situazione fondamentale dell’uomo nell’universo”, concetto che coincide con la “necessità d’essere nel mondo, di lavorarvi, di esistere in mezzo ad altri, di essere mortale”105. È a questo punto che sorgono quelle

perplessità a cui facevamo riferimento. Sartre, infatti, attribuisce a questo concetto i caratteri propri di un’essenza tanto da porsi come un suo derivato106. La condizione umana che determina

105 Ivi, p. 65

106 Ivi, p. 64: “Inoltre, se è impossibile trovare in ciascun uomo un’essenza universale, che

costitutivamente ogni uomo prende il posto della nozione di natura umana precedentemente dichiarata inadatta a definirlo. Certo, si dice anche che tale condizione non è qualcosa di dato quanto da realizzarsi107 ma a ben vedere la difficoltà nasce dall’esigenza di

tenere insieme una dimensione universale e una individuale dell’operare umano, l’ineluttabilità di una condizione in cui non si può non scegliere con la scelta libera e contingente compiuta dal singolo. Come può un uomo ritrovare la sua umanità in una libertà che invece di sancire il valore positivo della sua creatività lo condanna ad un destino imperscrutabile che sembra vanificare ogni sforzo di decidere sino in fondo autonomamente? Che tipo di libertà è quella qui evocata? Per chiarire meglio chiameremo in causa un autore che ricorda molto da vicino quanto Sartre sostiene: Giovanni Pico della Mirandola.

Si è spesso sottolineata l’affinità tra la concezione dell’uomo affermata da questi due autori108. Se si scorrono le pagine dell’Oratio

de hominis digitate, la prolusione che Pico pensò in occasione della discussione che si sarebbe svolta a Roma per sancire l’accordo tra tutte le dottrine, non si può che aderire a questo giudizio. Crediamo, tuttavia, che le somiglianze nascondano anche una profonda differenza tra i modi di affrontare il tema della libertà e dell’agire umano.

107 Ivi, pp. 66-67

108 Si veda S. Bassi, Esistenzialismo e umanesimo, in «Con l’ali de l’intelletto», Leo S. Olschki

L’uomo di Pico è il risultato di un imbarazzo divino109. Figura

camaleontica egli è un “animale di natura varia, multiforme e cangiante”110 che, non avendo ricevuto da Dio una forma ben definita,

plasma continuamente il suo essere secondo la sua libera volontà111.

La scelta mediante cui l’individuo si fa diventa, come in Sartre, la sua caratteristica principale. Ciò che a questo punto ci preme sottolineare è che nell’Oratio la libertà non costituisce quella totalità indecifrabile che compare nelle pagine sartiane, non è un elemento irrazionale che non si può in alcun modo oggettivare ma solo cogliere nell’esperienza interiore dell’angoscia. Essa è, invece, quanto di più propriamente umano esiste, la dimensione nella quale l’uomo si pone per guardare il mondo intero e sancire quel legame tra gli esseri a cui è stato destinato112. Se in Sartre la libertà continua ad essere un elemento di

negatività, una generica negazione di un mondo definito come opaca cosalità che rifiuta la presenza dell’uomo, in Pico questa diventa praticabile nel momento in cui la si accetta come strumento positivo per riscattare la propria condizione. Ciò significa che il soggetto non è un inquietante vuoto che respinge tutto ciò che è altro da sé ma 109 G. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di G. Tognon,

Editrice La Scuola, Brescia 1987, p. 5: “(…) recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né di tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. (…) Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita (…)”

110 Ivi, p. 9

111 Ivi, p. 5-6: “La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu

[uomo], non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.”

pienezza assoluta, punto in cui si raccoglie e vive l’intero creato: “Nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita”113, dice Pico.

L’ambiguità esistente tra i concetti di condizione e di natura umana è il segno che Sartre, pur volendo dare concretezza alle sue analisi in vista di un maggior impegno nella realtà, non riesce a superare quel rapporto antitetico che segna molti punti del suo pensiero. Testimone di questo dissidio è la nozione di libertà che pur realizzandosi sempre in una situazione resta comunque un incondizionato. Ne risulta un uomo sempre in bilico tra il superamento della sua solitudine ontologica e l’assurdità di questo tentativo, tra la volontà di dare un significato alle cose e l’incapacità di appropriarsene sino in fondo. Quello di Sartre è un umanesimo che