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Kant e la finitezza dell’uomo

Heidegger cerca di realizzare questo progetto nel libro su Kant e il problema della metafisica in cui il nesso essere-Esserci, da noi giudicato fondamentale per lo sviluppo di ogni indagine filosofica, viene analizzato alla luce della nozione di finitezza. In questo paragrafo cercheremo di sviluppare tale questione con l’obiettivo di procurarci gli strumenti necessari a chiarire le riflessioni contenute nella Lettera sull’«umanismo». Abbiamo già notato come in questo scritto Heidegger ritenga necessario che l’uomo si rapporti all’essere come a quella dimensione fondamentale nella quale può rendersi consapevole della finitezza che lo contraddistingue e della precarietà di ogni suo progetto di dominio sull’ente. Si tratterà, quindi, di mostrare innanzitutto come il carattere finito dell’Esserci determini la relazione che lo lega all’essere e, in secondo luogo, bisognerà capire quali siano le conseguenze di questo legame ad iniziare dalla determinazione dell’essenza dell’uomo come e-sistenza e dalla comprensione dell’essere prima a partire dalla sua storia e poi nel suo carattere di evento. Nelle prossime pagine cercheremo di riassumere brevemente le riflessioni di Heidegger sull’opera kantiana: dopo una introduzione che chiarirà il progetto filosofico che è alla base del libro su Kant e il problema della metafisica, la nostra attenzione si concentrerà sia sui passi in cui appare il significato centrale che riveste la costituzione finita dell’Esserci, sia su quelli in cui è posta la connessione tra io-penso e temporalità in vista della determinazione dell’essere del soggetto.

Nella prima sezione dell’opera, Heidegger conduce, come suo solito, la discussione sul terreno dell’ontologia: la possibilità per la metafisica di conoscere l’ente soprasensibile coincide, infatti, “nel mettere in chiaro l’essenza di un rapportamento all’ente, nel quale l’ente si mostra in se stesso”27 per diventare oggetto di ricerca. Se ciò

che rende possibile tale rapporto è la comprensione preliminare dell’essere, “la fondazione della metafisica tradizionale prende le mosse dal problema dell’intrinseca possibilità dell’ontologia in quanto tale”28. L’interesse nei confronti della Critica della ragion pura si

basa, così, sulla convinzione che Kant abbia attribuito al problema della conoscenza ontologica un peso decisivo nello sviluppo del suo pensiero. La “rivoluzione copernicana”, infatti, altro non sarebbe che il tentativo di mostrare come la verità ontica si regoli su quella ontologica: l’“adeguazione” alle cose, in altri termini, è possibile solo se queste sono già manifeste e conosciute nella costituzione del loro essere. La possibilità di ottenere una tale conoscenza dell’essere diventa in Kant il problema della “ragion pura”, di come sia possibile una sintesi a priori che non sia ricavata dall’esperienza ma attraverso un’indagine trascendentale la cui caratteristica è proprio quella di andare oltre l’ente verso una comprensione preliminare dell’essere. Per questo Heidegger può concludere che interrogarsi sulla possibilità dell’ontologia significa affrontare il problema della trascendenza ontologica.

La seconda sezione dell’opera approfondisce il progetto di una fondazione della metafisica attraverso una riflessione sulla possibilità di una tale impresa e sulla direzione che essa deve seguire. Su questi temi occorrerà insistere particolarmente data l’importanza che

27 M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, op. cit., p. 19 28 Ivi, p. 21

rivestono ai fini della nostra indagine. Innanzitutto, il problema della conoscenza ontologica viene ricondotto al problema di come sia possibile una conoscenza in generale. Questa si mostra innanzitutto come il prodotto dell’intuizione e rimanda perciò alla costituzione finita dell’essere umano. Intuizione, infatti, significa intuitus derivatus nel senso che la conoscenza non è in grado di darsi da sé l’oggetto ma ha bisogno di essere prodotta come il risultato di un’affezione da parte dell’oggetto medesimo. Perché si dia un’autentica conoscenza è inoltre necessaria una rappresentazione per concetti in modo tale che l’ente venga riconosciuto anche dagli altri attraverso la determinazione dei suoi caratteri generali. Tale compito è assolto dal pensiero che, attribuendo un predicato ad un soggetto, si unifica con l’intuizione sensibile rendendo manifesto l’ente incontrato. Non bisogna però credere che l’intelletto si differenzi dalla ricezione intuitiva perché in grado di creare l’ente attraverso la produzione della forma del concetto. Come vedremo, infatti, la sua spontaneità rimane sempre vincolata all’intuizione e alla finitezza che la caratterizza.

Questo carattere finito della conoscenza non si mostra soltanto se riflettiamo sulla sua struttura (la sintesi tra l’intuizione e l’intelletto) ma anche se ci rivolgiamo alle caratteristiche dell’oggetto conoscibile. A tal proposito, Kant introduce la differenza tra la “cosa in sé” e il “fenomeno” e individua così due diverse regioni dell’essere di cui, solo la seconda, l’ambito fenomenico, può essere conosciuto dall’intelletto umano: il carattere inaccessibile della “cosa in sé” determinerebbe, perciò, la natura finita della conoscenza. Heidegger, invece, interpretando la “cosa in sé” come “fenomeno”, come l’ente stesso che si mostra all’intuizione ricettiva per poter essere conosciuto

nella sintesi veritativa, trasforma una differenza ontologica in una differenza gnoseologica29. Detto in altri termini, le difficoltà relative al

dualismo ontologico posto da Kant svaniscono se si riflette in che modo l’ente è fuori di noi e come possiamo conoscerlo: se l’ente è fuori di noi come cosa in sé la sua conoscenza non ci riguarda perché si identificherebbe con l’intuizione infinita dal cui possesso siamo esclusi; diversamente vanno le cose se intendiamo l’ente fuori di noi come il fenomeno perché, in tal caso, la sua conoscenza coinciderebbe con l’intuizione finita a noi perfettamente accessibile30.

Dopo aver illustrato la dinamica del processo conoscitivo, Heidegger ritorna sulla sintesi tra intuizione e intelletto cercando di scorgere in essa il terreno originario su cui radicare la fondazione della metafisica. La dualità delle due fonti di conoscenza merita, infatti, di essere indagata più in profondità dal momento che la sua sintesi non si risolve in un semplice rapporto di coesistenza in cui l’unità è data come il risultato successivo all’incontro fra due facoltà. L’essenza della conoscenza finita riposa, invece, nel fatto che proprio tali facoltà risultano già date e accomunate31 in una unificazione

presente da sempre. Diventa quindi necessario interrogarsi sulla conoscenza preliminare di questa unità indipendente dall’esperienza che rende possibile la conoscenza dell’ente. Si chiede Heidegger:

“come può l’esserci finito dell’uomo andar oltre (trascendere) l’ente in via affatto preliminare, dal momento che non solo non ha creato tale ente, ma è

29 Ivi, p. 38: “I due aspetti dell’ente, «fenomeno» e «cosa in sé», corrispondono ai due

diversi modi in cui l’ente può avere relazione, rispettivamente, alla conoscenza infinita e a quella finita: l’ente nel suo stato nativo [im Entstand] e lo stesso ente come oggetto [als

Gegenstand]”

30 Ivi, p. 39: .“Come cosa in sé, l’ente è fuori di noi in quanto noi, essere finiti, siamo esclusi

dal tipo adeguato di intuizione, l’intuizione infinita. Se invece l’espressione si riferisce ai fenomeni, allora l’ente è fuori di noi perché noi non siamo questo ente, al quale tuttavia abbiamo accesso”.

anzi, proprio per poter esistere come esserci, assegnato all’ente? Il problema della possibilità dell’ontologia verte, quindi, sulla essenza e sul fondamento essenziale della trascendenza della comprensione preliminare dell’essere. Perciò il problema della sintesi trascendentale, ossia della sintesi costitutiva della trascendenza, può essere posto in questi termini: come deve essere, secondo la sua più intima essenza, l’ente finito che chiamiamo uomo, per poter, in generale, essere aperto all’ente, che non è l’uomo stesso e che quindi deve potersi mostrare da sé?”32

Questa domanda guiderà il filosofo nelle sue riflessioni sulla Critica della ragion pura. Notiamo come il legame tra essere ed Esserci appare qui in tutta la sua chiarezza: il tentativo di fondare la metafisica poggia, in ultima istanza, sull’indagine delle caratteristiche peculiari di quell’ente, l’uomo, che in virtù della sua costituzione finita può rapportarsi a ciò che altro da sé attraverso la preventiva domanda sull’essere, interrogandosi, cioè, sul senso di ciò che fonda tale rapporto.

Alla luce di queste considerazioni, inoltre, risulta più chiaro che quanto detto in merito alla distruzione fenomenologica non aveva soltanto lo scopo di mostrare la modalità con cui Heidegger si rivolge ai filosofi del passato ma intendeva anche individuare il nesso essere-Esserci come uno dei capisaldi della sua ricerca filosofica. L’importanza di questo legame emerge proprio nel libro su Kant dove il problema della fondazione della metafisica è messo in relazione con il problema della costituzione ontologica del soggetto. Appare evidente che la disciplina nella quale l’uomo si è tradizionalmente interrogato intorno all’essere e alla realtà soprasensibile non rappresenta un’occupazione occasionale dell’Esserci ma costituisce una caratteristica fondamentale del suo

modo d’essere in quanto ente finito. La finitezza, in altri termini, radica la domanda metafisica nella natura più profonda dell’essere umano, configurandosi come il modo d’esser metafisico dell’Esserci, come la dimensione principale in cui matura il legame che questi stringe con l’essere e da cui trae legittimità ogni suo tentativo di comprensione.

La discussione procede individuando le fasi attraverso cui si svolge il processo di fondazione:

a) L’enucleazione degli elementi della conoscenza pura (intuizione e pensiero)

b) La caratterizzazione dell’unità essenziale di questi elementi nella sintesi pura

c) La chiarificazione della possibilità di questa sintesi pura (deduzione trascendentale)

d) Lo svelamento del fondamento di tale possibilità (lo schematismo) e) la determinazione dell’essenza della conoscenza ontologica

Nelle prossime pagine proveremo a percorrere queste tappe che, a giudizio di Heidegger, costituiscono i momenti principali per “ritornare” a quel fondamento da cui dipende la possibilità della conoscenza ontologica.

Per quanto riguarda i primi due stadi della fondazione, ci sembra opportuno sottolineare le riflessioni sulla nozione di tempo e quella relativa al problema della sintesi originaria. Seguendo le indicazioni di Kant, Heidegger evidenzia il primato che riveste l’intuizione pura del tempo rispetto a quella dello spazio. Il motivo di questo privilegio deriva dal fatto che ogni rappresentare nello spazio deve necessariamente avvenire in un istante ben determinato: la determinazione temporale, quindi, non interessa soltanto i fenomeni

del senso interno ma, mediamente, anche quelli che riguardano il senso esterno. A questo punto Heidegger interviene dichiarando al lettore di voler approfondire più avanti le ragioni di questo primato quando si potrà dimostrare che il tempo inerisce al soggetto più originariamente dello spazio33. Il riferimento qui è alla terza sezione

dell’opera, quando la connessione tra io-penso e tempo diventerà la chiave di volta per spiegare la costituzione ontologica dell’Esserci.

L’altro elemento interessante è quello relativo alla determinazione dell’unità essenziale che si verifica con la conoscenza pura. L’interpretazione ontologica dell’opera kantiana obbliga Heidegger a insistere su questo argomento perché proprio nella sintesi conoscitiva si realizza quella precomprensione dell’essere che costituisce il terreno originario su cui è possibile fondare la metafisica. L’idea di essere quale presupposto preliminare ad ogni indagine conoscitiva, antecedente a tutti i tentativi di determinazione ontica propri delle singole discipline scientifiche, spinge il filosofo a ricercare nell’opera kantiana indicazioni capaci di liberarla da quelle interpretazioni ancora troppo legate agli schemi concettuali tipici della teoria della conoscenza. In questo senso due sono le considerazioni da fare: da un lato, viene ribadita l’importanza che riveste il carattere finito della conoscenza e la necessità di porre, proprio per questa ragione, il pensiero puro al servizio dell’intuizione in modo da vedere queste facoltà in un rapporto di reciproca dipendenza; dall’altro si insiste sull’importanza che riveste l’unità originaria di sensibilità e intelletto intesa come loro fondamento

33 Ivi, p. 52: “La funzione ontologica universale, che Kant attribuisce al tempo all’inizio

della fondazione, si potrà dunque sufficientemente giustificare solo qualora proprio il tempo, e proprio nella sua funzione ontologica, cioè come fattore costitutivo essenziale della conoscenza ontologica pura, ci costringa a determinare più originariamente l’essenza della soggettività.”

comune34. In altri termini, secondo Heidegger, con il problema della

sintesi pura, emerge il bisogno di individuare nella conoscenza dell’essere il punto di partenza per superare la tradizionale dicotomia tra soggetto e oggetto, tra pensiero puro e intuizione pura che ancora caratterizzava l’impostazione filosofica neokantiana. Da ciò derivano, a nostro avviso, due conseguenze: la trasposizione dell’apriorico nell’ontologico e l’abbandono del primato della logica trascendentale in seguito alla centralità che il carattere finito della conoscenza umana riveste nell’estetica trascendentale. La discussione su come sia possibile una conoscenza a priori si trasforma nella necessità di tematizzare quell’ambito che si pone oltre l’esperienza dell’ente, ossia la dimensione dell’essere; il problema delle categorie, dei concetti puri dell’intelletto, cessa di essere un tema tipico della logica ma investe anche il momento dell’intuizione, anzi, richiede un’indagine più approfondita dell’unità essenziale in cui questi due ambiti risultano accomunati35. Tali questioni vengono approfondite nel terzo

stadio della fondazione dove si discute il modo in cui Kant ha cercato di legittimare l’applicazione delle categorie all’ambito dell’esperienza mediante la loro deduzione trascendentale. Per una maggiore chiarezza, però, riportiamo prima il passo del testo che meglio

34 Ivi, p. 58: “La finitezza della conoscenza rivela precisamente un intrinseco, peculiare

stato di assegnazione del pensiero all’intuizione o, per converso, nell’intuizione, un’esigenza di determinazione da parte del pensiero. Il rapporto reciproco degli elementi indica chiaramente che la loro unità non può essere «posteriore», ma deve intervenire già «prima» degli elementi medesimi e dev’essere posta come loro fondamento.”

35 Ivi, pp. 64-65: “Se l’essenza del pensiero consiste nella sua relazionalità ancillare

all’intuizione, allora un’analitica del pensiero puro, intesa nel giusto senso, deve precisamente introdurre nell’ambito della propria problematica anche questa relazionalità in quanto tale. Il verificarsi di quanto detto in Kant viene così, a provare che il tema è sempre la finitezza del pensiero. Se si dà al predominio della logica trascendentale questo significato, allora veramente ciò che ne consegue è tutt’altro che una degradazione della funzione dell’estetica trascendentale, e tanto meno la soppressione completa della medesima. Al contrario, lo stesso primato della logica trascendentale, quando se ne veda il fondo, si annulla, non certo a favore dell’estetica trascendentale, bensì a tutto favore di un’impostazione della ricerca, che riprenda il problema centrale dell’unità essenziale della conoscenza ontologica e della sua fondazione su una base più originaria.”

riassume i propositi di Heidegger e che mostra lo stretto legame tra la costituzione finita dell’uomo e “il problema centrale dell’unità essenziale della conoscenza ontologica e della sua fondazione su una base più originaria”, ossia il problema dell’essere:

“Un essere conoscente finito è in grado di rapportarsi all’ente, con il quale non si identifica e che nemmeno è sua creazione, solo allorquando questo ente, già presente, gli si fa incontro da sé. D’altra parte, affinché un ente possa essere incontrato per quello che è, occorre che esso sia già stato, fin da principio «conosciuto» come ente, ossia relativamente alla costituzione del suo essere. Ne consegue, implicitamente, che la conoscenza ontologica, o meglio, in questo caso, sempre preontologica, è la condizione della possibilità che, in generale, qualcosa come un ente giunga ad obiettarsi [entgegenstehen] a un essere finito. All’essere finito è necessaria questa facoltà fondamentale di volgersi a…, consentendo l’obiettarsi di… Solo in questo volgersi originario, l’essere finito tiene davanti a sé un campo d’azione, all’interno del quale qualcosa può “corrispondergli”. Tenersi fin da principio in tale campo, formarlo originariamente: tutto ciò non è altro che la trascendenza, contrassegno di ogni rapportamento finito dell’ente. Ma se la possibilità della conoscenza ontologica trova fondamento nella sintesi pura, e se, d’altro canto, la conoscenza ontologica rende possibile proprio il rapporto nel quale vien dato adito all’obiettarsi di…, allora la sintesi pura si deve manifestare come ciò che sorregge e connette il tutto unitario dell’intrinseca strutturazione essenziale della trascendenza. Mediante il chiarimento di questa compagine, formata dalla sintesi pura, si svela allora la più intima essenza della finitezza della ragione.”36

Secondo Heidegger, con la deduzione trascendentale Kant pone il problema decisivo in vista della determinazione dell’essere del soggetto. Cerchiamo di chiarire questo punto. Il carattere finito della uomo si rivela nel suo bisogno di ricevere le affezioni dall’ente

con cui viene in contatto per poterlo conoscere. Ma da cosa dipende la possibilità di una tale ricezione? In che modo l’ente arriva a porsi come un oggetto semplicemente presente davanti a noi? Se riflettiamo sul modo in cui matura il processo di obiettivazione ci rendiamo conto che esso consiste in un volgersi preliminare mediante il quale ci riferiamo al molteplice sensibile rappresentandolo nell’unità del concetto logico. Le varie informazioni che ricaviamo dai nostri sensi sono ricondotte in quell’orizzonte unitario apriorico (sintesi veritativa o ontologica) che permette alle varie sintesi dell’intuizione pura (spazio e tempo) e dell’intelletto (categorie) di svolgere la loro funzione di raccoglimento e presentificazione del dato oggettivo. Ora, dal momento che la facoltà preposta all’unificazione è l’intelletto, sembrerebbe che proprio il pensiero puro rivesta un ruolo centrale nella conoscenza. Si tratta, tuttavia, di una conclusione fuorviante: l’intelletto, infatti, invece di sancire il superamento dei limiti dell’intuizione ricettiva mediante la produzione delle sue forme aprioriche, restaura la finitezza al massimo grado37 dal momento che

proprio svolgendo la sua attività di sintesi rivela la necessità di quell’unificazione originaria con la quale possiamo preliminarmente rivolgerci all’oggetto e in cui riposa l’essenza della finitezza. La trascendenza, questo volgersi preliminare verso “ciò che è di contro [dawider]”, diventa, in altri termini, la caratteristica fondamentale dell’Esserci, il segno più evidente della sua costituzione finita.

Attraverso il problema della sintesi pura, Kant ha cercato di determinare la possibilità della conoscenza ontologica attraverso lo svelamento della trascendenza dell’Esserci. Si capiscono allora i

37 Ivi, p. 71: “In realtà, l’intelletto è la facoltà suprema – nella finitezza. È il finito in sommo

grado. Ma se le cose stanno in questi termini, allora proprio nell’obiettazione, come risultato dell’attività radicale dell’intelletto puro, deve venire alla luce con la massima crudezza lo stato di assegnazione dell’intelletto medesimo all’intuizione.”

meriti che Heidegger gli attribuisce: con la deduzione trascendentale emerge il problema della costituzione fondamentale della soggettività (la trascendenza) proprio in relazione al nesso essere-Esserci. È evidente, in altri termini, che il tentativo compiuto dall’uomo per riappropriarsi delle condizioni nelle quali matura la comprensione dell’essere dell’ente deve necessariamente partire dalla constatazione del carattere finito della sua natura. La finitezza, infatti, obbliga l’Esserci ad andare oltre l’ente con cui entra in relazione alla ricerca di quell’essenza che lui non riesce a creare ma che permette all’ente di essere ciò che è. C’è da chiedersi se l’interesse ontologico che muove la riflessione heideggeriana nasconda o meno la volontà di superare i limiti della dimensione ontica per ritrovare nell’essere il luogo in grado di riscattare la sua condizione finita.

Per ora rimandiamo la discussione di questo argomento dal momento che riteniamo necessario indagare meglio il fenomeno della finitezza ponendoci le seguenti domande: in che modo è possibile cogliere il nesso essere-Esserci? Come si realizza la comprensione preliminare del collegamento attuato nella sintesi ontologica? Se la recettività determina l’essere dell’uomo come essere-nel-mondo, in che modo egli può rendersi conto della sua inclusione nell’orizzonte