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Aspetti sincronici e diacronici del vocativo nelle lingue classiche

3.2. Neutralizzazione formale e contiguità: vocativo e nominativo nel greco e nel latino arcaici

3.2.3. Interpretazioni tradizional

Nelle opere tradizionali sulla sintassi del latino e del greco, ma anche in lavori più specifici sull’argomento, sono state proposte alcune interpretazioni, affrontando il problema sotto punti di vista diversi; le trattazioni dell’argomento, tuttavia, non risultano soddisfacenti, dal momento che sono più descrittive che interpretative e non focalizzano i tratti fondamentali del problema, avendo spesso, in definitiva, l’aspetto di spiegazioni ad hoc.

Nell’esegesi delle deviazioni sintattiche esposte nei paragrafi precedenti si è ricorsi innanzitutto al vincolo imposto dalla metrica, soprattutto per quanto riguarda la poesia omerica. L’argomentazione addotta da Chantraine (1953: 36) è infatti che «dans la plupart des exemples que l’on cite, le nominatif offre une forme métriquement commode» e della stessa opinione era Humbert (1945 [1993: 294]), il quale sostiene che «le vers n’eût pas été possibile si les formes régulièrement attendues avaient été employées». È sicuramente vero che f…loj e f…le non sono metricamente equivalenti, quando non chiudono il verso. Si è anche visto come, qualora il verso inizi con la particella ð e sia seguito dal lessema f…loj, le due forme flesse al vocativo e al nominativo rappresentino con ogni probabilità varianti metricamente condizionate (cfr. § 3.2.2.). Ciò nonostante, non tutti i casi omerici che presentano il nominativo sono giustificabili ricorrendo all’argomento metrico, poiché, talora, nella stessa posizione, anche un vocativo sarebbe stato possibile. In effetti, lo stesso Chantraine ammette che, ad esempio nel caso in (18), «la forme f…le causerait un hiatus, d’ailleurs tolérable à cette place» e sulla stessa linea si pone Kühner (1898: 48), accennando al fatto che talvolta il nominativo viene usato «ohne

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Zwang des Metrums». In ogni caso, come già sottolineato, l’argomento metrico non spiega perché, qualora il metro lo richiedesse, il nominativo potesse fungere da caso dell’allocuzione: come si diceva, infatti, il vincolo ritmico non può dar luogo a sequenze agrammaticali per il sistema linguistico.

Per Plauto, tuttavia, le esigenze metriche risultano ancora meno stringenti di quanto lo siano in Omero, poiché i piedi dei versi del recitativo presentano possibilità molto libere di sostituzione di sillabe lunghe e brevi. Partendo dall’osservazione che la maggior parte dei nominativi “anomali” ricorrono con meus, Wackernagel (1908: 151-152) attribuisce ad un fattore di coerenza morfologica il mancato accordo: dal momento che meus non ha una forma vocativale *mee, si è obbligati ad usare per l’aggettivo un altro caso (il nominativo) con cui poi si deve accordare la testa del SN. Se si vuole ammettere in qualche misura la validità di questa interpretazione, anche alla luce di quanto notato nel paragrafo 3.2.2., si potrebbe osservare però che esistono molti casi di vocativi espressi con la forma propria ed il possessivo mī: in altre parole, la presenza del possessivo non implica affatto, nella maggior parte dei casi, l’uso obbligatorio del nominativo.122 Anche per Plauto, dunque, l’argomento morfologico addotto da Wackernagel non esaurisce il problema.

Un altro approccio interpretativo è quello proposto, tra gli altri, da Serbat (1996: 107), secondo il quale «à l’intérieur d’une séquence vocative, le passage du V au N formel est favorisé par l’éloignement, par les coupes, par tout ce qui peut provoquer une rupture dans l’intonation V». La distanza sintattica tra i SN sarebbe dunque causa di una sorta di “sfilacciamento” della sequenza vocativale, tant’è che lo studioso parla di diversi gradi di compattezza caratterizzanti i diversi tipi di sequenze vocativali. Questa interpretazione si scontra tuttavia con

122 Gli esempi di vocativi regolari associati alla forma mī sono numerosissimi e talvolta

presentano il medesimo lessema che compare anche al nominativo (oculus, ocellus). Tra gli altri si segnalano: mi gnate (As. 829 = As. 836 = Capt. 1021 = Mer. 367); mi anime (As. 941 =

Bac. 81); o ere mi (Cas. 632); Phaedrome mi (Cur. 137); ocule mi (Cur. 203); animule mi

(Men. 361); mi Menaechme (Men. 382 = 541 = 676); mi patrone (Men. 1031); o mi ocule, o mi

anime (Mil. 1330); ocelle mi (Trin. 245). Pur non esistendo una forma vocativale propria di meus, pertanto, esisteva ed era usata una soluzione alternativa che non comportava

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numerosi controesempi costituiti da SN facenti parte di serie vocativali, anche separati da altre strutture sintattiche, in cui è mantenuto l’accordo al caso vocativo: Arg. o Libane, mi patrone, mi trade istuc. […] (As. 689); Olympisce mi, mi pater, mi patrone. […] (Cas. 739); anime mi, Menaechme, salve. […] (Men. 182); age, mi Achilles, fiat quod te oro, serva illam pulchram pulchre,/ exprome benignum ex te ingenium, urbicape, occisor regum. (Mil. 1054-1055); Call. ecquis hic est? Philol. adest. Call. eu, Philolaches,/ salue, amicissume mi omnium hominum. (Mos. 339-340); Tr. o Theopropides,/ ere, salue, saluom te aduenisse gaudeo. (Mos. 447-448); sed, o Palaemon, sancte Neptuni comes, […] (Rud. 160); Pl. iterum mihi istaec omnia itera, mi anime, mi Trachalio,/ mi liberte, mi patrone potius, immo mi pater. (Rud. 1265-1266). Inoltre, proprio la lontananza sintattica tra gli elementi dovrebbe richiedere, casomai, la ripetizione della marca di caso sugli elementi non contigui fra di loro.

Un’analisi approfondita dei testi sembra dunque offrire facilmente abbastanza controesempi da poter forse non invalidare, ma quantomeno attenuare la forza interpretativa delle ipotesi fin qui esaminate. In effetti, accanto alle motivazioni metrico-fonetiche e a quella della cosiddetta “compattezza sintattica” ne viene sempre affiancata un’altra, invariabilmente presentata da tutte le grammatiche e dagli altri studi sull’argomento: il nominativo come apposizione predicativa con una copula sottintesa. Si esprime in questo senso già Delbrück (1893: 397), ma una formulazione più articolata si trova in Svennung (1958: 246 e ss.), il quale, partendo dalla considerazione del fatto che le attestazioni di nominativi in luogo di vocativi in Plauto 1) non si trovano mai con l’interiezione ō, 2) non si trovano mai con nomi propri di persona, 3) non costituiscono indicazione di una persona, conclude che essi non costituiscono allocuzione, ma semplici elementi posti in apposizione predicativa: va dunque postulata una clausola nominale sottintesa. Ciò significa affermare che la struttura sottostante un esempio come (20) è mi Libane, (tu qui) ocellus aureus (es). Proprio in queste supposte apposizioni predicative è individuata dallo studioso l’origine del processo di mutamento che porterà, in diacronia, alla scomparsa del vocativo in favore del nominativo.

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Riguardo allo stesso esempio, Serbat (1996: 109) è anche più esplicito: «Le N ocellus aureus appartient bien à la séquence vocative (puisqu’il n’a aucune fonction dans p), mais il est comme une apposition à valeur prédicative; c’est l’usage le plus courant en prose, avec relative». Postulare una clausola relativa sottintesa è però un espediente ad hoc che consente di ricondurre il nominativo ad un predicato nominale, cioè alla funzione tipicamente associata al nominativo, quella di soggetto sintattico della frase. È inutile sottolineare che questa è una spiegazione che si adatta ai casi di mancato accordo tra SN in serie vocativale, ma esclude i numerosissimi esempi in cui l’accordo è perfettamente regolare in contesti identici ed addirittura anche in presenza del medesimo lessema. Questa interpretazione di matrice logicista, che giustifica i fatti sintattici per mezzo di elementi sottintesi e continua ad essere adottata ancora oggi, appare in realtà superata.

L’etichetta di “apposizione predicativa” è stata utilizzata anche per giustificare i casi del greco omerico, sia da Humbert (1945 [1993: 295], «le contenu attributif peut souvent justifier un nominatif»), sia da Schwyzer (1950: 63, «die ursprüngliche Auffassung war wieder prädikativ»), che dallo stesso Svennung (1958: 199 e ss.).

Le spiegazioni addotte per risolvere la questione non appaiono, pertanto, adeguate, né forniscono un’interpretazione soddisfacente in termini teorici. Soprattutto, quello che si può notare è che il dato linguisticamente più importante, cioè la contiguità intracategoriale tra vocativo e nominativo, viene quasi sempre dato sostanzialmente per scontato senza alcun approfondimento: in realtà esso può forse, se analizzato più da vicino, fornire una chiave interpretativa più adeguata e comprensiva di questi fenomeni.

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3.2.4. Contiguità e marcatezza come nozioni esplicative della