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DEL LAVORO

Nel documento Cronache Economiche. N.003-004, Anno 1977 (pagine 86-89)

Giuliana Bertin

Da parecchio tempo è in atto da parte delle imprese, delle forze politiche e dei sindacati, una revisione critica del si-stema tayloristico sul quale, per decen-ni, si è basata l'organizzazione del la-voro. Oggi, al di là delle polemiche e degli slogan di parte, esiste un dato di fatto incontrovertibile che deve essere seriamente considerato e che è legato all'evoluzione stessa della civiltà indu-striale. La struttura della forza lavoro, profondamente mutata, non si concilia più con un assetto produttivo rigido. Di qui la necessità di continui interventi destinati a rimediare in parte a questo contrasto e che tuttavia si rivelano in-sufficienti a riportare l'organizzazione produttiva ai livelli di efficienza per i quali era stata progettata.

Alla ricerca di una produttività che sembra ormai non essere più consentita dal sistema, sono stati effettuati in tutto il mondo esperimenti di ogni tipo, tesi per lo più a ridurre l'alienazione del la-voro che deriva dall'eccessiva parcelliz-zazione delle mansioni, dalla ripetitività e dai ritmi.

Questi esperimenti non sempre hanno avuto successo, specialmente nei casi in cui alla modifica dell'organizzazione del lavoro non si è affiancato alcun cambia-mento nella tecnologia del prodotto o del processo; in questi casi si è talvolta riscontrata un'opposizione degli stessi lavoratori al nuovo schema organizza-tivo. D'altro canto, un aspetto comune alle nuove forme di organizzazione del lavoro è quello di richiedere un mag-giore impiego di capitale fisso.

Ma fino a che punto può avere senso economicamente per un'impresa accol-larsi modifiche della struttura produtti-va che in pratica finiscono per graprodutti-vare pesantemente sui costi e che non si giustificano con il modesto aumento di produttività che consegue alla diminu-zione di conflittualità e assenteismo? Lo chiediamo al professor Gian Maria Gros-Pietro, docente di economia d'im-presa all'Università di Torino e diretto-re del laboratorio torinese del Consiglio nazionale delle ricerche che sta condu-cendo un'analisi sulle nuove forme di organizzazione del lavoro.

« Se si accetta la logica d'impresa, se si parte dal presupposto che essa è un or-ganismo che deve produrre reddito, di-rei che questo tipo di esperimento ha un significato limitato. I tentativi per indi-viduare nuove soluzioni organizzative devono essere valutati, a mio avviso, non solo in relazione alle pur giuste motivazioni di carattere psicologico e sociologico ma anche sulla base dei ri-sultati in termini di produttività. Infatti, innovazioni organizzative che non fossero competitive potrebbero es-sere accolte dalle imprese per risolvere temporanee difficoltà ma certamente non verrebbero estese a nuove realizza-zioni. Pertanto esse non costituiscono uno schema di riferimento valido per lo sviluppo industriale ».

Come si presenta la situazione in Italia? « Possiamo dividere gli esperimenti ita-liani in due grandi filoni. Alcuni si pongono, come scopo principale, di li-mitare le conseguenze negative sul pia-no psicofisico del sistema tayloristico e rivestono un loro particolare interesse. Infatti, l'ambiente in cui operano le im-prese italiane ha una caratteristica pecu-liare che non si riscontra all'estero: la rigidità della forza lavoro. Se in paesi come la Svezia o la Germania, nei quali vige un regime che possiamo definire di pieno impiego, un lavoro non piace si ha come prima conseguenza un fortis-simo turn over; in Italia ogni tensione finisce per scaricarsi attraverso la con-flittualità. Altri esperimenti, invece, hanno migliorato la produttività attra-verso impostazioni realmente innovati-ve. Essi sono dettati — a mio avviso — dalla consapevolezza che le condizioni

nelle quali opera l'impresa sono pro-fondamente mutate e che occorre di conseguenza adeguare l'organizzazione del lavoro ».

Abbiamo assistito negli ultimi anni a un vero e proprio rivolgimento di valori e di situazioni nell'ambiente interno ed esterno all'impresa. Quali sono i muta-menti più significativi dei quali deve tener conto l'imprenditore quando si af-fronta il problema dell'organizzazione del lavoro?

« Le nuove condizioni operative che l'imprenditore deve considerare sono da un lato il comportamento della forza lavoro, dall'altro l'evoluzione dei mercati.

L'atteggiamento psicologico del lavora-tore è un dato che deve essere attenta-mente vagliato. Fenomeni come l'assen-teismo, o la difficoltà di predeterminare i ritmi lavorativi reali con una soddi-sfacente approssimazione, caratteristici della moderna società industriale, pro-vocano una caduta di produttività più che proporzionale alle variazioni del la-voro prestato.

In campo internazionale le industrie dei paesi più avanzati, e quindi anche quel-le italiane, si troveranno fra poco a dover sostenere la concorrenza spietata dei paesi emergenti che si stanno at-trezzando per le tecnologie tradizionali e si preparano a immettere sul mercato prodotti altamente competitivi, perché il costo della manodopera in queste zone è molto più basso. Lo studio per nuove forme di organizzazione del lavoro non può prescindere da questi due aspetti cosi diversi e cosi ' complementari fra di loro ».

Come può far fronte l'imprenditore a queste situazioni obiettive e in che mi-sura può incidere positivamente sulla redditività un nuovo modo di lavorare? « Assenteismo » e « variabilità dei rit-mi » possono nel breve territ-mine essere favorevolmente influenzati attraverso combinazioni produttive più flessibili, come ad esempio linee brevi, linee pa-rallele, isole di montaggio ecc. In questi casi si ha effettivamente un recupero di produttività dovuto alla migliore utiliz-zazione degli impianti. Rimangono tut-tavia alcuni aspetti negativi che non possono essere ignorati.

Le modificazioni di questo tipo compor-tano un allargamento di mansioni e una maggiore professionalizzazione del la-voratore nei limiti consentiti dalle ca-ratteristiche del prodotto, e sono state, in molti casi, accolte negativamente da-gli stessi operai. A parità di flusso pro-duttivo, inoltre, richiedono investimenti molto onerosi che non si giustificano con il modesto recupero di produttività. La concorrenza con i paesi emergenti sarà superabile nella misura in cui i

Tutto diventa più meccanizzato.

paesi industrializzati e ad alto reddito di lavoro si porranno il problema di ricon-vertire la produzione, passando a settori dove è possibile impiegare un lavoro più costoso (perché ad elevato conte-nuto professionale) e produrre .beni che non sono ottenibili nei paesi in via di sviluppo, attraverso impianti importati. « Non è indispensabile, a questo propo-sito, riferirsi alle tecnologie di punta. Lo spazio maggiore si trova proprio — a mio avviso — nelle tecnologie tradizio-nali purché ci si sposti su prodotti che richiedono una maggiore qualificazione professionale sia nella fabbricazione sia nella scelta e nell'assistenza dei mercati. Queste produzioni sono in grado di ga-rantire la creazione di nuovi posti di lavoro non soltanto nel settore indu-striale ma in quello terziario (progetta-zione, commercializza(progetta-zione, assistenza tecnica) ».

In definitiva si torna al « nodo » della riconversione industriale, un problema infinitamente complicato, che richiede modifiche non soltanto strutturali ma cambiamenti significativi nel modo di pensare e di agire dell'imprenditore. In questo caso poi, quale sarebbe l'inci-denza sui costi di una diversa

organiz-zazione del lavoro?

« L'ingresso in attività industriali di questo tipo richiede l'accettazione di due condizioni di base: rapida evolu-zione dei prodotti e disponibilità ad ope-rare su segmenti di mercato più ristretti, anche se più qualificati. Questi due ele-menti alterano i calcoli di convenienza nell'assetto della combinazione produt-tiva, e perciò richiedono e rendono eco-nomicamente valide nuove forme di or-ganizzazione del lavoro. Il know how della produzione non è più incorporato unicamente negli impianti, ma ritorna al lavoratore sotto forma di professio-nalità reale, la quale, a sua volta, per-mette agli impianti la flessibilità neces-saria per passare rapidamente da un prodotto all'altro. Faccio un esempio: il settore metalmeccanico. I paesi emer-genti si stanno attrezzando per produrre automobili. In un prossimo futuro — è facile prevedere — si renderanno auto-nomi e successivamente anche esporta-tori. La stessa ipotesi vale per altri pro-dotti come gli elettrodomestici ecc. Que-sto non significa che il settore metal-meccanico sia un settore dove lo spa-zio si va riducendo. Negli Stati Uniti e in Germania esso contribuisce al

pro-dotto nazionale lordo con una percen-tuale che è quasi doppia rispetto a quella italiana. Lo spazio c'è se pas-siamo a produzioni più qualificate ». Una strada può essere quella dei beni strumentali che hanno un alto valore aggiunto e richiedono manodopera spe-cializzata. La capacità tecnologica del-l'industria italiana è fuori discussione; la capacità di esportazione si va esten-dendo, attraverso la creazione di con-sorzi, anche alla fornitura di complessi di lavorazione.

Non a caso, proprio nel settore dei beni strumentali, si stanno verificando alcuni dei più interessanti esperimenti di or-ganizzazione del lavoro. La Graziano spa di Tortona — ad esempio — ha modificato l'organizzazione attribuendo alle maestranze il massimo di responsa-bilità sia nella programmazione che nel controllo e nell'esecuzione del lavoro. « Un serio esame dei problemi di impie-go del lavoro all'interno degli stabili-menti, e quindi di scelta di produzioni più consone al nostro sistema industria-le — conclude il professor Gros-Pietro — potranno dare un contenuto opera-tivo alla riconversione industriale di cui tanto si parla e si discute ».

Nel documento Cronache Economiche. N.003-004, Anno 1977 (pagine 86-89)