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Umanesimo, storia e filosofia

2.1. Il dibattito sull’umanesimo

2.1.4. Fenomenologia e umanesimo

La filosofia può essere trattata solo storiograficamente? In quale altro modo, infatti, possiamo rapportarci ad una filosofia del passato se non adottando uno sguardo storiograficamente atteggiato? Così facendo, tuttavia, non si rischia di trasformare le filosofie in oggetti di studio di una determinata disciplina, in semplici fatti culturali che dopo aver influenzato le lettere, le arti, le scienze, la politica, dopo, per così dire, essere diventati di moda e aver raggiunto il loro apice, iniziano fatalmente a declinare? Oppure bisognerà pensare che ogni filosofia contiene qualcosa che è immune al divenire storico e al suo corso mutevole, che non può tramontare con l’andare e venire di una moda culturale? La storia e le cronache filosofiche possano, ad esempio, riguardare una tradizione come quella umanistica? La filosofia, insomma, è un problema teoretico o storiografico? A questi dubbi ha cercato di dar voce la fenomenologia. In questo paragrafo mostreremo come attraverso le risposte date a questi interrogativi essa abbia ricostruito, da un lato, il significato dell’epoca umanistica e dall’altro meditato sulla crisi che il pensiero occidentale stava attraversando nel Novecento. Ciò ci permetterà di compiere un’ulteriore passo verso l’opera di Heidegger dal momento che egli si formò, in parte, in questo indirizzo di pensiero dal quale mutuò non pochi temi e metodi di lavoro. Inizieremo, quindi, affrontando alcuni problemi che il padre delle fenomenologia, Edmund Husserl, discute

nella sua ultima opera, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.

Il punto di partenza delle riflessioni di Husserl è il disagio della ragione nell’epoca presente, in particolare della ragione scientifica. Le scienze, infatti, attraversano un periodo di crisi che impedisce loro di offrire strumenti validi ad affrontare “quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso”142. Ad essere messa in dubbio, tuttavia,

non è l’efficacia e la legittimità delle loro operazioni conoscitive143 ma

il modello di razionalità su cui fanno affidamento. La crisi di cui si parla non riguarda, cioè, il valore delle conquiste scientifiche raggiunto dalle singole discipline ma riguarda l’idea generale di scientificità, problema, questo, di natura eminentemente filosofica ma in grado di investire il senso stesso dell’attività scientifica nella sua pretesa di definirsi come razionale. Qual è il significato che le scienze contemporanee attribuiscono alla nozione di razionalità? Se ci si attiene alla situazione presente ciò che sembra valere come criterio di razionalità e, di conseguenza, di scientificità per un’attività conoscitiva è il suo vertere su universo meramente fattuale: razionale, in altre parole significa obiettivamente constatabile. È proprio questa la convinzione che secondo Husserl ha determinato la crisi delle scienze moderne. Ricondurre, infatti, la ragione a ciò che è puramente fattuale significa vivere in un’epoca che ha dimenticato la profondità

142 E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendental

Phänomenologie (1935), Den Haag Nijhoof 1954 (Husserliana VI); trad. it. a cura di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002 , p. 35

143 Ivi, p. 34: “Il rigore scientifico di tutte queste discipline [le scienze naturali matematiche

esatte], l’evidenza delle loro operazioni teoretiche e dei loro successi, che ormai si sono imposti in modo vincolante e per sempre, resta fuori discussione.”

dell’esistenza umana e l’importanza dei suoi valori144. La crisi delle

scienze diventa la crisi del significato che la razionalità ha per l’uomo e la sua esistenza. Tra ragione e vita si è insomma aperta una frattura, una scissione drammatica che fa sì che la crisi di una determinata formazione spirituale come la scienza sia anche la crisi dell’Europa intera, della sua cultura e della sua civiltà.

Cerchiamo di chiarire meglio quanto abbiamo detto sin’ora. Perché lo scienziato dovrebbe prender sul serio la diagnosi del filosofo ed iniziare a riflettere sulla scientificità del suo lavoro? La scienza si è dimostrata grande proprio nella misura in cui ha cercato di legittimare i suoi risultati sulla sola base delle verifiche sperimentali le quali nulla hanno a che vedere con queste disquisizioni di carattere filosofico. Alle astrazioni metafisiche ha sempre anteposto i fatti concreti: questa è stata la sua forza. Agli occhi di Husserl, tuttavia, questa abitudine ha rappresentato anche il suo limite: “le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto” del tutto impreparati ad affrontare gli autentici problemi dell’esistenza. Dichiarando che valgono solo le verità obiettive, quelle, cioè, che traggono la loro legittimazione in un accordo universalmente intersoggettivo che si fonda innanzitutto su riscontri di carattere empirico, lo scienziato rinuncia ad affrontare con la sua attività tutti i problemi di senso compresi quelli che riguardano la giustificazione delle sue operazioni. A ben vedere il senso di un fatto non è un fatto esso stesso così come l’idea che attribuisce ai fatti l’ultima parola non rappresenta una proposizione di fatto ma un’assunzione di senso. In 144 Ibid.: “L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo

complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla «prosperity» che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto.”

altre parole, quando lo scienziato sostiene che le verità della scienza sono tali perché sono verificabili e che questo è l’unico criterio a cui bisogna attenersi, non si accorge che la sua è una dichiarazione di senso grazie a cui si decide di dar valore a tutte le proposizioni verificabili. Proposizione, ovviamente, inverificabile. Se la scienza non prende coscienza di questa situazione apparirà sempre come un’attività infondata e, quindi, come qualcosa di irrazionale.

Ma c’è di più: una scienza così concepita impedisce alla ragione di procedere oltre i fatti con il rischio di vanificare il suo tentativo di autocomprendersi sia come ragione costitutiva l’esperienza scientifica stessa sia come ragione propriamente umana, capace, cioè, di porre quegli interrogativi che trascendono per loro stessa natura i fatti. Che ne sarà di tutti quei problemi che implicano, ad esempio, “una presa di posizione valutativa” se ci si limita a una semplice constatazione di come il mondo fisico e psichico di fatto sono? Cosa accade se “la storia non ha altro da insegnare se non che tutte le forme del mondo spirituale, tutti i legami di vita, gli ideali, le norme che volta per volta hanno fornito una direzione agli uomini, si formano e poi si dissolvono come onde fuggenti, che così è sempre stato e sempre sarà, che la ragione è destinata a trasformarsi sempre di nuovo in non-senso, gli atti provvidi in flagelli? Possiamo accontentarci di ciò, possiamo vivere in questo mondo in cui il divenire storico non è altro che una catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni?”145.

Il rifiuto positivistico della metafisica e il formarsi di un “concetto residuo” di razionalità sembra condannare la ragione al dettato delle scienze positive vanificando la sua pretesa di voler

legiferare sul terreno delle scelte e dei valori. La fine della modernità sembra portarsi con sé tutte le grandi pretese che hanno animato la ragione nel corso dei secoli. Per Husserl, tuttavia, questa situazione non è un destino che deve semplicemente accettare con il rischio di abbandonare l’umanità al relativismo e ad un totale scetticismo circa le proprie potenzialità. Essa è innanzitutto un fatto storico che ha motivazioni culturali e filosofiche ben precise su cui bisognerà riflettere e rispetto alle quali sarà opportuno reagire. Invece di abbandonare il progetto di una filosofia universale e veramente razionale occorrerà, pertanto, individuare l’origine delle difficoltà del presente in un passo falso del pensiero e ciò vorrà dire riflettere sulla storia della ragione in età moderna sino ad individuare quell’errore che ne ha impedito lo sviluppo. Due sono pertanto gli obiettivi che il filosofo deve porsi: riappropriarsi della responsabilità filosofica nei confronti del proprio tempo mostrando di aver ancora fiducia in una razionalità veramente universale (che per Husserl coincide con la ragione fenomenologica) e avviare una riflessione critica sul passato ripercorrendo il cammino della filosofia nell’epoca moderna per liberarla da quella mossa teorica sbagliata che le ha fatto perdere la sua dimensione universale e progettuale. È in questo contesto che compare l’importanza del periodo rinascimentale.

Sviluppando questo secondo obiettivo, infatti, Husserl si accorge che nel Rinascimento la scienza non aveva ancora abbracciato quell’idea di verità come semplice obiettività che sarà imperante con il positivismo. Anche quelle discipline che non avevano come tema l’uomo erano in grado di porre “interrogativi specificamente umani” tanto da poter rivestire ancora una funzione di guida per l’umanità europea. Come è stato possibile tutto questo? “Come è noto,

l’umanità europea attua durante il Rinascimento un rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena libertà. Essa riscopre nell’umanità antica un modello esemplare. Su questo modello essa vuole elaborare le sue nuove forme di esistenza.”146 Per Husserl la riscoperta dell’antico offrì agli uomini del

XV secolo la possibilità di appropriarsi di quelle condizioni che avrebbero permesso loro di progettarsi in maniera completamente nuova rispetto al medioevo. In particolare, con lo studio dell’antichità classica emerse quella “forma filosofica dell’esistenza” che era la caratteristica principale dell’uomo greco: “la capacità di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia”147. Questo significa che la ragione

potè finalmente procedere libera da ogni pregiudizio e dai vincoli della tradizione: muovendo unicamente da “una considerazione razionale del mondo” essa si determinò in virtù delle proprie forze. Questa raggiunta indipendenza non influenzò positivamente solo la “teoresi filosofica” ma ebbe importanti conseguenze anche a livello pratico perché permise di “riplasmare non soltanto se stessi eticamente, ma anche l’intero mondo circostante, l’esistenza politica e sociale dell’umanità in base alla libera ragione, in base alle intellezioni di una filosofia universale”148.

“La forma filosofica dell’esistenza” coincide quindi con la libertà di pensiero che si muove attraverso “indagini autonome e attraverso la critica” nei confronti della tradizione. Questo è un momento centrale nelle riflessioni di Husserl su cui converrà

146 Ivi, p. 37 147 Ibid. 148 Ibid.

richiamare l’attenzione. Perché viene attribuita tanta importanza alla riscoperta di questo modello di vita? I tratti che lo caratterizzano non sono proprio quelli che hanno permesso alla scienza moderna di diventare il vanto della nostra civiltà? Ogni scienziato che si rispetti, infatti, riconoscerebbe in esso un ideale di condotta e di vita. Bisognerà quindi giudicare la sua riscoperta durante l’epoca rinascimentale come quel passo falso che ha portato all’attuale situazione di crisi? Si può facilmente capire che non siano queste le convinzioni di Husserl se si riflette con più attenzione sulle pagine della sua opera.

Iniziamo chiarendo il significato di quel ritorno dell’antichità a cui si attribuisce tanta importanza. Se, per un momento, ripercorriamo brevemente le riflessioni di Garin, ritroviamo il valore principale di questa operazione nella scoperta del senso della storicità. Quella che si verificò nell’arte, nella letteratura e in ogni altro campo del sapere durante il periodo umanistico non fu una semplice imitazione degli antichi, una vuota riproposizione di esperimenti culturali già tentati in altre epoche, ma un evento decisivo per le sorti dell’umanità europea. Ritrovando una continuità tra il proprio mondo e quello degli antichi, gli umanisti operarono, in realtà, una frattura profonda con il modo tradizionale di rapportarsi al passato e di giudicare il presente: quest’ultimo, infatti, non continuò più ad affermare le pretese del passato ma iniziò a rivendicare i diritti del futuro. La convinzione della storicità di ogni evento, insomma, permise agli umanisti di trarsi fuori dalla storia per radicarsi meglio nel proprio tempo, per riappropriarsi di un futuro concepito come libera progettazione e non più come una necessaria prosecuzione di istanze metatemporali che avevano già agito nel

passato. Per Husserl, invece, il carattere rivoluzionario della riscoperta dell’antichità fu il giusto ritorno ad un passato, quello greco, che conservava intatto quel senso che il presente aveva smarrito e a cui bisognava rimanere fedeli in quanto occidentali. Significava, in altre parole, rivendicare il senso di appartenenza ad una tradizione ben precisa: quella nella quale era emersa la particolarità della civiltà europea rispetto a tutte le altre: “(…) noi sentiamo”, scrive Husserl, “(e, nell’oscurità che ancora ci circonda, anche questo sentimento ha una propria legittimità) che nella nostra umanità europea è innata un’entelechia che permane attraverso tutte le vicende delle forme di vita europee e che attribuisce loro il senso di uno sviluppo verso quella forma di vita e di essere che costituisce il suo eterno polo ideale”149. A cosa ci riferiamo qui? Proprio a quella

forma filosofica dell’esistenza.

L’esercizio della libera ragione che essa permette non è la pratica di quella ragione strumentale che si è imposta con le scienze esatte. La ragione di cui si parla è una Ragione con la maiuscola, ben altra cosa rispetto a quel concetto residuo di cui abbiamo parlato precedentemente. Agli inizi dell’epoca moderna si è affermata un’idea di razionalità che ha reso possibile affrontare, nell’unità di un sistema teoretico coerente, non solo i problemi relativi alla conoscenza del mondo ma anche quelli che riguardavano l’esistenza, non solo i fatti ma anche i valori, l’essere come pure il dover essere. Nel Rinascimento Husserl vede, così, una valida alternativa a quella nozione angusta di razionalità che si è venuta affermando nel corso dei secoli. In quel periodo, infatti, l’imitazione degli antichi significò il ritorno di un’idea di scienza capace di abbracciare l’intero ambito dei

problemi della ragione150, comprese le questioni ultime e supreme da

cui la scienza moderna avrebbe preso congedo. Una filosofia che si pone come l’albero da cui si diramano le singole discipline e da cui traggono il loro senso e insieme la loro reciproca connessione diventa, non a caso, la metafora per sottolineare la necessità di ricordarsi della dimensione filosofica della scienza, della sua appartenenza a un progetto razionale più vasto nel quale rientrano anche le questioni fondamentali dell’esistenza umana151.

Tale progetto, tuttavia, andò incontro al fallimento. Scrive Husserl: “Un ideale definito, quello di una filosofia universale e di un metodo adeguato costituisce l’inizio, per così dire, la fondazione originaria dell’epoca moderna in filosofia e di tutte le sue linee di sviluppo. Ma invece di realizzarsi, quest’ideale conosce un’intima dissoluzione”152. Perché accadde tutto questo? Divenne presto chiaro

che questo ideale ancora presente in Europa durante l’Illuminismo poteva essere applicato con successo solo nelle scienze esatte. In filosofia, invece, in mancanza di un metodo appropriato, si verificò una proliferazione di sistemi metafisici spesso in lotta fra di loro che alla lunga determinò una perdita di fiducia in una ragione veramente

150 Ivi, pp. 37-38: “Occorre qui sottolineare il fatto che l’idea della filosofia ereditata dagli

antichi non corrisponde al nostro concetto scolastico, il quale include soltanto un gruppo di discipline; appena riscoperta, l’idea di filosofia si trasforma in modo essenziale, ma formalmente essa mantiene nei primi secoli dell’epoca moderna il senso di una scienza

onnicomprensiva, di scienza della totalità dell’essere. Le scienze al plurale, sia quelle già in atto sia quelle che ancora devono essere, non sono che rami dipendenti di un’unica filosofia.”

151 Ivi, p. 39: “Il positivismo decapita per così dire la filosofia. Già nell’antica idea di

filosofia, la quale aveva la sua unità nell’inscindibile unità dell’essere, era implicato un ordine di senso dell’essere e quindi dei problemi dell’essere. Perciò alla metafisica, alla scienza delle questioni ultime e supreme, spettava la dignità di regina delle scienze; il suo spirito conferiva a tutte le conoscenze, a quelle raggiunte da tutte le altre scienze, il loro senso particolare. Anche questo passò nella filosofia al momento del suo rinnovamento, anzi essa credette pure di aver scoperto il vero metodo universale con cui costruire una filosofia sistematica culminante nella metafisica, una filosofia seriamente concepita come

philosophia perennis.

universale: “Si delinea così una lunga epoca che da Hume e Kant giunge fino ai nostri giorni, l’epoca della lotta appassionata per la comprensione dei veri motivi di un secolare fallimento”153. Il risultato

di questa situazione fu che le discipline scientifiche proseguirono da sole abbandonando quella concezione organica della vita e della cultura che aveva segnato gli inizi della modernità.

Se le cose stanno così, non sorprende, quindi, che nell’epoca presente il dominio professionale di determinate competenze abbia definitivamente soppiantato l’interesse per le questioni di senso. La scienza con il tempo si è arresa al naturalismo, ha iniziato a considerare gli enti come un fatto scontato sulla cui disponibilità per il lavoro del ricercatore è inutile interrogarsi. Di fatto, però, ha anche dimenticato che essi sono visibili come tali solo in virtù di una considerazione razionale abituata a rivolgersi al vero essere delle cose. Concentrandosi unicamente sull’ente che è oggetto delle proprie ricerche, ha dimenticato “il problema della possibilità della metafisica”, quella preventiva domanda filosofica sull’essere che ritornando “alle cose stesse”, interrogandosi sugli enti in quanto tali, indipendentemente da altre considerazioni di carattere mitico, religioso o morale, ha reso storicamente possibile la nascita della scienza. Questa domanda, secondo Husserl, non può essere spiegata in base a circostanze casuali perché in essa si trova il senso della nostra storia, la scelta originaria compiuta dall’uomo europeo da cui è poi nato quell’ideale di filosofia universale a cui bisogna ritornare. È qui che la ricerca storica si salda a quella metafisica, che la genealogia abbraccia la teleologia.

Per quanto il filosofo viva in un “contraddizione esistenziale” che rivela l’insensatezza della sua stessa disciplina, il suo dovere è quello di ripercorre la storia del pensiero per cogliere quell’unità di fondo che lo governa e portare la ragione alla comprensione delle proprie possibilità154. La crisi della scienza, lo si è visto, è la crisi della

ragione, della filosofia intesa come progetto universale. Anche quest’ultima, come le scienze, è diventata una disciplina settoriale praticata da professionisti che preferiscono disperdersi in ambiti qualificati con qualche “ismo” invece che impegnarsi a costruire una prospettiva filosofica universale capace di arginare la frana irrazionalistica. Rispetto allo scetticismo dilagante che scambia una situazione di fatto – l’indebolimento della ragione – per una verità assoluta, la fenomenologia di Husserl intende penetrare “attraverso la crosta dei «fatti storici» esteriori della storia della filosofia” e chiarire quell’impulso originario in cui consiste il senso della filosofia. Tale nascosta teleologia non si lascia però esaurire dalla mera storiografia (Historie) che la ridurrebbe a semplice cronaca tra le cronache, all’eventualità accidentale di un determinato tipo antropologico, quello europeo. In essa c’è di più: è in gioco il destino (Geschichte) dell’umanità intera in quanto razionale:

“La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa