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Per una teoria del vocativo

2.1. Preliminari metodologic

2.1.1. Delimitazione della categoria del caso

Ancora oggi il concetto stesso di “caso” non è univoco. L’assetto definitorio della categoria cambia in maniera macroscopica a seconda del quadro teorico e dell’impostazione adottata. La questione è, in effetti, meno semplice di quanto sia solitamente dato per scontato, perché esistono in letteratura visioni anche molto diverse, sia relativamente alla natura stessa della categoria (cfr. anche cap. 1) sia all’applicabilità, più o meno ampia, della nozione di caso ai fenomeni linguistici. Questo punto è giustamente sottolineato fin dalle prime battute nella recente opera di Butt (2006: 2-3): «The notion “case” means different things to different people. Indeed, a survey of all the phenomena which have been described as “case” leads one to the conclusion that one does not know what case really is […] we do not have a well-defined understanding of the notion of case. There are some core notions which most linguists would agree on, but not every linguist will extend the label “case” to the same range of phenomena».

La necessità di porre alcuni punti fermi è avvertita nella recentissima produzione scientifica in proposito, che si occupa proprio di stabilire un impianto metodologico che permetta una considerazione comprensiva e coerente della variegata fenomenologia legata alla categoria del caso (SPENCER- OTOGURO, 2005; CORBETT, 2008).

Una definizione molto ampia di “caso” è fornita da Blake (1994; 2006), secondo il quale «Case is essentially a system of marking dependent nouns for the type of relationship they bear to their heads». Un primo punto cruciale, rispetto al quale è necessaria una presa di posizione per potersi avvalere di una metodologia coerente, è se sia lecito accomunare sotto l’etichetta di “caso” manifestazioni morfosintattiche che condividono la caratteristica di codificare tipicamente una serie di relazioni sintattiche e semantiche del nome rispetto ad una testa (nel senso di NICHOLS, 1986), dunque funzionalmente affini, ma con caratteristiche strutturali diverse. Ciò significa stabilire se si vogliono considerare alla stessa stregua casi sia i mezzi di codifica utilizzati da lingue che

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presentino tipologia flessiva (latino, greco) sia quelli di lingue dalla tipologia agglutinante (turco), o ancora quelli di lingue che sfruttino adposizioni (giapponese), o elementi adpositivi prosodicamente non autonomi, cioè i clitici (hindi).83 Questa concezione lato sensu di caso è quella, appunto, di Blake (1994: 10), secondo il quale, oltre alle manifestazioni più centrali ed inequivocabili del caso, cioè gli affissi flessivi e agglutinanti, anche gli elementi adpositivi possono essere considerati marcatori di caso: «Adpositions can be considered to be analytic case markers as opposed to synthetic case markers like the suffixes of Turkish or Latin».

Tuttavia i recenti studi di Spencer e Otoguro (2005) e di Corbett (2008) adducono valide motivazioni per una concezione più strettamente delimitata del caso e delle lingue a casi, sottolineando anche una serie di precisazioni e differenziazioni di livello di cui tener conto nell’identificazione dei casi stessi. Come risulta evidente anche dalla trattazione qui svolta nel capitolo 1, infatti, la nozione di caso interseca livelli diversi dell’analisi linguistica, tutti pertinenti alla definizione intensionale ed estensionale della categoria.

Il problema metodologico esiste dal momento che, come accennato, non solo i valori della categoria, ma anche la stessa identificazione di cosa si possa effettivamente considerare caso non è univoca. Spencer e Otoguro (2005) pongono come essenziale per la critica alla nozione di caso la necessità di tener conto sia degli aspetti morfologici sia di quelli sintattici e semantici. Sul lato formale, i due studiosi pongono innanzitutto delle delimitazioni in opposizione a Blake, non solo escludendo dai marcatori di caso le adposizioni, ma ritenendo anche di poter a ragione parlare di “casi” e di “lingue a casi” solo in presenza di morfologia flessiva: le etichette di caso, infatti, sono, secondo gli studiosi, necessarie solamente se si hanno allomorfi da classificare, appunto, sotto la medesima etichetta. Nel caso delle lingue agglutinanti come il turco (che è portato da Blake come esempio tipico di lingua a casi), invece, non c’è bisogno di parlare di “genitivo” o “ablativo”, salvo che nella trattazione didattica e

83 Ovviamente il problema è irrilevante per quanti considerino il caso una nozione astratta,

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“ateorica”, dal momento che il suffisso di caso è identico per tutti i paradigmi: «This point is all the more valid for languages such as Japanese or Indo-Aryan in which the “case-markers” are actually postpositions, particles or phrase-final clitics. In such languages, there is absolutely no need to refer to any kind of case label in the morphology, since all statements can be couched in terms of the postposition, particle or clitic» (SPENCER-OTOGURO, 2005: 122). La visione formalmente restrittiva della categoria del caso di Spencer e Otoguro consente senz’altro una maggiore uniformità e coerenza terminologica, sebbene costringa d’altro canto a limitare molto fortemente il campo di applicabilità della nozione di caso e, come riconosciuto dagli stessi autori, a porre arbitrariamente un confine discreto tra morfologia agglutinante e morfologia flessiva.

La posizione di Blake e quella di Spencer e Otoguro rappresentano evidentemente due estremi, collocabili in posizione opposta all’interno di un gradiente di grammaticalità. La grammaticalità come nozione scalare consente di formulare una definizione di caso che tenga in una certa misura conto delle osservazioni sopra discusse, ma che permetta di evitare categorizzazioni discrete, senza escludere la morfologia agglutinante. Lehmann (1985: 304) individua una scala di grammaticalizzazione (in senso diacronico) e di grammaticalità (in senso sincronico) dei mezzi linguistici volti alla codifica delle cosiddette relazioni di caso:

relational secondary primary agglutinative fusional noun > adposition > adposition > case > case

affix affix84

84 I nomi relazionali sono quelli che significano nozioni spaziali ed entrano a far parte di

costruzioni come in fondo a + SN, at the back of + SN; le adposizioni secondarie sono quelle che veicolano un significato più lessicale che grammaticale e possono essere morfologicamente complesse, come during, mentre le adposizioni primarie sono morfologicamente semplici ed il loro significato è più grammaticale che lessicale, come of, in; gli affissi di caso agglutinativi veicolano solo il significato del caso, mostrano un confine morfologico trasparente e sono morfologicamente opzionali, nel senso che la loro espunzione lascia una forma ancora grammaticale, come –s in Peter’s o gli affissi del turco; gli affissi di caso fusivi, infine, esprimono contemporaneamente altre categorie grammaticali e sono morfologicamente obbligatori, come i morfi di caso delle lingue classiche (LEHMANN, 1985: 304).

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Per conciliare le diverse posizioni sopra esposte, si può parlare di categoria del caso nelle zone di maggiore grammaticalità, definendola come una categoria grammaticale del nome che, nel suo uso principale, codifica tramite mezzi morfologici su di un sintagma nominale le relazioni sintattiche e/o semantiche rispetto ad una testa lessicale. Il caso è dunque una categoria tipicamente flessionale, la codifica del cui significato in una lingua è obbligatoria, essendo la grammatica un sistema di opzioni obbligatorie (è la cosiddetta “ipotesi Boas- Jakobson”, JAKOBSON, 1959 [ed. it. 1966: 170 e ss.]; LEHMANN, 2004: 154; SIMONE, 2007: 200); essendo una categoria di segni linguistici, non è identificabile con la funzione sintattica o semantica.85 Ne consegue ovviamente che, in questa ottica, la categoria del caso non è universale, e che l’inventario dei casi deve essere stabilito di volta in volta sulla base della struttura della specifica lingua. I tratti semantico-funzionali dei diversi valori casuali, infatti, non saranno perfettamente sovrapponibili da lingua a lingua.86

In un articolo basilare nella metodologia della ricerca sui casi Comrie (1991), criticando le numerose incoerenze sia teoriche che descrittive causate dal modo tradizionale di operare sui casi, senza una esplicita teoria, distingue tra formal cases e distributional cases. I formal cases sono opposizioni formali, che possono avere variazioni inter- e intraparadigmatiche, mentre i distributional cases sono le opposizioni funzionali individuabili solamente in presenza di una specifica contropartita formale, secondo il principio per cui, se in una data lingua

85 Come sottolinea Lehmann (2007c: 9) «The peculiar service done by a certain

morphological category in the fulfillment of some linguistic function gets blurred if we confuse it with the function itself». In questo articolo Lehmann tratteggia lo sviluppo semantico interno alla terminologia linguistica relativa alle categorie grammaticali, tra cui il caso, sottolineandone l’espansione avvenuta negli ultimi decenni al livello sintattico e al livello relativo alla funzione. Identificare la terminologia della categoria morfologica con quella della funzione sintattica e semantica, però, è un’operazione illegittima, poiché, non mantenendo distinti i livelli, oblitera il fatto che una data categoria flessiva è solo una delle possibili strategie di codifica di una data funzione che una lingua può assumere.

86 Ma questo ovviamente non impedisce di attribuire le medesime categorie grammaticali a

lingue diverse, a patto di considerarle come typological concepts (LEHMANN, 2007c) e tenendo

conto del fatto, con Lazard (1992), che se è vero che le categorie di una lingua non sono mai identiche a quelle di un’altra, è anche vero che, tipologicamente, le lingue tendono a grammaticalizzare ben determinati domini di significato, nei quali le categorie si costituiscono attorno ad un numero delimitato di nozioni, le “zone focali”.

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non esiste una distinzione formale corrispondente ad una data distinzione concettuale, non si può parlare di distinzione di caso distribuzionale, ovvero, più in generale, secondo il principio per cui il significato linguistico esiste solo in presenza di una codifica formale. Per Comrie, dunque, in una data lingua esistono casi distribuzionali Cx e Cy se, e solo se, almeno un nome di quella lingua presenta una distinzione formale Cx : Cy per le funzioni x e y. La relazione fra le due classi, formale e distribuzionale, spesso non è di 1 : 1, ed in questi casi si ha la presenza di un sincretismo (formale o funzionale).87 Le osservazioni di Comrie permettono di apprezzare come forma e funzione siano aspetti correlati e imprescindibili nell’individuazione dei casi di una lingua.

Su questa stessa linea, che considera come essenziali i due piani di forma e funzione, si pone Corbett (2008), individuando nella nozione di “canonicità” una griglia di riconoscimento e valutazione dei valori di caso, in cui l’insieme dei criteri produce un gradiente di canonicità, senza separazioni discrete. I criteri di canonicità si riassumono principalmente nella seguente valutazione:

1) se una data categoria morfosintattica e i suoi valori posseggano una chiara distinzione al livello formale;

2) se l’uso di categorie morfosintattiche e dei loro valori sia determinato da regole sintattiche;

3) se le categorie morfosintattiche canoniche ed i loro valori siano espresse da morfologia flessiva canonica.

Ciò significa che un sistema pienamente canonico avrebbe corrispondenza 1 : 1 tra forma e funzione.88 Sfruttando questa griglia interpretativa, Corbett analizza la diversa canonicità dei casi del russo, ed in particolare di quelli più

87 L’esempio portato da Comrie (1991: 46-47) è proprio il vocativo nel sistema di casi

latino. Il caso vocativo distribuzionale si correla con un caso vocativo formale solo nella seconda declinazione, cioè per i temi in -e/-o, dove presenta una forma dedicata, mentre nelle altre declinazioni la relazione è di molti : uno, cioè più casi distribuzionali sono sincretizzati in un caso formale (il nominativo). Il fatto che una forma specifica del vocativo esista almeno nella seconda declinazione, però, permette, nel quadro di Comrie, di attribuire all’intero sistema latino il caso distribuzionale vocativo, e dunque il vocativo tout court.

88 I tre principi sono successivamente articolati da Corbett in dieci sottocriteri, che ne

chiariscono le sfaccettature, la combinazione dei quali permette la valutazione complessiva della maggiore o minore canonicità dei casi (CORBETT, 2008).

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problematici, tra cui le forme fossilizzate di vocativo e quelle innovative del cosiddetto “nuovo vocativo”. La combinazione dei valori dei diversi parametri rivela la maggiore o minore integrazione di un certo valore di caso nel sistema, cioè il suo grado di canonicità: le forme di vocativo del russo, ad esempio, risultano essere, in conformità con l’ormai più volte sottolineata alterità funzionale del vocativo, periferiche, non perfettamente integrate nel sistema di casi. L’approccio di Corbett mette in evidenza come l’operazione di definizione dei valori di caso in una lingua necessiti di un’analisi modulare, che tenga conto della combinazione di un certo numero di parametri pertinenti, sia formali che funzionali.

Al pari di Corbett, anche Spencer e Otoguro (2005) assumono una metodologia che presuppone la modularità, distinguendo tra “caso morfologico” e “caso sintattico”, che sono in linea di principio indipendenti, come mostra il fatto che si possano individuare indipendentemente l’uno dall’altro. Il caso morfologico è quello che permette di generalizzare le classi flessive e che riguarda l’aspetto formale, mentre quello sintattico si collega con i fenomeni di accordo e di reggenza. Livello morfologico e livello sintattico non vanno necessariamente di pari passo: le lingue indoeuropee antiche, per esempio, hanno il vocativo riconoscibile come caso morfologico integrato nei sistemi di casi, ma «it is far from clear whether the concept “syntactic vocative case” makes any sense for the majority of languages, since the vocative has discourse structure functions rather than grammatical function proper» (SPENCER-OTOGURO, 2005: 142). Anche qui proprio il vocativo è portato come esempio della complessità di un tentativo di inquadramento dei casi, e della necessità di operare un’analisi modulare, che tenga conto dei diversi livelli implicati.

La funzione della categoria del caso, dunque, è fondamentalmente quella di esprimere relazioni sintattiche e/o semantiche di un nominale rispetto ad una testa lessicale: il caso è pertanto un elemento per lo meno sotto vari aspetti relazionale. Come è evidente, tale definizione funzionale esclude il vocativo: come si vedrà nei paragrafi seguenti, infatti, e come abbiamo già in parte

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anticipato nel capitolo 1, il vocativo pertiene ad un dominio funzionale completamente diverso rispetto agli altri casi (§ 2.2.). Ciò nonostante, nelle lingue in cui esso si trova in opposizione formale e funzionale con gli altri casi, non si può negare che esso appartenga (seppure talvolta con un grado non pieno di canonicità, cfr. CORBETT, 2008) al paradigma dei casi stessi: nelle lingue che possiedono il vocativo, dunque, coesistono l’uniformità formale del paradigma morfologico nominale e la rottura semantica e funzionale al suo interno (§ 2.1.2. e 2.1.3.).