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2.3.2 L’incompletezza di Essere e tempo

2.3.3. L’essere come evento

Con un “passo indietro” in direzione dell’altro inizio, Heidegger si è riportato al di là della metafisica soggettivistica 208 Su questi argomenti si veda L. AMOROSO., Quando domandare è (cor)rispondere, in

intravedendo la possibilità di percorrere sentieri ancora sconosciuti. Il contributo che la sua riflessione offre alla filosofia è quello che le permette di passare dall’orizzonte speculativo proprio della metafisica occidentale ad un altro inizio del pensiero nel quale diventa finalmente possibile appropriarsi (sich er-eigen) di ciò che da sempre ci costituisce. Tale evento-appropriante, infatti, è stato sempre offuscato dal privilegio accordato alla dimensione del presente in base alla quale, ad esempio, la storiografia si è posta come una disciplina che studia il passato aggrappandosi ai bisogni e agli interessi dell’oggi. Il risultato è stato che all’uomo è sfuggito qualcosa di molto elementare, vale a dire il fatto che solo l’avvenire offre la possibilità di accogliere ciò che viene tramandato dal passato al di là della fugacità del presente in cui si trova immerso. Il “tentativo di dire in modo semplice la verità dell’essere”209 diventa l’obiettivo che

Heidegger si propone all’indomani della svolta dal momento che solo concependo l’essere come evento si può cogliere “il senso di quel che accade”, il significato profondo della storia intesa non come semplice successione di fatti ma come l’accadere in cui l’uomo ritrova il suo peculiare modo d’essere.

Le principali nozioni di Essere e tempo subiscono, pertanto, una conversione che permette loro di accogliere la nuova prospettiva inaugurata con la svolta210. Si assiste, in altre parole, a quell’opera di

chiarimento e autointerpretazione che guida Heidegger durante la stesura della Lettera sull’«umanismo»: come è stato già notato, nelle sue pagine molte delle espressioni e dei concetti impiegati in passato subiscono un approfondimento volto a chiarire le ragioni che ne

209 M. HEIDEGGER, Lettera sull’«umanismo», op. cit., p. 29

210 In merito a questi problemi rimandiamo il lettore a L. AMOROSO, Lichtung. Leggere

hanno determinato l’utilizzo, ragioni che vanno intese secondo quella legge di continuità che lega i momenti della filosofia heideggeriana intorno ad un medesimo problema, quello dell’essere. Proveremo a vedere questi cambiamenti riflettendo brevemente su due ambiti che risultano decisivi per la comprensione dell’opera heideggeriana una volta affermatasi l’idea dell’essere come evento: inizieremo dal problema del linguaggio per affrontare, in seguito, quello della Lichtung.

Nell’opera del ’27 il discorso (Rede) costituisce, insieme al sentirsi-situato e alla comprensione, una delle strutture fondamentali del modo d’essere dell’Esserci: affondando “le sue radici nella costituzione esistenziale dell’apertura dell’Esserci”211, esso manifesta

quella totalità di rimandi nella quale l’uomo, in quanto essere-nel- mondo, risulta costantemente immerso212. Questa totalità di significati

nei quali si articola la comprensibilità accede poi alla parola dando così vita ai diversi linguaggi che in questo modo si pongono come l’espressione esteriore del discorso. Dopo Essere e tempo la relazione tra mondità e significatività viene rielaborata abbandonando la convinzione che il linguaggio si fondi sul discorso per scorgervi un modo dell’apertura dell’essere stesso.

La frase che meglio riassume questo nuovo modo di intendere il linguaggio è quella che si trova nella Lettera sull’«umanismo» dove si dice che “il linguaggio è la casa dell’essere”. La precomprensione dell’essere guida l’Esserci nel suo rapporto con l’ente traducendosi in un sistema linguistico costruito in base ad una serie di regole che

211 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, op. cit.. p. 203

212 Nella Lettera sull’«umanismo» Heidegger ribadisce questo legame tra mondo e

linguaggio sottolineando come “ai vegetali e agli animali manca il linguaggio perché essi sono sì ognora imbrigliati nel proprio ambiente, ma non sono mai posti in libertà nella radura dell’essere che, sola, è «mondo». Ma essi non sono legati al loro ambiente, privi di mondo, perché è negato loro il linguaggio”. Vedi op. cit., pp. 49-50

disciplinano l’uso di determinati segni. Questa considerazione puramente sintattica del linguaggio rischia, però, di nascondere la sua caratteristica più importante: essendo il luogo in cui accade l’apertura dell’Esserci nei confronti del mondo, esso conserva anche la traccia dei modi in cui l’uomo si è storicamente relazionato all’ente nelle diverse modalità che costituiscono il suo atteggiamento scoprente. Da semplice strumento di comunicazione in cui si concretizza una delle disposizioni esistenziali dell’essere umano, il linguaggio diventa il luogo in cui accade l’essere nelle diverse aperture storico-epocali che caratterizzano la storia della metafisica. Ridurlo a una semplice espressione dell’uomo inteso come   significa, quindi, trasformarlo in una forma di dominio sull’ente

riproponendo, così, quella tradizione di pensiero caratterizzata proprio dalla dimenticanza di quello spazio essenziale in cui l’essere si dà all’Esserci213.

La casa dell’essere deve essere intesa, insomma, anche come la dimora in cui abita l’uomo214: il linguaggio diventa ora il punto di

tangenza tra uomo ed essere, tra la sua capacità di articolare la serie di rimandi in cui è inserito e la possibilità stessa perché ciò si verifichi. Se per un verso l’Esserci si serve del linguaggio dall’altro è

213 M. HIEDEGGER, Lettera sull’«umanismo», op. cit., p. 60: “Sennonché il linguaggio non è

meramente linguaggio, giacché noi ci rappresentiamo il linguaggio, nel migliore dei casi, come unità di forma fonetica (segno scritto), melodia, ritmo e significato (senso). Noi pensiamo la forma fonetica e il segno scritto come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come l’anima, e la significatività come lo spirito del linguaggio. Siamo soliti pensare il linguaggio in base alla corrispondenza con l’essenza dell’uomo inteso come animal

rationale, cioè come unità di corpo, anima e spirito. Ma come nell’humanitas dell’homo

animalis resta nascosta l’e-sistenza, e con essa il riferimento della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio sul modello «animale» ne occulta l’essenza che gli è propria secondo la storia dell’essere. In conformità con questa essenza il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire come propria (ereignet) e disposta dall’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio partendo dalla sua corrispondenza all’essere, e intenderla propria come questa corrispondenza, cioè come dimora dell’essere umano.”

questo che dispone di lui segnando i limiti della sua esperienza dell’ente. Prendendo le distanza da una interpretazione meramente soggettiva del linguaggio che lo giudica come una semplice facoltà, Heidegger mostra che l’uomo può parlare solo in quanto il linguaggio si è già espresso in qualche modo. Ogni parlare è infatti un ascoltare e necessita che l’uomo si ponga in silenzio per accogliere quello che l’essere dispone attraverso la parola.

Queste conclusioni appaiono giustificate solo nella misura in cui si impone la fondazione dell’essere come l’evento che segna il passaggio dalla metafisica al pensiero dell’essere: la possibilità di corrispondere all’appello che da esso deriva, infatti, coincide con una trasformazione dell’uomo che non si lascia più concepire secondo le modalità proprie della tradizione metafisica ma si determina, invece, come Esser-ci, come la dimensione in cui accade il farsi parola dell’essere. L’evento stesso, pertanto, si dà in quanto svolta, come cambiamento che coinvolge l’uomo nell’abbandono dell’essere per aprirlo allo spazio della Licthung intesa come lo s-fondo diradante in cui si annuncia l’altro inizio del pensiero.

Aggiunge Heidegger: “Così nella determinazione dell’umanità dell’uomo come e-sistenza, ciò che importa è allora che l’essenziale non sia l’uomo, ma l’essere come dimensione dell’estaticità dell’e- sistenza”215. Questa precisazione ci permette di chiarire ancora meglio

il rapporto tra uomo ed essere. Il superamento del soggettivismo non si risolve nel primato dell’oggetto: se le cose non dipendono più dall’Esserci ciò non significa che si afferma una prospettiva in cui tutto dipende dall’essere. Soggetto e oggetto rimangono figure della metafisica e risultano perciò inadatte ad esprimere il senso dell’essere

che si definisce, invece, come “il trascendens puro e semplice”216,

come ciò che si pone al di là della totalità dell’ente in modo da costituire, così, la radura in cui gli enti appaiono. Si dice: “Il progetto, del resto, è essenzialmente un progetto gettato. Nel progettare chi getta non è l’uomo, ma l’essere stesso, il quale destina l’uomo nell’e- sistenza dell’esser-ci come sua essenza. Questo destino avviene come radura dell’essere, e come tale radura esso è. Essa concede la vicinanza all’essere. in questa vicinanza della radura del «ci», l’uomo abita come colui che e-siste, senza essere già oggi capace di esprimere espressamente questa dimora e di assumerla”.217 In queste righe viene

fatta valere una sovrapposizione tra uomo ed essere all’interno della nozione di “progetto”: da un lato l’uomo progetta un mondo in quanto, rapportandosi agli enti, li fa essere, li porta alla presenza ma dall’altro l’essere, accadendo proprio come questa apertura, offre all’uomo la possibilità di porsi come un progetto. Solo in quanto l’uomo è il “ci” dell’essere (è gettato dall’essere) può ek-sistere, stare fuori nella radura e assumere (come progetto) l’ente nella sua presenza; allo stesso modo proprio perché l’essenza dell’uomo è e- sistenza (progetto gettato) è possibile il riferimento dell’essere all’uomo (vale a dire il “getto dell’essere”). Si capisce allora l’affermazione in base alla quale l’essere, gettando l’uomo come progetto gettato, avviene (ereignet) come destino, come ciò che istituisce una determinata apertura storico-epocale nella quale l’uomo può determinarsi in quanto progetto.

Questa sovrapposizione è evidente anche nelle espressioni con cui Heidegger specifica il rapporto tra uomo ed essere prima e dopo

216 Ivi, p. 66 217 Ivi, pp. 66-67

la svolta: se in Essere e tempo si dice che l’uomo è la Lichtung218 oppure

che “solo finche l’Esserci è, si dà essere”219, nella Lettera

sull’«umanismo» si specifica, invece, che la Lichtung è l’essere e che l’uomo non è la cosa più importante ma un semplice pastore dell’essere220. La difficoltà di conciliare le diverse prospettive è il

segno caratteristico di un pensiero che si muove ancora in un orizzonte metafisico e umanistico. L’inadeguatezza di questa interpretazione che insiste sulla trasformazione dell’uomo da soggetto attivo in oggetto passivo si mostra proprio nella possibilità di riferire la nozione di “Lichtung“ tanto all’Esserci quanto all’essere: per un verso, infatti, l’uomo è essenzialmente la sua apertura dal momento che si trova sempre gettato in una precisa situazione nella quale è in grado di scoprire gli enti intramondani, per un altro verso, invece, egli si progetta in modo tale da divenire la Lichtung dell’essere, il luogo in cui questo si rivela o si nasconde. L’imbarazzo di ritrovare una sostanziale continuità nelle dichiarazioni riportate, quindi, deriva dal fatto che l’uomo inteso come Esser-ci comporta il riconoscimento di quel vincolo con l’essere che l’umanesimo, perfettamente solidale con la metafisica, non è riuscito a cogliere dal momento che ha sempre considerato l’uomo a partire dall’ente, giudicandolo, cioè, come un animale nobilitato dall’uso della ragione:

“Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è più del mero uomo come ce lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. Qui il «più» non lo si deve intendere come un’aggiunta, come se la tradizionale definizione dell’uomo dovesse restare la determinazione fondamentale, per poi subire un’amplificazione solo mediante l’aggiunta del

218 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, op. cit, p. 120 219 Ivi, p. 326

carattere esistenziale. Il «più» significa: più originario e quindi più essenziale della sua essenza. Ma qui compare l’enigma: l’uomo è nella condizione dell’esser-gettato (Geworfenheit). Ciò significa che l’uomo, come esistente controgetto (Gegenwurf) dell’essere è più che animal rationale proprio in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo «meno» l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità. Questa chiamata viene con il getto (Wurf) da cui scaturisce l’essere-gettato dell’esser- ci. L’uomo, nella sua essenza secondo la storia dell’essere, è quell’ente il cui essere, in quanto e-sistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’essere. L’uomo è il vicino dell’essere.”221

Nella lettera che scrive a Beaufret, Heidegger ribadisce, così, la continuità del suo pensiero facendo in modo che i diversi momenti che hanno caratterizzato il suo percorso filosofico si chiariscano a vicenda ritrovando la loro unità proprio in quell’avvenimento che concepisce l’essere come evento. È proprio questo episodio infatti che impone al pensiero di diventare pensiero dell’essere222: più che la

scelta di un singolo pensatore che cerca di porre rimedio ad una situazione senza via d’uscite (il fallimento di Essere e tempo), tale pensiero è qualcosa che appartiene da sempre all’esperienza dell’essere la quale si è data in un primo momento come tentativo di tematizzare un qualche senso dell’essere (in questo caso l’espressione “pensiero dell’essere” va intesa in senso oggettivo) mentre successivamente come una prerogativa dell’essere stesso che si

221 Ivi, pp. 73-74

222 Ivi, p. 35: “Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell’essere. Il genitivo vuol dire

due cose. Il pensiero è dell’essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall’essere, all’essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell’essere in quanto, appartenendo all’essere, è all’ascolto dell’essere.”

mostra proprio sfuggendo alla meditazione dell’uomo (prevale qui il senso soggettivo dell’espressione)223.

Questa duplicità di significato si capisce meglio se ripensiamo allo scritto su Kant e il problema della metafisica. Heidegger interpreta l’opera kantiana come il tentativo di fondare la conoscenza ontologica e così facendo individua quella dimensione dell’essere (verità ontologica) in cui le cose appaiono. Dopo la svolta si chiarisce che l’uomo non può disporre di questa verità ontologica quasi fosse un prodotto del suo pensiero perché ogni sua attività la presuppone come un’apertura già sempre aperta224. Analogamente la strada da

seguire non è più quella offerta da un’indagine sulla costituzione finita dell’Esserci e sul suo intrinseco carattere temporale: l’analitica esistenziale rimane ancora troppo legata al primo inizio della filosofia occidentale, al pensiero che non è riuscito a dire in modo semplice la verità dell’essere. Questa verità, infatti, può mostrarsi solo con un altro inizio dove il richiamo all’essenza dell’essere e non il riferimento all’uomo diventa ciò che determina il senso originario della storia. Lungo questa direzione deve essere anche letto il cambiamento che caratterizza il periodo successivo a Essere e tempo: “Questa svolta non è un cambiamento del punto di vista di Sein und Zeit, ma in essa il pensiero che là veniva tentato raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di Sein und Zeit come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere”225. 223 Questi argomenti sono chiariti anche nella Prefazione che Heidegger scrive a W. J.

RICHARDSON, Heidegger. Through phenomenology to thought, Nijhoff, The Hague 1974.

224 M. HEIDEGGER, Lettera sull’«umanismo», op. cit., p. 65: “Ma in Sein und Zeit, là dove si

parla del «si dà», non si dice forse: «solo finché l’esserci c’è, si dà essere»? Certo. E ciò significa: solo finchè la radura dell’essere avviene (sich ereignet) l’essere si trasmette in proprietà (übereignet sich) all’uomo. […] La frase non significa quindi che l’esserci dell’uomo, nel senso tradizionale di existentia e nell’accezione moderna di realtà dell’ego

cogito, sia quell’ente mediante il quale soltanto l’essere sarebbe creato. La frase non dice che l’essere è un prodotto dell’uomo.”

Il fallimento dell’opera del ’27 non dimostra che il progetto filosofico su cui si fondava era sbagliato, anzi, proprio l’esperienza del vicolo cieco in cui è finito diventa l’occasione per sperimentare quella dimensione di oblio ed di espropriazione che è uno dei tratti caratteristici dell’essere pensato come evento: “c’è un abisso”, quindi, “tra il «filosofare» sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga”226.

Negli anni successivi a Essere e tempo Heidegger riflette sull’oblio e sul nascondimento da cui deriva l’esperienza stessa dell’ente in modo da poter finalmente pensare il rapporto tra uomo ed essere come un rapporto di reciproca appropriazione/espropazione. Il termine Ereignis si presta molto bene a esprimere questa dinamica: l’ereignen è quell’accadere dell’essere che si appropria dell’uomo (eigen = proprio) consegnandosi a lui come l’orizzonte nel quale egli può determinarsi in quanto progetto gettato; pensato in questa maniera l’essere diventa la Lichtung, lo spazio sottratto all’ombra della foresta, vale a dire la verità (la luce, l’illuminazione che permette l’appropriazione dell’essere dell’ente) colta nel suo profondo legame con la non-verità (il nascondimento, l’oscurità che determina l’espropriazione dell’essere mai interamente riducibile all’ente); in tale spazio accade, infine, la storia dell’uomo. In sostanza, l’evento è la dimostrazione che l’essere si rapporta all’uomo per accadere e nello stesso tempo l’uomo si rapporta all’essere

226 Ivi, p. 75: “Si è ovunque dell’opinione che il tentativo compiuto in Sein und Zeit sia finito

in un vicolo cieco. Lasciamo questa opinione a se stessa. Il pensiero che in Sein und Zeit ha tentato qualche passo ancora oggi non è andato oltre «essere e tempo». Può darsi che nel frattempo sia entrato un po’ di più nella sua cosa. Tuttavia, finché la filosofia non fa che precludersi costantemente la possibilità di lasciarsi coinvolgere nella cosa del pensiero, cioè nella verità dell’essere, essa è assicurata contro il pericolo di infrangersi nella durezza della sua cosa. Per questo c’è un abisso tra il «filosofare» sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga. Non sarebbe un male se mai un pensiero del genere riuscisse ad un uomo. Gli sarebbe fatto l’unico dono che possa venire dal pensiero da parte dell’essere.”

proprio in quanto accadere. In questo modo l’uno richiama necessariamente l’altro: come osserva Heidegger nella sua critica all’esistenzialismo di Sartre, “l’Être et le plan sono lo stesso”227.

L’evento si caratterizza, così, come la fine della metafisica perché permette di pensare l’essere non più sul modello dell’ente semplicemente presente: l’essere non appare come qualcosa di immobile che si presenta alla luce per ricevere una qualche determinazione ma si rivela con il movimento che, dopo averlo mostrato come l’essere di un ente, proprio dall’ente lo differenzia riconducendolo nel nascondimento. Per descrivere un tale movimento si dice che l’essere non “è” ma “si dà”: così facendo si specifica, innanzitutto, che non è possibile riferirsi all’essere con la particella “è” perché solo dell’ente si può propriamente dire che “è”228

, in secondo luogo si rimanda al darsi, al destinarsi dell’essere nella differenza () tra scoprimento e sottrazione che lo caratterizza229.

Di conseguenza la storia dell’uomo appare tutta pervasa da questa epocalità dell’essere in virtù della quale ad ogni illuminazione/nascondimento corrisponde una precisa destinazione, vale a dire una determinata apertura storica la cui finitezza si staglia proprio sullo s-fondo del “dare” originario da cui deriva. Heidegger chiama Ereignis ciò che nel “dare” dona l’essere all’uomo e, negandosi, fa contemporaneamente emergere l’abisso dell’altro inizio del pensiero.

227 Ivi, p. 62

228 Ibid.: “Nel contempo il «si dà» è usato per evitare provvisoriamente la locuzione

«l’essere è», perché abitualmente l’«è» viene detto di qualcosa che è. Questo qualcosa noi lo chiamiamo ente. Ma l’«essere» appunto non è l’«ente». Se l’«è» viene detto dell’essere senza una spiegazione più precisa, l’essere viene troppo facilmente rappresentato come un