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Heidegger e l'umanesimo - Una lettura della Lettera sull’«umanismo»

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Academic year: 2021

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Introduzione

Nel 1946 Heidegger invia a Jean Beaufret una lettera rispondendo alla domanda che questi gli aveva rivolto in merito alla possibiltà di “ridare un senso alla parola «umanismo»” dopo i tragici eventi che avevano segnato la prima metà del XX secolo. La riflessione che il filosofo tedesco conduce in questo breve scritto diventa l’occasione per venire a capo di quella crisi ideologica e morale che fendeva come una crepa la coscienza occidentale impegnata in un decisivo confronto con la propria tradizione spirituale. Il presente lavoro intende discutere, sullo sfondo della situazione ora delineata, l’interpretazione heideggeriana dell’umanesimo attraverso gli strumenti concettuali messi a disposizione dall’analisi del problema della finitezza e della storicità quale si presenta nell’opera dello stesso Heidegger.

Il primo capitolo è dedicato alla discussione del problema della finitezza quale emerge dal confronto con l’opera di Kant. Le nostre indagini si soffermano, prima di tutto, ad analizzare i termini generali nei quali matura la ricezione heideggeriana della filosofia kantiana

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attraverso l’esame dei corsi tenuti a Marburgo nel semestre invernale del 1925/1926 e di quello estivo del 1927 (§ 1.1.). Obiettivo è quello di far emergere la centralità della questione ontologica discutendo il ruolo svolto dalla “distruzione fenomenologica” nel confronto con i filosofi del passato per poi passare ad esaminare il problema della soggettività. L’interesse nei confronti di Kant, infatti, si comprende meglio alla luce del problema dell’essere come tentativo di ritrovare nella filosofia trascendentale quei presupposti ontologici inindagati che hanno caratterizzato l’intera storia della metafisica. Lo studio della pagina kantiana, in particolare, offre ad Heidegger la possibilità di testare la consistenza del proprio Denkweg sullo sfondo della filosofia aristotelica e della fenomenologia. In discussione è il ruolo del soggetto e della sua attività rappresentativa: il primato attribuito da Aristotele ed Husserl all’atteggiamento teoretico ha privato le loro indagini della possibilità di ritrovare la costituzione fondamentale dell’uomo nella temporalità. Heidegger, infatti, giudica il privilegio accordato alla teoria una delle ragioni che hanno impedito di porre in maniera veramente radicale il problema dell’essere individuando nel tempo l’orizzonte della sua comprensibilità. Già da queste righe emerge il vincolo particolare che unisce l’uomo all’essere: la caratteristica principale di questo ente si trova nella sua capacità di interrogarsi sull’essere proprio in virtù del sua costituzione temporale. Ora, Heidegger crede di trovare in Kant un pensatore che è stato in grado di tematizzare, per un verso, un modello di soggettività (l’io agente) irriducibile alla pura dimensione conoscitiva e, per l’altro, la temporalità come il modo d’essere fondamentale del soggetto. Proseguendo per questa strada, Heidegger approfondisce nel saggio su Kant e il problema della metafisica lo studio del filosofo di

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Königsberg ritrovando nella trascendenza e nella finitezza della natura umana l’elemento decisivo per discutere il problema dell’essere (§ 1.2.). L’uomo, infatti, si determina non solo come spontaneità ma anche come recettività in quanto non può produrre da sé l’ente con cui entra in relazione. Perché ciò accada e l’ente si riveli, è necessaria la veduta preliminare dell’orizzonte che rende possibile tale esperienza, vale a dire il tempo inteso come condizione di comprensibilità dell’essere dell’ente. Di conseguenza il carattere finito dell’uomo non si fonda sulla sua necessità di rapportarsi all’ente che non è in grado di creare ma dipende dal rapporto che stringe con l’essere. La finitezza del soggetto si rivela, insomma, qualcosa di strutturale: l’uomo è finito, innanzitutto e per lo più, a partire dall’essere, a partire, cioè, da quell’orizzonte ontologico che si identifica con il tempo e che rende possibile la trascendenza come rapporto di obiettivazione nel quale si annuncia l’ente medesimo. Lungo questa direzione appaiono anche i limiti dell’impostazione kantiana: nonostante venga posto il legame tra io-penso e tempo, non si procede verso una sua adeguata elaborazione perché ciò avrebbe comportato una frattura profonda con la storia della filosofia. Ritrovare nella temporalità il dato caratteristico dell’io significa, infatti, privilegiare la sensibilità a scapito dell’intelletto (il tempo nell’Estetica trascendentale costituisce la forma pura della sensibilità) e abbandonare, in questo modo, il tradizionale privilegio accordato alla dimensione teoretica. Il problema dell’essere, la possibilità di pervenire ad una sua determinazione partendo dall’esame del carattere finito e trascendente dell’uomo, obbliga però Heidegger a proseguire il cammino che Kant ha abbandonato (§ 1.3.) ma, nello stesso tempo, lo conduce in una situazione senza un’apparente via

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d’uscita (§ 1.4.): come indagare il presupposto che rende possibile ogni indagine? Il senso dell’essere è destinato all’uomo come l’orizzonte di ogni sua comprensione ma non si lascia mai risolvere in qualche comprensione storicamente determinata. Quale legame si pone, quindi, tra il tempo, la verità, l’essere e l’uomo?

Queste domande ci offrono l’opportunità di riflettere sul problema della storicità, vale a dire sulla tensione che si sviluppa tra il carattere storico del pensiero e il suo tentativo di venire a capo dei presupposti che lo condizionano. La discussione di questo argomento avviene nel secondo capitolo. Essa è preceduta da un paragrafo (2.1.) che presenta il modo in cui l’umanesimo è stato interpretato nell’opera di alcuni pensatori (si discutono, in particolare, le posizioni di Sartre, Garin, Grassi e Husserl). Diverse le ragioni di questa scelta: innanzitutto in questo modo possiamo ricostruire il contesto storico e culturale nel quale si inserisce l’intervento di Heidegger sull’umanesimo; in secondo luogo si mostra come la stessa discussione sull’umanesimo si presti ad una riflessione sul problema della storicità (si pensi ad esempio a Garin); gli autori che presentiamo, inoltre, si sono tutti confrontati, seppure in modo diverso, con la filosofia heideggeriana tanto che le loro riflessioni ci offrono l’opportunità di introdurre alcuni questioni toccate nella Lettera sull’«umanismo» (si pensi al rapporto tra esistenza ed essenza oppure alla differenza tra un umanesimo storico e uno teorico) ma anche quella tensione tra pensiero e storia a cui facevamo riferimento poc’anzi. L’esame dei testi di Husserl, ad esempio, ci porta dritti al cuore del problema: l’appello che si leva dalle pagine de La crisi delle scienze europee perché la ragione recuperi l’universalità e la progettualità che la caratterizzavano prima che degenerasse nel

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obiettivismo dell’epoca moderna, pone la tradizione, ossia, l’insieme di quelle circostanze storiche nelle quali ha operato il pensiero, come il luogo in cui si è perso l’ideale di razionalità che avrebbe dovuto animare la ricerca filosofica. Ma quale rapporto, allora, lega la filosofia alla sua storia? La tradizione costituisce solo un’inutile raccolta di errori? Il paragrafo 2.2. intende rispondere a queste domande attraverso l’esame del modo in cui questi problemi vengono affrontati da Heidegger nel periodo del suo primo insegnamento a Friburgo e nelle riflessioni condotte in Essere e tempo. Se nelle lezioni del semestre invernale del 1919 l’importanza del contesto storico in cui nasce ogni indagine filosofica si lega ad una rivalutazione della concretezza della vita, nel corso tenuto durante il semestre invernale del 1921-1922 si assiste alla preminenza dell’indagine sulle categorie della vita fattuale rispetto ad una considerazione della storia intesa come corso eventi. La storicità del pensiero, quindi, non deriva dalla sua appartenenza ad una tradizione che si sviluppa nel tempo ma, innanzitutto, dalla situazione mondano-ambientale in cui è costretto ad operare. Questo progetto che cerca di radicare la storia nella storicità dell’uomo viene ripreso in Essere e tempo, opera in cui si fa più evidente il tentativo di spiegare la storia in base all’analisi dell’uomo considerato quale suo concreto fondamento. Questa convinzione viene però approfondita rivalutando la prospettiva diacronica relegata sullo sfondo nei corsi friburghesi. La ricerca del fondamento ontologico che muove la riflessione heideggeriana, infatti, difficilmente si lascia spiegare in base alle modalità in cui si esplica la vita fattuale: la volontà della filosofia di riappropriarsi dei propri presupposti obbliga il pensiero a problematizzare il contesto particolare da cui scaturisce per tentarne

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un oltrepassamento in base ad un esame della struttura temporale che caratterizza la costituzione finita dell’uomo. A questo punto, però, si ripropongono gli stessi problemi con cui avevamo chiuso il primo capitolo in quanto l’esame della temporalità che costituisce l’uomo non permette di affrontare il legame tra il tempo e l’essere (§ 2.3.). All’epoca di Essere e tempo non sembra ancora possibile svolgere con chiarezza il problema del senso con i soli strumenti della fenomenologia e della metafisica tradizionale. Di qui la svolta che subisce la riflessione di Heidegger. Il compito di pensare l’essere viene affidato ad un pensiero “diverso” che abbandona la soggettività e “l’opinare abituale della filosofia”. Se il fondamento che si voleva cercare in Essere e tempo si sottrae ad ogni determinazione, la tensione tra il pensiero e la propria storia non viene più affrontata nell’ottica di un’ontologia fondamentale ma secondo la prospettiva di un pensiero che va alla ricerca di un altro inizio, di quelle possibilità che restano inespresse nel modo tradizionale di far filosofia. In questo caso, però, diventa necessario elaborare una maniera diversa di rapportarsi alla propria storia. La “meditazione storica” si fa carico di questo compito: essa deve permettere di ripercorrere il senso di quel che è accaduto affinché sia finalmente possibile appropriarsi di ciò che da sempre ci costituisce. Tale evento appropriante diventa il problema fondamentale di questa nuova fase della meditazione heideggeriana. In base ad esso tutte le nozioni di Essere e tempo subiscono una conversione in grado di conferire loro un nuovo significato. Che l’opera del ’27 non venga definitivamente abbandonata non deve meravigliare. L’esperienza del suo fallimento, infatti, diventa l’occasione per approfondire il problema da cui aveva preso le mosse: la questione dell’essere viene ora ripresa riflettendo su quella

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dimensione di oblio ed di espropriazione che è uno dei tratti caratteristici dell’essere pensato come evento. L’essere non appare come qualcosa di immobile che si presenta alla luce per ricevere una qualche determinazione ma si rivela con il movimento che, dopo averlo mostrato come l’essere di un ente, proprio dall’ente lo differenzia riconducendolo nel nascondimento. Questa “semplice” verità rappresenta ciò che non sono riuscite a pensare né la metafisica dell’Esserci elaborata nelle pagine di Kant e il problema della metafisica né l’ontologia fondamentale di Essere e tempo.

Il terzo capitolo intende affrontare gli argomenti della Lettera sull’«umanismo» alla luce delle riflessioni sin qui condotte. Dopo alcune considerazioni di carattere storico volte a ricostruire gli eventi nei quali matura lo scritto sull’umanesimo, la discussione procede esaminando più in profondità i suoi contenuti (§ 3.1.). Ai dubbi sollevati da Beaufret sulla possibilità di continuare a parlare di umanesimo, Heidegger risponde mostrando l’inadeguatezza di tutte quelle categorie di pensiero rimaste legate alla metafisica tradizionale. L’umanesimo, infatti, inteso sia nella sua valenza teorica che come espressione di una determinato movimento storico, appare strettamente legato alle sorti della metafisica in quanto ripropone quel soggettivismo che è all’origine dell’incapacità di porre adeguatamente la domanda sull’essere. Per il filosofo occorre, invece, interrogarsi sul modo in cui l’uomo appartiene innanzitutto alla verità dell’essere. Lungo questa direzione si possono notare le importanti conseguenze che la svolta ha impresso alla meditazione heideggeriana. Se nel saggio su Kant e nell’opera del ’27 la finitezza e la storicità dell’uomo rappresentano gli ambiti a partire dai quali bisogna guadagnare la determinazione dell’essere, in seguito

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all’abbandono della metafisica soggettivistica, sono la finitezza e la storicità dell’essere rivelate nell’evento i termini principali su cui ottenere una determinazione più precisa della natura umana. I paragrafi finali del capitolo intendono sviluppare alcuni problemi emersi nelle pagine della Lettera. Si inizia dal problema della definizione di uomo (§ 3.2.). L’opinione tradizionale che giudica l’uomo come un animale razionale appare ad Heidegger inadeguata a definire la sua particolarità. Questo modo di caratterizzarlo, infatti, rivela l’influenza di un pensiero ancora metafisico dal momento che l’espressione animal rationale implica il riconoscimento del primato dell’atteggiamento teoretico e l’assunzione del modo d’essere dell’ente come modello da cui ottenere una chiarificazione dell’essenza umana. La riflessione di Heidegger mostra, invece, che il carattere trascendente dell’uomo impedisce di considerarlo come una semplice presenza che si lascia individuare nel suo “che cosa”. Occorre, infatti, analizzare il suo essere attraverso il suo “come”, esibendo, cioè, il carattere finito e storico-temporale che lo contraddistingue. L’ultimo paragrafo (§ 3.3.) discute il legame che Heidegger pone tra l’umanesimo e il soggettivismo. Esaminando i testi raccolti nel Nietzsche, vengono chiarite le ragioni per cui la storia della metafisica appare dominata da un atteggiamento antropocentrico che pone la realtà sotto il dominio dell’uomo. Una riflessione finale sull’opera di Leon Battista Alberti ci offre l’occasione per testare la consistenza dell’interpretazione heideggeriana dell’umanismo.

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Capitolo primo

Ontologia, finitezza e temporalità

1.1. Il confronto di Heidegger con Kant

1.1.1. Considerazioni preliminari

Se si passano in rassegna gli scritti pubblicati nell’edizione completa delle opere di Heidegger, non è difficile notare come la figura di Kant occupi un posto importante1. Il dialogo con il filosofo

di Königsberg inizia a partire dalle lezioni marburghesi del semestre invernale del 1925/26 e prosegue, poi, in una serie di altri corsi tenuti nei semestri successivi e nelle prime lezioni del periodo friburghese. Si tratta di un confronto che è stato spesso oggetto di intense polemiche da parte della critica la quale ha visto, per un verso, la volontà di Heidegger di trovare nuove direzioni di ricerca per affrontare problemi fondamentali, ma dall’altro, ha anche colto i limiti, i fraintendimenti e, spesso, il carattere arbitrario di

1 Un resoconto della presenza di Kant nel pensiero heideggeriano è contenuto in A.

FABRIS, Soggetto ed essere nell’interpretazione heideggeriana di Kant, in «Teoria» 7, 1987, in particolare si veda la nota 1 p. 105. Nel nostro capitolo rivolgeremo l’attenzione soprattutto agli scritti del periodo marburghese.

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un’interpretazione che si segnala, comunque, per la radicalità con cui si è sviluppata.

Tale importanza Kant la può condividere soltanto con quella accordata ad Aristotele e Husserl, gli altri due nomi che bisogna fare per avere un quadro preciso del lavoro filosofico di Heidegger prima della pubblicazione di Essere e tempo. Non sorprende, quindi, se attraverso la lettura combinata di questi tre pensatori, diventa possibile ricostruire non solo la genesi di importanti problemi filosofici ma anche il peso che ciascuno autore ebbe nella formazione del Denkweg heideggeriano. Per questa ragione, invece di indagare semplicemente il modo in cui Heidegger ha studiato questo o quell’altro pensatore, è opportuno capire come egli abbia ripreso le questioni da essi sollevate in vista della posizione del proprio problema filosofico, quello relativo al senso dell’essere2. La questione

ontologica, infatti, è il luogo in cui questi autori si incontrano, lo sfondo a partire dal quale divengono comprensibili le ragioni che ne hanno motivato lo studio. In merito al nostro lavoro, ciò significa, prima di tutto, comprendere i termini generali nei quali si è svolto il confronto con Kant e, in secondo luogo, chiarire come la riflessione su questo filosofo possa contribuire alla comprensione di quell’umanesimo di “specie strana” a cui Heidegger fa riferimento in un passo della sua Lettera sull’«umanismo»3. Per queste ragioni

2 Lungo questa direzione si muove F. Volpi quando osserva che per affrontare il rapporto

tra Heidegger e Kant “non si tratta né di avventurarsi in una lettura di Kant ispirandosi ad Heidegger, né di soffermarsi ad illustrare momenti particolari della lettura di Kant che Heidegger ci ha dato. Si intende piuttosto indicare come, nella realizzazione del proprio progetto filosofico, Heidegger faccia propri alcuni problemi fondamentali colti da Kant e ne cerchi una soluzione radicale, trovando nella formulazione kantiana di tali problemi (…) il filo conduttore per la posizione e la soluzione del proprio problema filosofico capitale”. Vedi F. VOLPI, Soggettività e temporalità: considerazioni sull’interpretazione

heideggeriana di Kant alla luce delle lezioni di Marburgo, in Kant a due secoli dalla “critica”, a cura di G. MICHELI e G. SANTINELLO, La Scuola, Brescia 1984, p. 165.

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riteniamo opportuno anticipare al lettore la direzione della nostra ricerca perché meglio possa orientarsi nelle pagine che seguiranno.

Le principali critiche che Heidegger muove alle forme tradizionali di umanesimo possono sintetizzarsi nel suo rifiuto della metafisica e nella necessità di recuperare la vicinanza dell’essere da parte dell’uomo. Sia che venga inteso nel suo significato teorico sia che lo si identifichi con una determinato movimento storico, l’umanesimo appare strettamente legato alle sorti della metafisica del soggetto considerata come la matrice unitaria di tutto il pensiero occidentale. Agli occhi di Heidegger, insomma, l’umanesimo costituisce uno dei tanti volti di quel soggettivismo che giunge alle sue estreme conseguenze proprio in epoca moderna, quando si affermano definitivamente l’interpretazione dell’essere a partire dall’ente e l’esigenza dell’uomo di porsi come una figura principesca che domina tutto l’ente. Per queste ragioni il filosofo ribadisce la necessità di “superare” la metafisica, di abbandonare la centralità del soggetto e della sua attività rappresentativa e recuperare, così, quella dimensione originaria nella quale l’uomo acquisisce una consapevolezza maggiore dei limiti che interessano ogni suo progetto di padroneggiamento conoscitivo e operativo della realtà. Perché tali condizioni possano realizzarsi è indispensabile tornare a interrogarsi sul rapporto che lega l’uomo all’essere, mostrando in che modo la sua essenza appartenga innanzitutto alla verità dell’essere. In questo capitolo cercheremo di analizzare l’importanza che assume tale rapporto attraverso l’esame della costituzione finita dell’essere umano che Heidegger approfondisce con la lettura dei testi kantiani. In particolare, occorrerà mostrare come viene affrontato il problema della soggettività nei corsi e nei testi degli anni Venti per poi

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individuare il modo in cui questo tema viene ripreso nel saggio su Kant del ’29. Avremo così l’occasione di veder emergere molte tematiche che saranno riproposte da Heidegger nel suo saggio sull’umanesimo.

Come detto, questi argomenti verranno esaminati partendo dalla centralità che riveste il problema ontologico, convinti che questo sia il modo migliore per cogliere gli obiettivi che Heidegger si è posto con le sue ricerche. Certo, lasciandoci guidare esclusivamente da interessi teorici non riusciremo a dar conto di quel carattere arbitrario con cui vengono letti i testi di Kant, carattere spesso dovuto al privilegio accordato ai bisogni di natura teoretica piuttosto che alle esigenze di un’attenta critica testuale. D’altronde, è lo stesso Heidegger a riconoscere la particolarità del suo approccio quando spiega il modo in cui ha inteso affrontare l’esame dell’opera kantiana:

“Naturalmente, per strappare a quel che le parole dicono, quel che vogliono dire, ogni interpretazione deve necessariamente usar loro violenza. Ma tale violenza non può esercitarsi a caso, per mero arbitrio. L’interpretazione deve essere mossa e guidata dalla forza di un’idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù di tale idea, un’interpretazione può osare l’impresa, ognora temeraria, di affidarsi al segreto impulso che agisce nell’intimo di un’opera, per essere aiutata a penetrare il non detto e forzata ad esprimerlo. È questa una via, per la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi pienamente, manifestando il proprio potere di chiarificazione”4

La necessità di appellarsi nello studio di Kant a rigorosi criteri filologici, tuttavia, emergerà, almeno indirettamente, quando ci

4 M. HEIDEGGER, Kant und das Probleme der Metaphysik (1929), GA Bd 3, 1973; trad. it. a

cura di M. E. Reina e V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 173. Su questi problemi si legga anche quanto Heidegger scrive nella prefazione alla seconda edizione del 1950.

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occuperemo del confronto che impegnò Heidegger con colui che può ben definirsi un filologo kantiano: Ernst Cassirer. Per il momento ci sembra più utile chiarire le ragioni di queste letture a prima vista così spregiudicate esaminando brevemente la maniera in cui Heidegger si rapporta ai pensatori del passato. Al centro delle nostre indagini si pone, pertanto, il problema della “distruzione fenomenologica”.

1.1.2. Il ruolo della distruzione fenomenologica

Il filosofo tedesco parte dalla convinzione che ogni ricerca è sempre condizionata dalla tradizione filosofica nella quale si inserisce. È da essa che riceve gli strumenti concettuali con cui avvia le proprie indagini e i problemi su cui intende indagare. Questo orizzonte già interpretato, costituito in seguito alle interpretazioni che l’uomo ha dato di se stesso nel corso del tempo, si è sedimentato lentamente sia a livello filosofico che prefilosofico sino ad apparire come qualcosa di scontato. Ogni riflessione può lasciarsi guidare in maniera irriflessa dall’insieme di questi condizionamenti non tematizzati oppure può guadagnare un rapporto critico con essi e giungere ad un confronto veramente genuino con il proprio passato. Secondo quanto è riferito nel corso invernale del 1921-22, in ogni ricerca diventa decisiva “una strutturazione chiara e radicale della situazione ermeneutica in quanto maturazione (Zeitigung) della stessa problematica filosofica.”5 Compare, in questo modo, un elemento su

cui insisteremo spesso nel nostro lavoro: la stretta relazione tra il contesto che risulta predeterminato e colui che, nel tentativo di

5 M. HEIDEGGER, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die

phänomenologische Forschung (Wintersemester 1920-1921), GA Bd 61, 1985; trad. it. a cura di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca

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conoscere se stesso in quanto condizionato, contribuisce a rafforzare tale contesto aggiungendo la propria personale interpretazione.

Partendo da questa esigenza di chiarificazione, Heidegger rivolge l’attenzione ad alcuni particolari problemi filosofici e attribuisce loro un funzione guida nel tentativo di appropriarsi dell’orizzonte precostituito in cui si opera. In un’opera come Essere e tempo emerge un tema che si imporrà come decisivo, quello relativo all’essere e alla temporalità che lo contraddistingue. In questo caso si tenta di cogliere l’essere come il terreno apriorico che viene costantemente presupposto in ogni indagine rivolta agli enti e in ogni ontologia che proprio tale presupposto intende tematizzare6. Tale

obiettivo appare raggiungibile approfondendo, da un lato, il primato ontico della domanda sull’essere, indagando, cioè, i caratteri di quell’ente privilegiato che è in grado di sollevare tale domanda, e dall’altro chiarendo le risposte che sono state date a tale domanda nel corso del tempo. Dal momento, infatti, che l’Esserci è costituito dalla temporalità e questa, a sua volta, gli permette di determinarsi come un ente storico, la ricerca del senso dell’essere, rappresentando una delle sue possibilità, non può fare a meno di porsi come un’indagine storica nella quale diventi possibile interrogare la propria tradizione e appropriarsi delle condizioni da cui prende avvio la ricerca stessa7. Se

6 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit (1927), GA Bd 2, 1977; trad. it. a cura di F. Volpi sulla

versione di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, p. 23: “Il problema dell’essere mira perciò alla condizione a priori della possibilità non solo della scienze che studiano l’ente, che è tale in questo o quel modo, ma anche delle ontologie stesse che precedono le scienze ontiche e le fondano. Ogni ontologia per quanto disponga di un sistema di

categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intento più proprio, se prima non ha sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale.

7 Ivi, p. 34: “L’elaborazione del problema dell’essere, in virtù del senso dell’essere più

proprio del cercare stesso in quanto storico, deve assumersi il compito di indagare la propria storia, cioè di farsi storiografica, per potere così, mediante l’appropriazione positiva del passato, entrare nel pieno possesso delle possibilità problematiche che le sono più proprie. Il problema del senso dell’essere, in conformità al modo d’attuazione che lo caratterizza, cioè per il fatto di essere l’esplicazione preliminare dell’Esserci nella sua

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il primo compito è assolto dall’“analitica esistenziale”, il secondo coincide invece con “la distruzione della storia dell’ontologia”.

Nonostante il termine “distruzione” venga comunemente utilizzato in senso negativo per indicare un’opera di semplice demolizione, in Heidegger è da intendersi soprattutto nel significato di “de-costruzione”8: si tratta, in altre parole, del tentativo compiuto

per riappropriarsi sino in fondo dei presupposti che hanno determinato lo sviluppo del proprio passato attraverso una ricerca sui limiti ma anche sulle possibilità che lo hanno caratterizzato. Nella conferenza del 1955, Che cos’è la filosofia?, si dice:

“Questo cammino in direzione di una risposta alla nostra domanda non è una rottura con la storia, non è una negazione della storia ma, al contrario, un’appropriazione e una trasfigurazione di ciò che ci è stato tramandato. Con la parola “distruzione” si è voluto intendere una tale appropriazione della storia. Il senso della parola è chiaramente definito nel paragrafo 6 di «Essere e tempo». Distruggere non significa annientare ma smantellare, estirpare e accantonare – per l’appunto le asserzioni meramente storiografiche sulla storia della filosofia. Distruggere significa dischiudere il nostro orecchio, renderlo libero per ciò che si rivolge a noi nella tradizione come essere nell’essente e che ci chiama in causa. Ascoltando questo appello giungiamo alla corrispondenza”9.

Al di là del tono di queste parole che richiama molti temi propri del periodo successivo alla svolta (i limiti attribuiti alla storiografia e il bisogno di corrispondere all’appello dell’essere), è

temporalità e nella sua storicità, è da se stesso condotto a comprendersi storiograficamente.”

8 M. HEIDEGGER, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der

hermeneutischen Situation) (1922), in «Dilthey-Jahrbuch für Philosophie und Geschichte Geistwissenschaften», Bd 6/1989; trad. it. a cura di V. Vitiello e G. Cammarota,

Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, in «Filosofia e teologia» 3, 1990, p. 510

9 M. HEIDEGGER, Was ist das – die Philosophie? (1955), Günther Neske, Pfullingen 1956;

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evidente la necessità di un’indagine che sia capace di dischiudere un nuovo modo di studiare la tradizione filosofica, un modo che non sia solo negativo ma anche positivo, che non si limiti a prendere le distanze da ciò che è stato ma che lo interroghi con lo scopo di individuare quei fattori che hanno permesso l’affermazione di determinate concezioni e orientamenti in maniera tale da portare la riflessione su un terreno veramente radicale.

Tale distruzione è poi denominata “fenomenologica” perché è pensata come una ripresa del metodo fenomenologico che Husserl aveva esposto nei termini di una “riduzione trascendentale”, ossia nei termini di un passaggio da una considerazione naturale del mondo in cui la realtà si dà in maniera immediata ad una disposizione filosofica che permette di rivolgersi all’analisi della coscienza trascendentale e dei suoi contenuti noetico-noematici costituenti il mondo-della-vita. In base a tale procedura metodica, mettendo fuori gioco tutte le mediazioni irriflesse che intervengono nel processo conoscitivo, la fenomenologia poteva pervenire alla visione della “cosa stessa” e raggiungere quell’evidenza apodittica che è in grado di porsi come principio primo perché trova in sé la propria giustificazione indipendentemente da ogni inconsapevole condizionamento.

All’interno di questa impostazione la riflessione di Heidegger interviene introducendo una serie di sostanziali modifiche. Innanzitutto il metodo fenomenologico perde la sua valenza gnoseologico-trascendentale per assumere un significato ontologico: non si tratta più di passare da un tipo di conoscenza ad un altro, da una considerazione naturale ad una filosofica, quanto di privilegiare un’indagine capace di cogliere non solo gli enti nella loro datità ma anche il modo d’essere che li contraddistingue. In secondo luogo, tale

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metodo subisce un ampliamento: accanto al momento della “riduzione” si affianca quello della “costruzione” e della “distruzione”. La “costruzione” è pensata come un completamento di una procedura che rischiava di presentarsi solo come un atteggiamento negativo. Non basta, infatti, distogliere lo sguardo dagli enti ma è necessario indirizzarlo positivamente verso la comprensione dell’essere: “questo progettare l’ente già dato in vista del suo essere e delle sue strutture ontologiche noi lo chiamiamo costruzione fenomenologica”10. In questo movimento verso l’essere,

tuttavia, l’indagine è sempre influenzata dalle circostanze storiche in cui viene a trovarsi, da quelle prospettive già sempre operanti che condizionano il suo tentativo di accedere alla dimensione ontologica. A liberarla da tali condizionamenti interviene, come abbiamo visto, la “distruzione”, ossia la “decostruzione critica dei concetti tradizionali, che in un primo momento devono essere impiegati, allo scopo di risalire alle fonti da cui sono stati attinti”11.

La distruzione fenomenologica rappresenta, quindi, la principale novità introdotta da Heidegger rispetto al metodo husserliano. Grazie ad essa diventa possibile tematizzare un ambito che era rimasto ignoto ad Husserl, quel terreno in cui si offre la comprensione dell’ente in quanto ente, vale a dire la tradizione pensata come l’insieme di quelle possibilità tramandate dal passato e fatte rivivere nel presente. Non si tratta più di raggiungere un punto di partenza puro su cui edificare in modo rigoroso una nuova scienza ma occorre mostrare come l’oggetto di indagine risulta costantemente mediato, inserito in un contesto che già da sempre ci appartiene.

10 M. HEIDEGGER, Die Grundprobleme der Phänomenologie (Sommersemester 1927), GA Bd 24,

1975; trad. it. a cura di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1990, p. 20

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Qual è il contributo che la riflessione sul ruolo della “distruzione fenomenologica” porta, invece, alle nostre indagini? Innanzitutto abbiamo iniziato a chiarire il modo in cui Heidegger pensa il rapporto tra la filosofia e la sua storia, tema questo su cui ritorneremo nel prossimo capitolo discutendo il problema della storicità. Di “distruzione” si parla, inoltre, nello scritto che Heidegger ha dedicato alla questione dell’umanesimo quando si cerca di spiegare al lettore che in quelle pagine non è possibile capire sino in fondo il modo in cui vengono utilizzati i concetti filosofici se si rinuncia a far valere quella disposizione metodologica fondamentale che ha caratterizzato il confronto con l’ontologia tradizionale in Essere e tempo12. Nella Lettera sull’«umanismo», infatti, si insiste

continuamente sul modo innovativo con cui vengono interpretate molte nozioni della tradizione filosofica. L’obiettivo è quello di prendere le distanze da tutte le concezioni che mostrano insospettati legami con un modo di far filosofia, quello proprio della metafisica, che proprio la distruzione fenomenologica intende problematizzare e superare. In questo caso, il richiamo alla distruzione fenomenologica serve ad Heidegger per realizzare gli obiettivi che si è posto scrivendo la sua Lettera: dotarsi degli strumenti idonei per ripensare in maniera diversa e più profonda il senso dell’umanesimo e confutare i molti fraintendimenti in cui era andato incontro il suo pensiero quando era stato equiparato a filosofie che, come quella esistenzialistica, si muovevano ancora in un orizzonte metafisico13.

La riflessione delle pagine precedenti chiarisce, infine, i motivi della lettura heideggeriana di Kant riportandoli alla centralità che riveste il problema ontologico. L’interpretazione di questo autore si

12 M. HEIDEGGER, Lettera sull’«umanismo», op. cit., p. 55 13 Ivi, p. 53

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mostra spesso arbitraria perché le motivazioni da cui è mossa non sono di carattere filologico o storico. La “distruzione”, cioè, non obbedisce tanto all’esigenza di conoscere meglio le opinioni di un pensatore o di ricostruire le caratteristiche principali di una determinata epoca storica. A ben vedere, essa rivela un’esigenza teorica profonda che appartiene ad ogni ricerca che intende definirsi filosofica. In base a tale esigenza non è possibile intraprendere nessuna ricerca storiografica senza quello sforzo concettuale che ci rende al contempo consapevoli di ciò che già da sempre ci appartiene. La relazione tra il contesto storico e il tentativo compiuto dall’uomo di appropriarsi delle condizioni in cui è costretto ad operare costituisce, in altre parole, l’orizzonte inaggirabile in cui si inserisce ogni filosofia indipendentemente dal fatto che tale legame venga riconosciuto. In Essere e tempo questa tesi determina il modo in cui viene affrontata la domanda intorno all’essere: l’esame di quell’ente particolare, l’uomo, che è in grado di interrogarsi sull’essere costituisce, infatti, la strada da seguire per riproporre quel quesito fondamentale.

Dinanzi a questa situazione, infatti, due sembrano essere le alternative che si pongono alla riflessione filosofica: tematizzare questa relazione trasformandola in un problema o presupporla in modo più o meno esplicito nelle ricerche che si conducono. La via seguita da Heidegger coincide con la prima alternativa: il problema dell’essere viene giudicato come quello fondamentale e proprio nel tentativo di giungere ad una sua soluzione viene intrapreso lo studio di un pensatore come Kant. In linea con gli obiettivi della distruzione fenomenologica, Heidegger individua le possibilità contenute nell’opera di questo filosofo (la connessione tra io penso e tempo) ma

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anche i suoi limiti (l’idea cartesiana di soggetto e l’adozione di una concezione naturalistica del tempo).

1.1.3. L’interpretazione ontologica di Kant e il problema del

soggetto

Se prestiamo fede ad una dichiarazione contenuta in un corso interamente dedicato allo studio della Critica della ragion pura14 , nel

periodo che abbiamo preso in esame, Kant si mostra un interlocutore privilegiato soprattutto perché Heidegger vi ritrova una conferma della correttezza del cammino intrapreso. Sappiamo che tale cammino consiste in una riproposizione del problema dell’essere attraverso l’analisi di quell’ente particolare, l’Esserci, che è in grado di interrogarsi su di esso individuando nel tempo l’orizzonte della sua comprensibilità. Ora, dato che la temporalità rappresenta anche la costituzione ontologica fondamentale di questo ente, Heidegger crede di trovare in Kant colui che ha posto proprio la temporalità come il modo d’essere fondamentale del soggetto. In questo paragrafo cercheremo di chiarire lo sfondo generale in cui si sviluppa questa interpretazione della filosofia kantiana insistendo particolarmente sulla determinazione dell’essere del soggetto per poi passare ad analizzare la connessione tra io-penso e tempo su cui abbiamo richiamato l’attenzione.

L’interesse di Heidegger per Kant matura all’interno della riflessione sulla fenomenologia husserliana, risponde all’esigenza di individuare i presupposti ontologici ininterrogati su cui essa è stata

14 M. HEIDEGGER, Phänomenologische Interpretation vom Kant Kritik der reinen Vernunft

(Wintersemester 1927/28), GA Bd 25, 1977, p. 431: “Quando alcuni anni fa studiai nuovamente la Critica della ragion pura e la lessi, per così dire, sullo sfondo della fenomenologia di Husserl, mi caddero le bende dagli occhi e Kant divenne per me un’essenziale conferma dell’esattezza del cammino lungo il quale stavo cercando”.

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costruita. Risulta così che il confronto con questo autore si sviluppi partendo da tematiche tipicamente fenomenologiche ma si pone, al contempo, come il terreno su cui viene testata la loro consistenza. Da un lato, infatti, la connessione tra la temporalità e la soggettività era stata una delle questioni che lo stesso Husserl aveva sollevato con la sua riflessione, dall’altro lato, però, tale questione non aveva ricevuto nel suo pensiero un’elaborazione capace di mostrare la struttura ontologica del soggetto perché era stata affrontata conservando la tradizionale dicotomia cartesiana. Proviamo a richiamare le tappe della riflessione di Husserl per comprendere meglio queste critiche e vedere in che modo si inserisca l’interpretazione heideggeriana di Kant.

Nelle Ricerche logiche il soggetto appare ancora diviso tra l’appartenenza al mondo reale e l’adesione a quello ideale, incapace di definire il suo ruolo nei confronti di queste dimensioni dell’essere. Nelle Idee Husserl radicalizza la funzione della soggettività tanto che il progetto di garantire una fondazione rigorosa al sapere ritrova proprio nella coscienza trascendentale quell’istanza fondativa in grado di legittimare tale pretesa. Secondo Heidegger, nonostante questi tentativi di venire a capo della tensione tra il piano immanente e quello trascendente, non risultano sufficientemente chiariti i criteri in base ai quali il modo d’essere di ciò che costituisce il reale differisce dal modo d’essere di ciò che viene costituito. Il problema cartesiano del rapporto tra res cogitans e res extensa non riceve, quindi, un’adeguata soluzione e proprio per queste ragioni Heidegger decide di abbandonare la prospettiva trascendentale della fenomenologia, giudicata una nuova riproposizione del dualismo ontologico, in vista di un approfondimento del problema dell’essere che proprio tale

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dualismo vuole superare. Cercheremo ora di illustrare questo progetto attraverso il richiamo ad una serie di corsi che il filosofo tedesco ha tenuto negli anni di insegnamento a Marburgo.

La nostra attenzione si rivolge innanzitutto al corso del semestre invernale del 1925/26 in cui la decostruzione della fenomenologia husserliana si sviluppa grazie all’esame delle posizioni di Aristotele e di Kant. Durante queste lezioni la trattazione del problema aristotelico della verità si interrompe per individuare gli assunti ontologici che la caratterizzano attraverso l’esame della filosofia kantiana. Così facendo si intendono evidenziare anche i fondamenti inespressi sui quali si regge il pensiero di Husserl che si mostra solidale proprio con l’idea di verità formulata dallo Stagirita. Seguendo un modo tradizionale di procedere, infatti, Heidegger riporta le concezioni moderne e contemporanee alle loro origini greche nel tentativo di restituire ai concetti filosofici il significato che hanno smarrito in seguito al processo di volgarizzazione subito nel corso del tempo15. L’analisi di alcuni passi della Metafisica mostra, non

a caso, come già nel testo aristotelico sia in atto questa perdita di senso delle categorie filosofiche. Ciò risulta evidente a proposito della nozione di verità che inizia a essere interpretata come giustezza della visione, secondo quei criteri di corrispondenza tra la dimensione del pensiero e quella della realtà che si sarebbero poi affermati definitivamente durante l’epoca moderna e, in particolare, con la 15 M. HEIDEGGER, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, op. cit., p. 510: “La filosofia

della situazione odierna si muove in gran parte in modo in autentico, in un contesto di concetti greci, che sono stati però alterati da una serie di interpretazioni eterogenee. I concetti fondamentali hanno perduto le loro originarie funzioni espressive, plasmate su regioni di oggetti, frutto di ben determinate esperienze. Tuttavia, nonostante le analogie, e le formalizzazioni cui sono stati sottoposti, questi concetti conservano una precisa impronta dell’origine, recano ancora con sé una parte della genuina tradizione del loro senso originario, se ancora può provarsi che il loro significato rinvia alle loro fonti oggettive.”

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fenomenologia di Husserl. Al posto di questa teoria che giudica la verità semplicemente come una proprietà del giudizio, Heidegger ritorna ai testi aristotelici per individuare un modo di concepire tale nozione che sarebbe rimasto sconosciuto allo stesso Aristotele ma che avrebbe mostrato il significato ontologico che la caratterizzava agli inizi della riflessione greca16 prima che intervissero fattori

decontestualizzanti.

Inizialmente, infatti, l’ non rimanda tanto ad una

proprietà del discorso ma viene interpretata come un non essere nascosto, come qualcosa che non è immediatamente disponibile ma che esige di essere conquistata sottraendola all’occultamento che la nasconde. Per i greci la forma più insidiosa di occultamento è rappresentata dalla chiacchiera, dal  dei retori e dei sofisti i quali, offuscando la cosa scoperta con una serie di fraintendimenti e incomprensioni, la separano dall’esperienza in cui si è data originariamente. Questa interpretazione secondo cui la verità rappresenta un carattere dell’ente che viene scoperto, comporta, però, la necessità di richiamarsi anche all’atteggiamento in grado di permettere tale svelamento: l’esser-vero, insomma, rimanda al modo d’essere scoprente dell’esserci. Ciò significa che la verità non è né una proprietà dell’oggetto né una caratteristica del soggetto ma appartiene alla struttura intenzionale nella quale il soggetto, in quanto essere-nel-mondo, si trova già da sempre in relazione con un oggetto. Heidegger può così sostenere che la verità per i greci non è tanto il risultato della sintesi operata nel giudizio (quello che dice le cose come sono) ma una conseguenza del carattere trascendente proprio dell’Esserci e implica, pertanto, un riferimento alla

16 M. HEIDEGGER, Logik. Die Frage nach der Wahrheit (Wintersemester 1925-1926), GA Bd 21;

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temporalità. Lungo questa direzione, per Heidegger diventa necessario il riferimento a Kant e al legame posto tra l’io-penso e il tempo.

Rimandiamo più avanti l’analisi di questa connessione. Per il momento ci sembra più opportuno insistere sulle conseguenze che è possibile trarre dalle considerazioni sin qui svolte. Ora, se si interpreta la verità nel suo significato ontologico (non come validità del giudizio ma come scoprimento di senso) e si fa valere la struttura dell’intenzionalità che determina il soggetto in quanto essere-nel-mondo, si raggiungono due obiettivi: da un lato acquista importanza l’atteggiamento scoprente dell’Esserci che, in quanto essere-nel-mondo, si trova costituzionalmente rivolto nei confronti dell’ente che viene scoperto secondo una molteplicità di atteggiamenti non riconducibili tutti ad una relazione di tipo conoscitivo; dall’altro diventa centrale la questione della temporalità in quanto radice unitaria dei vari atteggiamenti dell’Esserci nel mondo.

Come aveva già suggerito lo studio nel sesto libro dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele definisce i modi fondamentali d’essere dell’uomo nel mondo (la teoria, la prassi e la poiesi), il problema della verità si può affrontare non solo all’interno di una prospettiva teoretica ma anche secondo gli altri atteggiamenti scoprenti dell’Esserci, sia quelli pratici che quelli poietici. Compaiono così i limiti dell’impostazione trascendentale di Husserl che, essendo tradizionalmente orientata in senso teoretico, risulta incapace di attribuire una valenza aletica anche alle esperienze non strettamente conoscitive. D’altro canto, la denuncia delle insufficienze della fenomenologia husserliana e l’appropriazione degli strumenti concettuali messi a disposizione dalla lettura di Aristotele, spingono

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Heidegger ad approfondire la trascendenza dell’Esserci e a interrogarsi su quale sia la sua radice fondamentale. Ciò era già avvenuto durante le lezioni del corso estivo del 1925 in cui, anticipando le riflessioni di Essere e tempo, il filosofo tedesco aveva ritrovato l’unità dei modi fondamentali d’essere che caratterizzano la trascendenza dell’Esserci (il sentirsi situato, la comprensione e il discorso) nella Cura e aveva mostrato come i momenti costitutivi di quest’ultima (la fatticità, la deiezione, l’esistenzialità) si connettevano, rispettivamente, con le articolazioni temporali del passato, del presente e del futuro.

A nostro avviso, quindi, sono proprio questi due elementi, la messa in discussione del primato dell’atteggiamento teoretico sulle altre maniere d’essere dell’Esserci e il tentativo di ritrovare la costituzione fondamentale della soggettività nella temporalità, i principali motivi che spingono Heidegger ad approfondire lo studio dell’opera kantiana. Come anticipato, in questo paragrafo le nostre analisi si concentreranno proprio sul primo di questi aspetti attraverso l’esame di un corso tenuto nel semestre estivo del 1927.

Interrogandosi sull’orizzonte ontologico in cui viene pensato l’essere del soggetto, Heidegger si chiede: “In che modo Kant interpreta la distinzione fra io e natura, fra soggetto e oggetto? In che modo caratterizza l’io, vale a dire, in che cosa consiste l’essenza dell’egoità?”17 La risposta a questa domanda consiste nell’analizzare i

concetti di personalitas trascendentalis, personalitas psychologica e personalitas moralis, vale a dire i modi in cui l’io si presenta nell’opera kantiana. La prima di queste articolazioni coincide con l’autocoscienza in virtù della quale “l’io si sa come fondamento delle 17 M. HEIDEGGER, I problemi fondamentali della fenomenologia, op. cit., p. 120

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proprie determinazioni”, diventa consapevole del suo collegamento con la molteplicità degli atti che lo costituiscono ritrovandovi in essa un’unità di sintesi.18 Non bisogna però confondere l’io così

determinato con una delle sue rappresentazioni, quasi fosse uno degli enti che percepisce né tanto meno con una delle categorie di cui l’intelletto si serve per la sua attività conoscitiva. L’io-penso costituisce infatti il fondamento che rende possibile ogni rappresentazione e in quanto io-congiungo è la condizione di ogni possibile attività di sintesi.

Accanto a questa forma di autocoscienza pura che non si lascia determinare da nessuna rappresentazione o attività, Kant pone l’autocoscienza empirica grazie a cui l’io si coglie in quanto coscienza di qualcosa. È questa la personalitas psychologica ossia l’io che può essere determinato diventando oggetto dell’apprensione del senso interno19. Il tratto distintivo dell’io si trova, comunque, nella

personalitas moralis, il terzo e ultimo modo in cui si presenta il soggetto kantiano. Vi sono infatti due modi di intendere il concetto di personalitas: in un caso essa appare come un’autocoscienza trascendentale (io-soggetto) o empirica (io-oggetto), in un altro come una forma particolare di autocoscienza nella quale il riferimento a sé diviene coscienza di tale riferimento. La personalitas moralis è infatti caratterizzata dal “sentimento morale”, da quella modalità di

18 Ivi., p. 122: “L’io è il fondamento originario dell’unità delle sue molteplici determinazioni

nel senso che io, in quanto io, le posso abbracciare, in rapporto a me stesso, tutte assieme, le posso preliminarmente tenere tutte, cioè congiungerle, sintesi. (…) Questa congiunzione è di tal sorta che io, pensando, penso anche me stesso, cioè non afferro solo il pensato e il rappresentato, non percepisco solo questo, ma in ogni pensiero io penso anche me stesso, non percepisco, ma appercepisco l’io. L’unità sintetica originaria dell’appercezione è la

caratteristica ontologica del soggetto, inteso in senso eminente.”

19 Ivi, p. 124: “Kant distingue dalla personalitas trascendentalis, cioè dal concetto ontologico

dell’egoità in generale, la personalitas psychologica. Con questo termine egli intende l’effettiva facoltà, fondata sulla personalitas trascendentalis e cioè sull’io-penso, di divenir consapevoli dei propri stati empirici, cioè delle proprie rappresentazioni quali eventi sussistenti e sempre mutevoli.”

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manifestazione dell’io in cui questo non avverte solo qualcosa ma è consapevole di questo stato, non si limita a sentire ma sa di sentire20.

In cosa consiste, quindi, il “sentimento morale”? Cosa significa che “l’io che prova questo sentimento ha sentimento di se stesso”? Secondo Kant questo sentimento coincide con il rispetto per la legge morale: sottomettendosi ad essa l’io accetta di lasciarsi determinare dalla “ragione pura”, ritrovandosi come colui che è capace di agire. Detto diversamente, rispettando la legge l’io conosce se stesso non nella forma di un sapere teoretico né in quella di un’occasionale esperienza empirica di sé ma in quanto si riconosce libero, pienamente responsabile delle sue azioni21: “Il rispetto nei confronti

della legge”, dice il filosofo, “significa eo ipso un agire.”22

Il richiamo al carattere agente dell’io permette ad Heidegger di scalzare il primato teoretico del soggetto che caratterizzava ancora la riflessione di Husserl e prepara la strada alla determinazione dell’essere del soggetto che viene individuata nel fatto che l’uomo esiste, si pone come fine in se stesso: “Solo in questo modo è raggiunto il terreno su cui è possibile distinguere dal punto di vista ontologico ciò che è io e ciò che non è tale, il soggetto e l’oggetto, la res cogitans e la res extensa”23. È a questo punto, però, che compaiono

anche i limiti della concezione kantiana del soggetto: nonostante la necessità di distinguere l’io dalle cose, non viene approfondita la domanda sul modo d’essere fondamentale della persona cosicché il

20 Ivi, p. 127: “All’essenza del sentimento in generale non appartiene solo il fatto di esser

sentimento di qualcosa, ma anche il fatto che il sentimento è al tempo stesso un farsi sensibile dello stesso senziente e del suo stato, del suo essere nel senso più esteso.”

21 Ivi, p. 130: “Il rispetto è il modo in cui l’io è presso se stesso, ciò che permette all’uomo di

non rigettare l’eroe che è nel suo animo. Il sentimento morale come rispetto di fronte alla legge non è altro che l’esser-responsabile di se stessi nei confronti di se stessi e per se stessi. Il sentimento morale è un modo eminente in cui l’io comprende direttamente se stesso come io, libero e puro da ogni determinazione sensibile.”

22 Ivi, p. 131 23 Ivi, p. 132

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problema tende a risolversi, come già in Cartesio, nella semplice distinzione tra due sostanze. Non a caso l’io viene ancora pensato allo stesso modo dell’oggetto, come una res meramente sussistente, testimoniando, in questo modo, come Kant si muova ancora nell’orizzonte dell’ontologia classica24.

“Per chiarire questo, è necessario comprendere che la determinazione generale della persona è quella di sostanza finita e stabilire che cosa significa “finitezza”. Finitezza è il necessario esser rinviati alla ricettività, vale a dire l’impossibilità di esser creatori e produttori di una altro ente. Solo il creatore conosce un ente nel suo carattere autentico. Questo per Kant è un fondamento ovvio, mai espresso esplicitamente. Anche l’interpretazione kantiana delle sostanze finite e della loro connessione ci riconduce allo stesso orizzonte ontologico che già incontrammo nell’interpretazione dell’ουσία e di tutte le interpretazioni parallele che vengono date all’essenza dell’ente.”25

Il passo qui riportato ci permette di cogliere un aspetto importante delle lezioni del ’27: rispetto al corso del 1925/26, diventa più esplicita la convinzione che Kant appartiene alla tradizione di pensiero caratterizzata dall’oblio dell’essere in favore dell’ente. Per quanto compare un elemento di rottura, vale a dire la necessità di determinare l’autocoscienza in relazione all’agire del soggetto, la strada su cui si muove Kant è ancora quella tipica del pensiero moderno per il quale è preclusa la possibilità di cogliere

24 Ivi, p. 141: “Una cosa salta agli occhi: Kant parla tanto dell’esistenza (Dasein) della persona

quanto dell’esistenza di una cosa. Egli dice che la persona esiste come fine in se stessa. Egli usa il termine “esistere” nel senso di “sussistere”. Proprio quando tocca la struttura autentica della personalitas moralis, quella di essere fine in se stessa, egli assegna a questo ente il modo d’essere della sussistenza. Non è un caso. Nel concetto di “cosa in sé”, possa o meno questa esser conosciuta nella sua essenza, è già implicita l’ontologia della sussistenza. Più ancora: la centrale interpretazione positiva che Kant offre dell’egoità come intelligenza spontanea si muove tutta nell’orizzonte della tradizione ontologica antica e medievale. L’analisi del rispetto e della persona morale resta ancora soltanto un tentativo, sia pure immensamente significativo, di scuotere inconsciamente il giogo dell’ontologia tradizionale.”

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esplicitamente l’io teoretico e l’io pratico come modi d’essere del soggetto. Questo esito della riflessione kantiana si può comprendere, dice Heidegger, a partire della determinazione della persona come sostanza finita dal momento che proprio tale convinzione testimonia nel modo più esplicito i legami che essa stringe con la tradizione, in particolare con la filosofia medievale. Secondo Kant una sostanza è finita perché non è costituita dalla sola capacità di determinare effetti a partire da sé ma anche dalla predisposizione a ricevere gli effetti dalle altre sostanze. L’uomo, insomma, non è determinato ontologicamente soltanto come spontaneità ma anche come recettività, non può produrre da sé l’ente con cui entra in rapporto perché per conoscerlo ha bisogno di ricevere le sue affezioni. La finitezza, intesa come impossibilità di essere il produttore di un altro ente, diventa così il carattere costitutivo del soggetto kantiano: quest’ultimo non può mai determinare l’essere di un ente perché ciò sarebbe possibile solo se fosse il suo creatore. Una tesi, questa, che secondo Heidegger è strettamente connessa al pensiero medievale che concepisce l’esistenza (Wirklichkeit) come l’effetto (Wirkung) di una produzione.

In conclusione Kant, individuando un modello di soggettività (l’io agente) irriducibile alla pura dimensione conoscitiva, intravede la possibilità di avviare il progetto di un’ontologia della persona umana in grado di approfondire l’analisi del modo d’essere dell’io così determinato ma non riesce a liberarsi dell’impostazione dell’ontologia tradizionale. La concezione kantiana della soggettività, infatti, eredita l’idea cartesiana di soggetto come subiectum, sostrato che si pone a fondamento delle proprie determinazioni qualificandosi, in questo modo, come un dato, una res meramente

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sussistente accanto ad altre res; si muove all’interno della concezione medievale dell’essere nella quale l’ente è concepito sempre nell’ottica della produzione: in quanto sostanza finita l’io kantiano non è il creatore degli enti e, di conseguenza, non può conoscere il loro essere; accoglie, infine, molti contenuti dell’ontologia antica dal momento che l’idea dell’esistenza come il risultato di una produzione comporta un concetto di essere inteso come sussistenza (Vorhandenheit) e presenza costante (Anwesenheit): in quanto prodotto, l’ente è posto in maniera “assoluta”, come è “in e per se stesso”, libero da qualsiasi rapporto di dipendenza26.

Il fatto che Kant non sia riuscito ad elaborare sino in fondo il suo progetto spinge Heidegger ad interrogarsi sulla nozione di essere come presenza e sui legami che essa stringe con una prospettiva conoscitiva dominata dal concetto di verità come visione. Secondo il filosofo, un pensiero caratterizzato da questi presupposti è la conseguenza di un atteggiamento che ha sempre determinato l’essere a partire dall’ente, da ciò che si offre alla presenza per poter essere visto e giudicato nelle categorie del giudizio. La comprensione dell’essere propria della metafisica, in altri termini, contiene un riferimento al tempo dal momento che si serve della dimensione temporale del presente come punto di partenza per affrontare la problematica ontologica. Questo presupposto ermeneutico, però, non è stato mai preso in considerazione ed è emerso per la prima volta all’interno della Critica della ragion pura dove la connessione tra l’io-penso e il tempo confermerebbe proprio il fatto che ogni comprensione dell’essere richiede sempre l’adozione di un orizzonte

26 Ivi, p. 166: “Posizione assoluta […] significa, se viene compresa rettamente – anche se Kant

non la interpreta esplicitamente così - : posizione come lasciar-stare qualcosa in se stesso, assoluto, disciolto, affrancato in quanto “in e per se stesso”, come Kant dice.”

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temporale. Occorre pertanto sviluppare questo legame a cui abbiamo spesso fatto riferimento cercando di mostrare, come già è avvenuto per la nozione di soggetto, i limiti che Heidegger scorge nell’impostazione kantiana.

Prima, però, sarà opportuno ricapitolare le riflessioni sin qui condotte. La necessità di adottare un metodo come quello della distruzione fenomenologica deriva da un’esigenza teorica fondamentale per ogni indagine filosofica. In quanto questa opera sempre a partire da un contesto culturale già determinato è necessario rendersi conto dei fattori che condizionano l’accesso all’oggetto che si intende tematizzare. A formare tale contesto contribuiscono le interpretazioni che l’Esserci ha dato di se stesso in modo tale che ogni presa di coscienza dell’orizzonte tematico generale si accompagna sempre ad un’analisi particolare che l’Esserci fa di sé. Da ciò deriva che l’unico modo che abbiamo di procedere con consapevolezza nelle nostre indagini è quello di decostruire queste stratificazioni di senso attraverso un’analisi del modo in cui si dà il nesso che lega l’essere all’Esserci, il contesto generale all’interpretazione particolare. Detto diversamente, la tematica ontologica, affrontata come coappartenenza di essere ed Esserci, rappresenta lo sfondo costante per l’esercizio del pensiero e diventa, quindi, la condizione fondamentale di ogni ricerca filosofica. Ciò spinge Heidegger a criticare quelle forme di pensiero che, come nel caso della fenomenologia di Husserl, risultano carenti proprio nei loro assunti ontologici. Servendosi della sua interpretazione fenomenologica di Aristotele e interpretando la nozione husserliana di intenzionalità nei termini di trascendenza ed essere-nel-mondo, Heidegger mostra sia i limiti del predominio della dimensione teoretica, sia la necessità di richiamare l’attenzione sulla

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problematica temporale. La decostruzione dell’interpretazione teoreticista della verità, infatti, testimonia come le dottrine che discutono tale nozione rimanendo all’interno di una prospettiva logica ed epistemologica non si accorgano degli impliciti riferimenti ontologici che intervengono nelle loro indagini come quello della connessione tra la comprensione dell’essere operata dall’esserci e la temporalità quale determinazione fondamentale dei suoi modi di essere. In questo orizzonte si inserisce la fruizione di Kant, chiamato in causa nel tentativo di scorgere un’impostazione ontologica degna di essere tematizzata. Cosa che di fatto avviene quando Heidegger vede in lui l’unico pensatore che è stato in grado di intuire la necessità di discutere il problema dell’essere del soggetto individuando, da un lato, atteggiamenti differenti da quelli strettamente conoscitivi e, dall’altro, ritrovando nella temporalità la sua determinazione fondamentale. Questa scoperta è stata però offuscata da alcuni limiti che hanno impedito alle sue indagini di procedere nella direzione intravista. Questi limiti coincidono con l’incapacità di liberarsi definitivamente dell’idea cartesiana di soggetto e con l’adozione dell’immagine comune del tempo. Obiettivo diventa quello di riprendere il cammino lì dove Kant si è fermato, iniziando a interrogarsi sulla possibilità di un’interpretazione del soggetto che risulti veramente libera dal peso della tradizione. Detto in altri termini, la decostruzione della filosofia kantiana deve necessariamente passare attraverso una decostruzione del concetto di essere e della concezione naturale del tempo. Si profila, insomma, la necessità di approfondire il problema della costituzione ontologica della soggettività attraverso una nuova fondazione alla metafisica e uno esplicito chiarimento del rapporto

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tra l’io e il tempo.

1.2. Kant e la finitezza dell’uomo

Heidegger cerca di realizzare questo progetto nel libro su Kant e il problema della metafisica in cui il nesso essere-Esserci, da noi giudicato fondamentale per lo sviluppo di ogni indagine filosofica, viene analizzato alla luce della nozione di finitezza. In questo paragrafo cercheremo di sviluppare tale questione con l’obiettivo di procurarci gli strumenti necessari a chiarire le riflessioni contenute nella Lettera sull’«umanismo». Abbiamo già notato come in questo scritto Heidegger ritenga necessario che l’uomo si rapporti all’essere come a quella dimensione fondamentale nella quale può rendersi consapevole della finitezza che lo contraddistingue e della precarietà di ogni suo progetto di dominio sull’ente. Si tratterà, quindi, di mostrare innanzitutto come il carattere finito dell’Esserci determini la relazione che lo lega all’essere e, in secondo luogo, bisognerà capire quali siano le conseguenze di questo legame ad iniziare dalla determinazione dell’essenza dell’uomo come e-sistenza e dalla comprensione dell’essere prima a partire dalla sua storia e poi nel suo carattere di evento. Nelle prossime pagine cercheremo di riassumere brevemente le riflessioni di Heidegger sull’opera kantiana: dopo una introduzione che chiarirà il progetto filosofico che è alla base del libro su Kant e il problema della metafisica, la nostra attenzione si concentrerà sia sui passi in cui appare il significato centrale che riveste la costituzione finita dell’Esserci, sia su quelli in cui è posta la connessione tra io-penso e temporalità in vista della determinazione dell’essere del soggetto.

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Nella prima sezione dell’opera, Heidegger conduce, come suo solito, la discussione sul terreno dell’ontologia: la possibilità per la metafisica di conoscere l’ente soprasensibile coincide, infatti, “nel mettere in chiaro l’essenza di un rapportamento all’ente, nel quale l’ente si mostra in se stesso”27 per diventare oggetto di ricerca. Se ciò

che rende possibile tale rapporto è la comprensione preliminare dell’essere, “la fondazione della metafisica tradizionale prende le mosse dal problema dell’intrinseca possibilità dell’ontologia in quanto tale”28. L’interesse nei confronti della Critica della ragion pura si

basa, così, sulla convinzione che Kant abbia attribuito al problema della conoscenza ontologica un peso decisivo nello sviluppo del suo pensiero. La “rivoluzione copernicana”, infatti, altro non sarebbe che il tentativo di mostrare come la verità ontica si regoli su quella ontologica: l’“adeguazione” alle cose, in altri termini, è possibile solo se queste sono già manifeste e conosciute nella costituzione del loro essere. La possibilità di ottenere una tale conoscenza dell’essere diventa in Kant il problema della “ragion pura”, di come sia possibile una sintesi a priori che non sia ricavata dall’esperienza ma attraverso un’indagine trascendentale la cui caratteristica è proprio quella di andare oltre l’ente verso una comprensione preliminare dell’essere. Per questo Heidegger può concludere che interrogarsi sulla possibilità dell’ontologia significa affrontare il problema della trascendenza ontologica.

La seconda sezione dell’opera approfondisce il progetto di una fondazione della metafisica attraverso una riflessione sulla possibilità di una tale impresa e sulla direzione che essa deve seguire. Su questi temi occorrerà insistere particolarmente data l’importanza che

27 M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, op. cit., p. 19 28 Ivi, p. 21

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