• Non ci sono risultati.

Il paradosso della filosofia

Umanesimo, storia e filosofia

2.2. Il paradosso della filosofia

Di tutto ciò ne era convinto anche Heidegger che nel 1963, parlando del suo incontro con la fenomenologia, dichiarò che questa non rappresentava semplicemente quella scuola filosofica che l’editore Niemeyer aveva contribuito a render famosa attraverso la pubblicazione delle opere di Husserl e dei suoi allievi. Nonostante, dopo quasi cinquant’anni dalla sua nascita e in un panorama filosofico radicalmente mutato, fosse forte la tendenza a considerarla come una corrente di pensiero che aveva segnato la filosofia europea del passato, secondo il filosofo il vero significato della fenomenologia restava ancora inespresso: considerarla come un semplice indirizzo filosofico da studiare da un punto di vista storiografico avrebbe significato soltanto privarsi della possibilità di cogliere il senso profondo della sua novità che ha a che fare con il mistero stesso

155 Ivi, p. 358 156 Ivi, p. 47

dell’apparizione della filosofia157. Questa dichiarazione richiamava

quanto già espresso nel settimo paragrafo di Essere e tempo: “L’analisi del concetto preliminare di fenomenologia indica che l’essenziale per essa non sta nell’essere reale come «corrente» filosofica. Più in alto della realtà si trova la possibilità. La comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità”158. Per Heidegger la fenomenologia ha avuto il merito di

riproporre la questione fondamentale del pensiero, quel darsi alla presenza della “cosa stessa” che costituisce l’essenza stessa della filosofia e l’enigma della sua comparsa nella storia occidentale. Nella fenomenologia, in altri termini, rivive l’autentica intenzionalità filosofica della tradizione e per questo motivo essa non può tramontare con il trascorrere del tempo: non è importante il suo esser reale, quello che Husserl e i suoi discepoli hanno fatto e detto, perché con lei è in gioco la possibilità stessa del pensiero. In questo senso essa rappresenta più un problema teoretico che storiografico159.

La fenomenologia di Husserl ha avuto, quindi, grandi meriti. Ciò non toglie, tuttavia, che il suo modo di affrontare i problemi sia del tutto esente da critiche. In merito al discorso che stiamo facendo, ad esempio, Heidegger rimprovera al maestro una scarsa attenzione per il problema della storia. Sempre nel suo intervento del 1963 egli osservò come le “enunciazione programmatiche e le esposizioni

157 M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, M. Niemeyer, Tübingen 1969; trad. it. a cura di

E. Mozzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1991, pp. 196-197: “E oggi? L’epoca della filosofia fenomenologia sembra esser finita. La si ritiene già come qualcosa di passato, che può essere caratterizzato solo storiograficamente accanto ad altri indirizzi filosofici. Ma la fenomenologia in ciò che le è proprio non è affatto un indirizzo filosofico. Essa è la possibilità del pensiero – possibilità che si modifica a tempo debito e solo perciò permane come tale – di corrispondere all’appello di ciò che si da a pensare. Se la fenomenologia è così esperita e salvaguardata, allora essa può sparire come voce filosofica a favore della cosa del pensiero, la cui manifestatività resta un arcano.”

158 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, op. cit., p. 54

159 Sui rapporti tra Heidegger e Husserl rimandiamo a F. VOLPI, La trasformazione della

metodologiche proprie di Husserl rafforzavano piuttosto l’equivoco che con la «fenomenologia» si pretendesse attingere un’origine della filosofia che rinnegasse tutto il pensiero anteriore.”160 È lecito

supporre che il confronto con la tradizione filosofica avviato nelle pagine della Crisi sia stato il tentativo di rispondere a questa accusa ma in realtà qui a risultare problematico è l’atteggiamento antistorico che l’individuazione dell’“origine della filosofia” sembra implicare.

Il fatto che la filosofia abbia perso nel corso del suo sviluppo quei caratteri di universalità e progettualità che avevano contraddistinto la ragione prima che questa degenerasse nel naturalismo e nell’obiettivismo dell’epoca moderna è la prova che la tradizione si pone come il luogo di una perdita, come il tentativo sempre fallito di rimanere fedeli ad un’idea che non ha mai trovato vera attuazione. La filosofia si trova così in una strana situazione: non potendo partire come la scienza da risultati acquisiti essa deve continuamente rifarsi alla sua tradizione nel tentativo di chiarire i propri presupposti, il senso della sua origine ma, d’altra parte, non può fare a meno di pronunciare un giudizio negativo sulla sua storia che si configura come il tentativo sempre fallito di esprimere quell’inizio che non si è potuto mantenere. Essa si colloca paradossalmente dentro e fuori la storia: si serve della tradizione, è sì un fatto storico ma. al contempo, è quell’orizzonte ultimo nel quale si definisce la storicità dell’uomo in quanto volontà di rimanere fedele ad un fine ideale. Detto diversamente: la filosofia configurandosi

160 M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, op. cit., p. 193. Un’esempio significativo sulla diversa

importanza che lo studio della storia della filosofia ebbe per Heidegger è dato da lui stesso poco più avanti: “L’insegnamento di Husserl si svolgeva sotto la forma di un esercitazione graduale al «vedere» fenomenologico, che esigeva allo stesso tempo e che si rifiutasse l’uso non verificato di conoscenze filosofiche e che si rinunciasse a valersi, nel dibattito, dell’autorità dei grandi pensatori. Invece io, quanto più era evidente per me la fecondità della crescente familiarità con il vedere fenomenologico per l’interpretazione degli scritti di Aristotele, tanto meno potevo separarmi da Aristotele e dagli altri pensatori greci.”

come critica radicale nei confronti della tradizione e di ogni immediatezza irriflessa è quell’evento storico sorto in Grecia che ha inaugurato un nuovo tipo di civiltà ma è anche una prassi che appartiene da sempre ad ogni uomo in quanto essere razionale. “La forma filosofica dell’esistenza” ha creato quella visione della storia che ci ha anche permesso di vederla poi come fatto storico. Il circolo è evidente e sembra l’inevitabile conseguenza di ogni tentativo di guardare la storia rimanendo fedeli ad una prospettiva teleologica e metafisica. Sembrano riproporsi le riflessioni di Garin che citava Feuerbach per sottolineare la pericolosità di ogni posizione metafisica nell’indagine storica: “quando Dio stesso entra nella storia, la storia finisce […]. Se davvero il fenomeno reale dell’incarnazione di Dio fosse un fenomeno storico, esso finirebbe per estinguere ogni lume di storia”161.

È a questo che si riferiva Heidegger quando criticava Husserl? Pensare adeguatamente il problema della storia vuol dire prendere congedo dalla metafisica e rimuovere quel circolo? Questi interrogativi ci spingono ad affrontare brevemente il modo in cui Heidegger sviluppa il rapporto tra storia e filosofia. La convinzione che la fenomenologia costituisca più un questione teoretica che storiografica non deve infatti spingere a facili conclusioni ritenendo che la posizione di Heidegger in merito al problema della storia sia sostanzialmente identica a quella del suo maestro. Non bisogna, in altri termini, cadere nell’equivoco di considerare l’interesse di Heidegger nei confronti della tradizione filosofica come dominato esclusivamente da un atteggiamento antistorico ostile ad ogni approccio storiografico. Approfondendo queste tematiche potremo

anche collocarci nella giusta prospettiva per capire le critiche mosse a questo pensatore quando fu accusato di aver sviluppato un’interpretazione superficiale del movimento umanistico a causa di una scarsa conoscenza storiografica del periodo. La riflessione sul concetto di storicità sarà inoltre l’occasione per individuare possibili momenti di confronto tra il dibattito filosofico contemporaneo e il pensiero umanistico che ebbe il suo tratto distintivo proprio nell’acquisizione di una marcata coscienza storica. Convinzione questa che trova conferma nel fatto che la discussione sull’umanesimo che si ebbe nel Novecento si legò indissolubilmente ad una riflessione sui compiti e i metodi dell’indagine storica e filosofica.

In particolare saranno tre i quesiti che guideranno le nostre riflessioni. Cosa succede se la storicità stessa si rivela un fatto storico? Come bisogna comportarsi se il fondamento non appare più come tale, se la storia non è più quell’orizzonte intranscindibile che determina costantemente il pensiero? Se il pensiero risulta storico anche quando pone la storicità come principio non occorrerà ripensare su nuove basi ogni suo tentativo di determinarsi in maniera autonoma? Per anticipare al lettore la linea delle nostre indagini diciamo subito che gli ultimi tre quesiti richiamano diverse fasi dello sviluppo del pensiero di Heidegger. Il primo, rintracciabile già nelle considerazioni svolte su Husserl, corrisponde al tentativo di risolvere la tensione tra storia della filosofia e filosofia della storia facendo affidamento sul carattere peculiare di quell’ente che è l’uomo. Il progetto della filosofia che pur essendo un prodotto storico cerca di trascendere il contesto originario in cui è sorta per rendersi conto dei propri presupposti viene studiato alla luce della fatticità della vita e

del carattere trascendente dell’esserci quale essere-nel-mondo. Sono questi temi che impegnano Heidegger nel periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale sino ad Essere e Tempo, opera in cui, non a caso, il filosofo rivendica il primato dell’Esserci elaborando un’analitica esistenziale come momento propedeutico per affrontare il problema ontologico. Negli anni Trenta le difficoltà della filosofia che cerca di appropriarsi dei propri principi pur essendo sempre vincolata alla realtà in cui si muove emergono con più consapevolezza, viene abbandonato l’impianto teorico di Essere e Tempo e il tentativo di costituire la storicità come fondamento viene ripreso alla luce del problema della storicità dell’essere. La storia della verità dell’essere è vista ora come un destino (Geschicks) che non può essere pensato in base a ciò che conosciamo come storia. Tale destino invia (schicken) i suoi doni nella misura in cui nasconde e sottrae se stesso: la verità pone l’essente nelle diverse aperture storico-epocali, essa si disvela ma nello stesso tempo si ritrae nella sua inattingibilità, è fondamento di ogni apertura d’essere solo in quanto è anche Abgrund, assenza di fondamento. Perché accade tutto questo? L’uomo che pure è il destinatario di questo accadere non può disporre di esso, la verità – e siamo qui nella terza fase – appare come inconoscibile, all’uomo non resta che custodire i suoi doni, diventare un “pastore dell’essere” 162. Questa convinzione è alla base dell’idea di

umanesimo di Heidegger.

Cercheremo di chiarire meglio questi problemi soffermandoci su alcuni testi di Heidegger che ci sono sembrati particolarmente

162 Su questi argomenti si veda anche O. PÖGGELER, Philosophie und Geschichte, sez. IV, in

Hegel. Idee einer Phänomenologie des Geistes, Alber, Freiburg i.B.-München 1973; trad. it. a cura di A. De Cieri, Filosofia e storia in Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, Guida, Napoli 1986.

significativi163. Rivolgeremo innanzitutto l’attenzione alle lezioni che

questi tenne a Friburgo come assistente di Husserl dal momento che quelli furono anni in cui si fece più urgente il tentativo di trovare un nuovo modo di definire i rapporti tra vita e pensiero prendendo le distanze tanto dalla normatività ideale del neokantismo quanto da quelle filosofie della vita che puntavano tutto sull’immediatezza dell’esperienza vissuta. Le risposte che tali indirizzi di pensiero avevano dato al tracollo delle certezze dell’Europa, infatti, mostrano i loro limiti nella misura in cui tentano di risolvere il legame che unisce i fatti e i valori, l’essere e il dover essere sacrificando inevitabilmente una di queste due sfere all’altra.

Per queste ragioni, approfondendo convinzioni maturate già in precedenza164, Heidegger giunge a contestare l’assolutizzazione della

dimensione teoretica presente nella filosofia dei valori di Heinrich Rickert per affermare, invece, la necessità di cogliere il flusso della vita, lo “spirito vivente”, senza costringere la sua dinamicità in rigide strutture formali. Mosso da esigenze sistematiche e speculative, Rickert aveva infatti elaborato una logica delle scienze e della cultura per rendere conto delle differenze tra le scienze naturali e quelle dello

163 In merito a tali questioni rimandiamo a A. FABRIS, Filosofia, storia, temporalità. Heidegger

e «I problemi fondamentali della fenomenologia», ETS, Pisa 1988, in particolare al capitolo secondo.

164 Nel lavoro con il quale Heidegger aveva conseguito la libera docenza nel 1916 si

denuncia la teoria della conoscenza come incapace di risolvere adeguatamente il problema delle categorie nella misura in cui non lo si inserisce in un’analisi del soggetto conoscente: “Il soggetto nel senso della teoria della conoscenza non spiega il significato metafisicamente più importante dello spirito, tanto meno il suo pieno contenuto. E solo con l’inserimento in questo il problema delle categorie acquista la sua vera e propria dimensione di profondità e tutta la sua ricchezza. Lo spirito vivente è, come tale, per essenza

spirito storico nel senso più ampio del termine. (…) Lo spirito è comprensibile solo se in esso viene assunta tutta la ricchezza delle sue prestazioni, cioè la sua storia, con la quale crescente ricchezza, quando sia concettualizzata filosoficamente, viene fornito un mezzo di continuo potenziatesi per la comprensione viva dell’assoluto spirito di Dio”. In M. HEIDEGGER, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, in Frühe Schriften, GA Bd 1, Klostermann, Frankfurt a. M. 1978; trad. it. a cura di A. Babolin, La dottrina delle categorie

spirito. Tale operazione, se gli aveva permesso di individuare la particolarità delle Kulturwissenschaften nel fatto che i suoi oggetti di indagine si riferissero a valori in grado di conferire loro un qualche significato, lo aveva anche portato a determinare un universo assiologico non più vincolato al caos del divenire ma come trascendente e indipendente rispetto al soggetto giudicante: in questo modo, ad esempio, una proposizione non era vera perché rispecchiava la realtà ma la realtà risultava vera perché si riferiva al valore di verità. La conoscenza sembrava possibile solo in quanto il rapporto tra vita e pensiero, tra essere e dover essere era risolto affermando la preminenza del secondo di questi elementi165.

Contro questo trascendentalismo teoretico Heidegger tenta il recupero della realtà fattuale per limitare le pretese della dimensione formale su quella materiale. Nel corso tenuto nel semestre invernale del 1919, egli nota come il metodo teleologico, nel momento in cui tenta di riconoscere le norme che permettono di raggiungere la validità del pensiero, vada incontro ad un circolo vizioso: da un lato, infatti, bisogna già possedere il valore ideale per rivolgersi al reale, dall’altro, però, l’interesse per il mondo empirico ha come fine quello di individuare tale valore.166 Cosa fare allora? Rifiutare il primato del

teoretico non espone forse al rischio di pensare il rapporto tra essere e dover essere secondo gli schemi della filosofia della vita spesso incline ad un irrazionalistico abbandono nella sfera del materiale empirico? Come mantenere la necessità di una rigorosa concettualizzazione con le esigenze di salvaguardare la peculiarità

165 In merito a questi problemi rimandiamo a M. FERRARI, Introduzione al neocriticismo,

Laterza, Roma-Bari, 1997.

166 M. Heidegger, Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem (Kriegnotsemester

1919) in Zur Bestimmung der Philosophie, GA Bd 56/57, 1987; trad. it. a cura di A. Auletta,

L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo, in Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 1993, p. 47

dei fenomeni della vita? La soluzione è trovata nel fatto che il materiale che si offre alla riflessione appare già da sempre orientato secondo una norma che, da parte sua, può agire solo perché si riferisce ad un dato “passibile di normativizzazione”167.

A risultare problematico, pertanto, non è solo il rapporto tra la sfera della contingenza e quella della normatività ma il fatto che tale dualità costituisca l’implicito presupposto di ogni atteggiamento teoretico168. Insistere, infatti, sulla separazione tra questi due ambiti

significa rimanere invischiati in una considerazione puramente scientifico-oggettiva delle cose che, rimanendo ancora legata ad una idea di conoscenza quale relazione tra un soggetto ed un oggetto, rischia di oscurare una dimensione più originaria del pensiero: “Bisogna spezzare questa supremazia del teoretico, certo non proclamando un primato di ciò che è pratico e nemmeno per intraprendere un’altra cosa che mostri i problemi sotto un nuovo aspetto, ma perché il teoretico stesso, proprio in quanto tale rinvia alla sfera pre-teoretica”169. Per Heidegger questo significa iniziare ad

indagare l’ambito del soggetto conoscente, non tanto, cioè, il fatto che qualcosa appaia dotato di un significato (questo era il problema classico di ogni teoria della conoscenza) ma quella significatività nella quale il soggetto incontra la cosa prima che intervenga ogni considerazione teoretica.

Muovendo dalla domanda più povera di contenuti, gibt es etwas? (si dà qualcosa?), il filosofo chiama in causa l’esperienza di

167 Ivi, pp. 54-56

168 Ivi, pp. 55-56: “Questo rimandare l’uno all’altro da parte del materiale pre-dato e della

norma, con il grandec omplesso dei problemi che vi sono rinchiusi, non è stato ancora avvertito come un problema. I difensori del metodo teleologico sono per così dire affascinati dalla separazione radicale tra essere e valore e non si accorgono che teoreticamente hanno solo rotto i ponti tra le due sfere per stare sconsolati su una delle due rive.”

colui che interroga: “Io domando: «c’è qualcosa?». Il «c’è» è un «esserci» [es geben] per un io – e pur tuttavia non sono io, quello per il quale, con il quale il senso della domanda ha u rapporto”170. Compare

in queste righe una precisazione importante: il riferimento all’esperienza vissuta con il quale Heidegger introduce l’analisi del soggetto non coincide con la tematizzazione del singolo vissuto dal momento che questo vorrebbe dire cogliere singole oggettualità separate le une dalle altre indipendentemente da ogni legame con l’io storico. Si romperebbe, in altri termini, il rapporto che lega gli Erlebnisse con il mondo-ambiente, con il contesto storico in cui essi accadono. “L’esperienza vissuta”, infatti, “non mi sta davanti come qualcosa che io addito, come un oggetto, ma io stesso me ne approprio ed essa è l’evento che secondo la sua essenza, si fa appropriare. E se lo comprendo volgendovi lo sguardo, lo comprendo comunque non come un processo, una cosa, un oggetto, ma come qualcosa di assolutamente nuovo, un evento”171.

È proprio tale rapporto, ossia il fatto originario (Urfaktum) in cui la teoria incontra la vita, l’ambito che deve essere indagato per primo da quella che Heidegger ritiene, non a caso, la scienza originaria (Urwissenschaft) pre-teoretica: la fenomenologia. Il suo compito diventa quello di cogliere l’autenticità della vita al di là del singolo Erlebnis personale, senza ridurlo alla datità ultima della coscienza, ad un processo oggettivabile in una qualche forma di essenza172. È necessario, invece, preservare quel contesto di

170 Ivi, p. 68 171 Ivi, pp. 72-73

172 Era questa la strada che Husserl aveva seguito e da cui Heidegger prende le distanze

perché giudicata come una nuova riproposizione del trascendentalismo teoretico. Muovendo dalle critiche che già Natorp aveva rivolto ad Husserl, Heidegger dubita che la fenomenologia sia in grado di cogliere il flusso della vita preservando al contempo il suo carattere dinamico e originario. Nell’ottica di Husserl, quando la nostra riflessione si sposta dalla cosa che intende descrivere al comportamento descrivente stesso, lo sguardo

significatività, quel “mondeggiare” (es weltet) in cui accade il singolo vissuto nel suo carattere di evento, cercando di capire la vita così come essa si comprende, come qualcosa che è sempre in una situazione e che quindi si presenta come già sempre strutturata in un determinato modo. Non è importante la ricerca dell’, del che-

cosa (Was) si indaga ma il come (Wie) questo si è storicamente attuato attraverso quel complesso di rimandi e di tendenze che animano la vita al di là di ogni Io personale. La stessa filosofia appare come una di queste modalità di attuazione e proprio per questo, come ermeneutica dell’effettività, come chiarificazione e non oggettivazione dell’io storico-mondano nelle sue categorie fondamentali, può pretendere di cogliere la vita nelle sue motivazioni di fondo.

La centralità del contesto storico in cui matura ogni sforzo di