- DELLA ZOOTECNICA IN ITALIA
CONFRONTO CON ALTRI PAESI EUROPEI
Le più recenti stime del patrimonio zoo-tecnico nei Paesi della CEE pongono l'Italia nelle posizioni più arretrate, so-prattutto per quanto riguarda gli alle-vamenti bovini
L'analisi dei dati statistici degli ultimi venticinque anni denuncia però, al ri-guardo, una politica degli allevamenti zootecnici in Italia a dir poco incon-gruente, tenuto conto che i suoi consu-mi pro-capite di carne sono partiti da circa 16 kg nel 1951, per arrivare ai 62,5 kg attuali, nel tentativo di allinear-li con quelallinear-li degallinear-li altri Paesi della CEE; mentre il suo patrimonio zootecnico, lungi dall'aumentare, è nel frattempo sensibilmente diminuito, contribuendo ad accrescere di anno in anno, partico-larmente dal 1971 in poi, il deficit della sua bilancia dei pagamenti2.
A stare ai dati dell'ISTAT il patrimonio bovino in Italia nel 1951 era stimato in circa 8,4 milioni di capi, 4 milioni dei quali vacche da latte. Vent'anni più tar-di, cioè al 2° Censimento generale del-l'agricoltura del 25-10-1970, era stima-to in circa 8,8 milioni di capi, di cui sempre 4 milioni vacche da latte, con incrementi quindi irrilevanti. Da allora, proprio quando i consumi di carne an-davano di anno in anno vertiginosamen-te aumentando, obbligando il nostro Paese a crescenti importazioni di ogni tipo di carni, il nostro patrimonio bo-vino tendeva addirittura a ridursi por-tandosi nel 1975 a 8,5 milioni di capi, di cui 3,6 milioni vacche da latte. Per quanto riguarda gli altri allevamen-ti nel 1951 gli equini ammontavano in Italia a 1.933.960 capi (767.650 cavalli, 773.140 asini e 539.170 muli e bardot-ti), i suini a 3.510.230, gli ovini a 10.141.300 e i caprini a 2.253.170. Le analoghe cifre per il 1975 denunciava-no circa 540.000 equini (253.000 ca-valli, 168.000 asini e 119.000 muli e bardotti)3, 8.900.000 suini, 8.152.000 ovini e 729.000 caprini.
Il sensibile incremento dei capi suini, rispetto al 1951, non è servito certamen-te a compensare l'impressionancertamen-te au-mento dei consumi di carni, che per il
1976 sono stati stimati in circa 35 mi-lioni di quintali, di cui 13 mimi-lioni di
carni bovine (7,5 milioni di produzione nazionale e 5,5 milioni di importazio-ne). Infatti nel 1975 erano stati impor-tati nel nostro Paese ben 230.000 capi suini vivi e circa 340.000 quintali di carni suine, per una cifra di 365 mi-liardi di lire: situazione che purtroppo sembra sensibilmente peggiorata nel
1976 (di cui non si hanno ancora i dati definitivi). Occorre tenere anche presente che per alimentare tali suini ed altro bestiame abbiamo dovuto im-portare, soltanto nei primi otto mesi del 1976, granoturco per circa 500 mi-liardi di lire.
Non è facile stabilire le motivazioni dei vertiginosi aumenti dei nostri consu-mi di carne in questi ulticonsu-mi anni: feno-meno che ci sembra non tanto moti-vato da una comprensibile aspirazio-ne al miglioramento del tenore di vita di tutti gli italiani (al riguardo sareb-be molto interessante stabilire in quan-te famiglie si sia avuto nel 1976 un effettivo consumo pro-capite di carni pari a 62,5 kg), quanto, più che altro, un'espressione di irragionevole « consu-mismo » conseguente ad una malintesa applicazione nella nostra politica eco-nomica dei principi keinesiani. È pur vero che con il livello di 62,5 kg di carni pro-capite nel 1976 non abbia-mo ancora raggiunto il livello medio della CEE che già nel 1974 era di circa 65 kg pro-capite e che oggi supera i 70 kg. Ma è anche vero che l'Italia in que-sti ultimi anni si è sempre più orientata verso consumi di carni pregiate, predi-ligendo quelle bovine e le più costose (ad esempio i quarti posteriori di cui dalla sola Germania Federale ha impor-tato nel 1975 oltre un milione di quin-tali).
A questo proposito non sembra del tutto fuor di luogo ritenere che la menziona-ta politica economica abbia, più che al-tro, favorito nel settore delle importa-zioni delle carni gigantesche speculazio-ni da parte di uno sparuto gruppo di importatori, più volte denunciate in que-sti ultimi tempi dalla stampa4. Del re-sto ci sembra ben poco accettabile, per una provvida politica economica, il prin-cipio di dover accrescere ad ogni costo
i consumi di un popolo — anche se vi-ve in un Paese localizzato nell'ambito di una comunità economica come la CEE — senza eccessive preoccupazioni, da parte dei responsabili della stessa politica economica, che gli aumenti dei consumi siano o meno compensati da proporzionali aumenti di produzione. Non va poi dimenticato che per il set-tore zootecnico, e per i consumi di car-ni, sarebbe stato il caso di agire con sempre maggiore prudenza, anche per-ché l'Italia è costretta dalla « clausola di salvaguardia » adottata in tale anno, ad importare a prezzi più elevati di quel-li internazionaquel-li carni e bestiame per consentire lo smaltimento delle ecce-denze comunitarie, benché queste ulti-me sembra che nel 1976 si siano vanifi-cate 5. Né va sottaciuto il pericolo che si possano importare carni bianche estro-genate; poiché, mentre in Italia è da tempo proibito l'uso di estrogeni nel-l'allevamento di bestiame, non lo era fino a ieri in altri Paesi della stessa CEE, ad esempio la Danimarca che sol-tanto da pochi mesi ha proibito l'im-piego di tali sostanze.
* sfc *
Come si sia giunti alla presente situa-zione zootecnica del nostro Paese non è facile dimostrare, anche in difetto di attendibili dati statistici che in altri Pae-si della CEE sono da tempi assai lon-tani disponibili.
Comunque, a stare ai dati dell'« Annua-rio statistico italiano » curato dal Mae-stri e Correnti6, all'unificazione politica il nostro Paese disponeva di 3.700.000 capi bovini, con una popolazione resi-dente censita il 31-12-1861 di circa 22.182.000 abitanti nei confini dell'epo-ca. Il rapporto tra popolazione e patri-monio bovino era pertanto, in quei tem-pi, ben più favorevole di quello attuale. Se poi si considerano i bassissimi con-sumi di carni bovine del secolo scorso, rispetto a quelli attuali, la situazione odierna appare ancora più sfavorevole. Nel 1881 un censimento del bestiame metteva in evidenza i seguenti dati, relativi ai vari allevamenti: equini (ca-valli, asini, muli e bardotti) 1.626.000,
bovini 4.772.000, ovini e caprini 10.612.000 e suini 1.164.000.
È anche interessante notare che, per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni italiane di prodotti agrico-li, si avevano in quelle epoche le seguen-ti situazioni: quinquennio 1871-75 im-portazioni lire dell'epoca 265 milioni ed esportazioni lire 289 milioni; quin-quennio 1876-80 importazioni lire 292 milioni ed esportazioni lire 394 milioni; quinquennio 1881-85 importazioni lire 251 milioni ed esportazioni lire 342 mi-lioni 7.
All'inizio del secolo, a stare ai dati del censimento del 19-3-1908, i bovini era-no saliti in Italia a 6.211.607 capi (più 19.185 bufali); venti anni più tardi, al censimento del 19-3-1930, risultavano 7.088.752 (più 15.014 bufali). Da no-tare che le popolazioni residenti ai cen-simenti del 10-6-1911 e del 21-4-1931 ammontavano rispettivamente, entro i confini dell'epoca, a 35.845.000 e 41.652.000 abitanti circa.
Sali ulteriormente il patrimonio bovino italiano negli anni successivi, tanto da raggiungere 8.488.000 capi al censi-mento del 30-6-1941; scese con la se-conda guerra mondiale, riducendosi nel
1948 a circa 8 milioni di capi, per ri-salire però rapidamente portandosi al
1° Censimento generale dell'agricoltura italiana del 15-4-1961 a ben 9,5 milioni di capi; si ridusse ancora al 2° Censi-mento generale dell'agricoltura del 25-10-1970 a 8,8 milioni di capi.
L'andamento degli altri allevamenti è stato nel frattempo altrettanto variabi-le: dal censimento del 1908, che regi-strava 2,1 milioni di equini (cavalli, asi-ni, muli e bardotti), 2,5 milioni di sui-ni, 11,1 milioni di ovini e 2,7 milioni di caprini, si è passati al censimento del 1930 con 2,3 milioni di equini, 3,3 milioni di suini, 10,2 milioni di ovini e circa 2 milioni di caprini; al censimen-to del 1941 con circa 1,7 milioni di equini, 3,6 milioni di suini, 9,8 milioni di ovini e 1,7 milioni di caprini. Nel 1948 si registravano ancora 1,7 milioni di equini, 3,7 milioni di suini, 9,4 mi-lioni di ovini e 2,2 mimi-lioni di caprini; al 1° Censimento generale dell'agri-coltura del 15-4-1961 si avevano 1,2 milioni di equini, 4,3 milioni di suini, 8,2 milioni di ovini e 1,4 milioni di ca-prini; infine, al 2° Censimento generale dell'agricoltura del 25-10-1970, si ave-vano soltanto 720.000 equini, 6 mi-lioni di ovini, 884.000 caprini e, uni-ca voce in aumento, 9 milioni di suini. I dati surriferiti possono costituire del-le valide indicazioni sullo stato di in-sufficienza in cui si trova il patrimonio zootecnico italiano, indipendentemente dai confronti con i patrimoni zootecni-ci degli altri Paesi della CEE.
Non si deve inoltre dimenticare che, almeno fino alla seconda guerra mon-diale, una buona parte del bestiame bo-vino in Italia, soprattutto nelle zone col-linari, era ancora impiegato nella pro-duzione di lavoro 8; e che soltanto ne-gli ultimi venti anni, con la progressiva meccanizzazione, i bovini da lavoro so-no stati sostituiti dai trattori, come del resto gli equini il cui numero, rispetto all'anteguerra, appare ridotto oggi a me-no di un terzo.
L'unico settore zootecnico che si è sen-sibilmente sviluppato in Italia è stato quello dei suini; comunque non in mi-sura sufficiente per svincolare il nostro Paese da costose importazioni di carni suine e di insaccati, come è già stato in precedenza ricordato.
È possibile sentire ancor oggi in Italia affermare da parte di conduttori di azien-de agricole — per lo meno quelle in cui si ricorre a concimazioni letamiche e si produce letame con bestiame sta-bulato — che l'allevamento di ogni ti-po di bestiame è, più che altro, un « ma-le necessario », proprio per la necessità di ottenere tale concime organico. Si deve però precisare che nelle più pro-gredite aziende della Pianura padana — ad esempio quelle risicole — l'uso del letame nelle concimazioni appare supe-rato, perlomeno dove ci si è orientati alla monocoltura riso, eliminando tutto il bestiame aziendale.
In tali aziende ormai, da più di dieci anni, si bruciano in campo paglie e stoppie e, in sostituzione del letame, per rinnovare le riserve di humus nel terreno, si ricorre spesso a concimi or-ganici tipo corneunghia, ruffetto d'os-sa, pollina ecc. Ma già si impiegano an-che concimi organici prodotti dalle in-dustrie con residui legnosi (corteccie, segatura ecc.) o con spazzature raccolte nei centri urbani e debitamente trattate. Negli anni successivi alla seconda guer-ra mondiale, almeno fino al 1963 nel la maggioranza delle aziende ri-sicole, dove è oggi in atto la « monocoltura riso », erano praticati ordinamenti cereali-coli-zootecnici nei quali al riso — che generalmente oc-cupava 3 / 5 della superficie a coltura — si alternavano fru-mento e prati a vicenda. Si al-levava quindi bestiame; ma proprio in questi casi l'alleva-re bestiame era considerato un « male necessario » per produrre letame, fino allora ritenuto indispensabile per un elevato rendimento pro-duttivo delle colture risico-le, e in non pochi casi
an-che per produrre lavoro, poiché non era stata ancora compiuta l'attuale mecca-nizzazione integrale delle aziende risi-cole con la quale, insieme al bestiame da lavoro, è stato eliminato anche il bestiame da reddito.
Con questo non si può certo affermare che in tutta la Pianura padana la pro-gressiva meccanizzazione delle aziende agrarie abbia eliminato, insieme al be-stiame da lavoro, anche il bebe-stiame da reddito. Fortunatamente molte azien-de agrarie hanno conservato il loro pa-trimonio zootecnico, e spesso l'hanno migliorato, anche se !a politica zootec-nica adottata in Italia negli ultimi anni non ha fatto molto per incoraggiare gli allevamenti zootecnici, ma molto ha fat-to per scoraggiarli.
Fa osservare il Van Bath, nella sua « Sto-ria agraSto-ria dell'Europa occidentale », che in Olanda il ritenere il bestiame al-levato nelle aziende agricole un « male necessario », era un modo di pensare tipico dei secoli XVI e XVII, quando gli imprenditori agricoli coltivavano i terreni principalmente per produrre ali-menti vegetali di consumo diretto (co-me cereali, ortaggi, frutta ecc.) ed alle-vavano bestiame bovino ed equino solo per impiegarlo nei lavori dei campi e per ottenere letame.
Nella stessa opera però il Van Bath fa anche presente che già in quel tempo in Olanda esistevano allevatori di be-stiame i quali consideravano le man-drie come lo scopo principale delle loro aziende per ricavarne principalmente prodotti zootecnici tipo carne, latte, la-na, pelli ecc. e impiegavano i terreni per produrre foraggi da consumare co-me erba o fieno, somministrati ad ani-mali stabulati, o utilizzati direttamen-te in campo da animali condotti al pa-scolo 9.
Per la verità in molti Paesi europei, so-prattutto del centro e nord Europa, al-la fine del medio-evo lo sviluppo delle città e la crescente domanda di carne
da parte dei relativi abitanti, induceva gli allevatori a praticare una lucrosa at-tività di ingrassamento degli animali do-mestici per destinarli alla macellazione (dai bovini agli ovini, caprini e suini, ed anche equini).
Taluni Paesi della Scandinavia, segnata-mente la Danimarca, divennero allora grandi esportatori di bestiame e di car-ni macellate. Verso la metà del 1600 la Danimarca esportava ad esempio, da 70.000 a 80.000 capi all'anno1 0, che anche soltanto con un peso medio di 3 quintali per capo (pesi medi dell'epoca per i capi bovini ingrassati) rappresenta-vano dai 130.000 ai 150.000 quintali di carni: cifra modesta, se si vuole, ri-spetto a quella di 1.600.000 quintali messi a disposizione degli altri Paesi della CEE dalla Danimarca nel 1976; ma assai significativa se si considera che verso il 1650 la popolazione euro-pea era stimata in 100 milioni di abi-tanti mentre l'Europa oggi, esclusa l'URSS, ha una popolazione di circa 500 milioni di abitanti (che salgono a quasi 700 con la parte europea del-l'URSS).
Oltre dello sviluppo demografico, oc-corre però tenere anche conto dello svi-luppo dei consumi dal 1650 ad oggi; poiché i consumi di carne in quell'epo-ca erano generalmente molto bassi, al-meno per i ceti più poveri che, sia in città sia in campagna, rappresentavano la stragrande maggioranza delle popo-lazioni nelle cui diete alimentari le car-ni, e particolarmente quelle bovine, ap-parivano un'eccezione più che una re-gola; mentre la base della loro alimen-tazione era quasi esclusivamente costi-tuita da cereali.
L'Olanda in quel tempo pensava prcipalmente ad allevare bestiame da in-grasso; ma pensava già anche a specia-lizzare razze bovine per la produzione di latte che nell'azienda di un certo Hemmema agricoltore della Frisia il quale nel XVI secolo teneva già aggior-nati i suoi registri contabili l2; si aggi-rava su una media di 1.350 litri annui per capo: livello in buona parte degli altri Paesi europei non raggiunto prima dell'inizio del secolo XIX, e in talune contrade italiane, purtroppo, non anco-ra anco-raggiunto dopo la prima gueranco-ra mon-diale l3.
Evidentemente l'Olanda aveva già ini-ziato fin da quel tempo un'attività di selezione delle lattifere che avrebbe por-tato gli allevatori di tale Paese alla pro-digiosa « Razza Frisona » o « Pezzata nera olandese » da cui sono costituiti oggi oltre 3/4 dell'intero patrimonio bo-vino olandese (circa 5 milioni di capi per una popolazione di 13,5 milioni di abitanti, contro 8.3 milioni di capi per una popolazione di 56 milioni di
abitan-Fig. 1.
Sta/la all'aperto.
ti in Italia), assicurando rendimenti me-di unitari non inferiori a 4000 litri me-di latte per 280 giorni di lattazione. Non va neanche dimenticato che da questa stessa razza è stata selezionata verso il 1922 negli USA (a Seattle nello Stato di Washington) la ormai famosa « Car-nation », razza che ha dato campio-nesse con incredibili punte di produ-zione di 18.000 litri di latte in 300 gior-ni di lattazione.
L'Olanda nel XVII secolo, oltre a preoc-cuparsi delle tecniche di selezione, si preoccupava anche delle tecniche di ali-mentazione e di commercializzazione del bestiame.
Per l'ingrasso del bestiame gli olandesi, ad esempio, già ricorrevano a speciali mangimi, e principalmente all'impiego di pannelli di semi oleosi: pratica che ben presto appresero anche gli inglesi, i quali, fra l'altro, fornivano agli olan-desi i pannelli meolan-desimi ricavati dalla spremitura dei semi di ravizzone o di altri semi oleosiI 4.
Gli olandesi seppero anche rendersi con-to, fin da allora, dell'importanza dell'im-piego di determinati mezzi di trasporto
per far giungere ai mercati di consumo gli animali nelle . migliori condizioni, senza farli smagrire in defatiganti spo-stamenti su lunghi percorsi, dai centri di produzione a quelli di consumo, du-rante i quali, mentre gli animali trova-vano magrissimi pascoli, finitrova-vano per arrivare ai mercati sfiancati e ridotti pel-le ed ossa, senza contare pel-le forti perdi-te per moria.
Cosi avveniva con le migrazioni stagio-nali del bestiame praticate fino a ieri in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, at-traverso i « millenari tratturi » alla ri-cerca di nuovi pascoli: pratica denomi-nata « transumanza », che ha riguarda-to le gregge del Mezzogiorno ancora ne-gli anni successivi alla seconda guerra mondiale; e riguardava, all'inizio del secolo, oltre alle gregge ovine e capri-ne anche le mandrie bovicapri-ne in Italia settentrionale e centrale, che ai benefi-ci della « monticazione » estiva alterna-vano interminabili spostamenti inverna-li nelle pianure alla ricerca di foraggi e di ricovero, non certo con vantaggio per il loro stato di salute ed il loro rendi-mento produttivo.
È pur vero che nel Far West le mandrie si spostavano ancora nello scorso seco-lo dalle zone di produzione ai mercati di consumo in lunghe corride che
deci-mavano e smagrivano i capi. Ma furo-no allora in tale territorio costruite le prime ferrovie, proprio per trasferire il bestiame; anche se questo fatto fu spes-so motivo di aspre contese tra gli alle-vatori e le imprese che costruivano e gestivano le ferrovie in condizioni mo-nopolistiche.
Per la verità l'Olanda fin dal 1600 usò i suoi canali, già costruiti parecchi se-coli prima per le esigenze della bonifica di terreni paludosi1 5, come vie di navi-gazione interna per i trasporti sia di be-stiame sia di foraggi, mangimi, concimi, ecc., realizzando forti economie e por-tando ai mercati di consumo animali in condizioni assai migliori di quelli tra-sferiti via terra.
A questo proposito occorre ricordare che anche in Italia furono aperti, so-prattutto nella Pianura padana, canali per la bonifica, l'irrigazione, l'approv-viggionamento di acque per usi igienici e la navigazione interna, fin dal tempo dei Comuni. Ma molti di tali canali si interrarono dopo il 1500; e quando ven-nero riattivati, talora dopo due seco-li 16, servivano principalmente per l'irri-gazione e ben poco come idrovie. Tuttavia il problema di un vasto piano di idrovie, che servisse la Pianura pa-dana, era ben presente verso la metà dello scorso secolo quando Stefano Jaci-ni scriveva testualmente: « La Lombar-dia possiede poi, oltre a poche strade ferrate (in breve il loro numero peral-tro si accrescerà grandemente dopo la concessione delle principali linee lom-bardo-venete che il Governo diede ad una grande compagnia privata), un si-stema di vie navigabili in parte natu-rali, in parte artificiali, di cui non pos-siamo tralasciare di discorrere, percioc-ché le vie navigabili saranno sempre i mezzi più comodi e meno costosi pel trasporto delle merci le quali in molto volume racchiudono poco valore, come sono la legna, le materie murali e stra-dali, i concimi, la paglia ecc. Il nostro Paese fu il primo forse in Europa in cui si incominciò a scavare canali, ma non si può dire che possegga una rete completa di linee di navigazione, come sarebbe da desiderarsi. Gli studi del-l'Ingegnere Lombardini esposti nel ' Po-litecnico ' e nelle ' Notizie naturali e civili di Lombardia ' sparsero molto in-teresse su questo argomento. In quelle