Aspetti sincronici e diacronici del vocativo nelle lingue classiche
3.3. Grammaticalizzazione della costruzione vocativale dal greco omerico al greco classico
3.3.1. La particella ð e il vocativo
In greco, come anche nella maggior parte delle altre lingue i.e. antiche, la codifica dell’allocuzione nominale può comprendere, oltre al morfema di caso, anche del materiale lessicale, e precisamente il sintagma vocativale può essere accompagnato da una particella allocutiva141, nel caso del greco ð.142 Fin dai
141 Come motiveremo in maniera più circostanziata nel seguito del presente paragrafo,
riferendoci ad ð preferiamo la terminologia “particella allocutiva” alla più comunemente usata “interiezione”, dal momento che, perché un elemento linguistico possa appartenere alla classe delle interiezioni, è necessaria l’olofrasticità (LEPRE, 2000: 19), che è una caratteristica non
della particella ð isolatamente, ma piuttosto dell’intera costruzione di ð insieme al sintagma vocativale.
142 Dalle diverse lingue i.e. antiche si ricostruisce per l’i.e. comune la particella *ō,
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primi anni del secolo scorso si è notato ― cursoriamente ed in pochissimi lavori isolati ― che la frequenza della particella ð subisce nei testi un macroscopico incremento dalla fase del greco omerico a quella del greco classico, dove è pressoché regolare con le occorrenze di sintagmi vocativali.
Il primo a notare questo fenomeno fu Scott, in tre articoli cronologicamente ravvicinati (1903; 1904; 1905), in seguito ripresi da Meillet (1924, 19664: 547), che si limitava però a riportarne le osservazioni. L’interpretazione di Scott chiama in causa fattori diastratici e diafasici: la generalizzazione di ð in presenza di un sintagma vocativale sarebbe dovuta al progressivo allinearsi della lingua letteraria con la lingua parlata. Secondo lo studioso, infatti, già nel greco omerico ð sarebbe caratterizzata diastraticamente come appartenente ad un registro colloquiale, e, pertanto, applicata esclusivamente in contesti familiari o informali, senza alcun vincolo metrico. Scott, inoltre, esclude completamente la motivazione metrica come giustificazione della presenza di ð in Omero, affermando che la struttura prosodica dei vocativi che non presentano la particella allocutiva potrebbe, in realtà, ammetterla (a patto, ovviamente, di cambiare l’ordine degli elementi nel verso): la metrica, in altre parole, permetterebbe, in teoria, l’uso di ð anche con quei vocativi che nel testo tràdito non la presentano. La conclusione di Scott è che il solo parametro del registro linguistico sia pertinente rispetto all’applicazione della particella allocutiva, senza alcun coinvolgimento del vincolo metrico. Come vedremo, però, oltre alla evidente difficoltà di attribuire gradi di formalità ad opere letterarie scritte in una lingua antica senza incorrere in vistose arbitrarietà (cfr. anche LEPRE, 1979: 31 e ss.), l’affermazione per cui la metrica non sarebbe influente si dimostra, all’analisi del testo, sicuramente discutibile.
Il fenomeno della generalizzazione di ð nella diacronia del greco è ripreso da Lepre (1979), che tuttavia si concentra sull’analisi delle occorrenze della
sull’interlocutore in presenza di un vocativo, sia come espressione affettiva nell’esclamazione. In latino, ad esempio, l’analisi dei contesti d’uso rivela la polifunzionalità di ō (LEPRE, 1994:
1028; 2000: 12). Per quanto riguarda il greco, tale polifunzionalità è rappresentata anche formalmente al livello soprasegmentale nell’opposizione tra ð (generalmente allocutivo) e ê (generalmente esclamativo).
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particella allocutiva in Omero, facendo solo riferimento in nota all’incremento di frequenza nel tempo notato da Scott. In seguito alla spiegazione di Scott, basata sul presunto riconoscimento nel testo di livelli diafasici diversi, pertanto, la situazione della particella allocutiva ð non è più stata oggetto di tentativi di interpretazione, né filologicamente parlando né, tantomeno, in un approccio linguistico.
La macroscopicità dell’innalzamento della frequenza di ð con i sintagmi vocativali (da circa il 10% dei vocativi nel greco omerico all’occorrenza pressoché regolare nel greco del IV sec. a.C.) rappresenta invece, a nostro avviso, un interessante campo di indagine e richiede un’analisi molto più specifica, che non si limiti a descrivere numericamente l’aumento delle percentuali di frequenza, ma si occupi soprattutto di individuare la direzione e le modalità del mutamento. L’indagine sui dati, infatti, consente, come cercheremo di mostrare, di inferire alcune generalizzazioni teoriche che permettono di inserire questo mutamento riscontrabile nel greco antico all’interno del modello di una specifica fenomenologia della variazione diacronica, cioè la grammaticalizzazione.
Per studiare questa traiettoria diacronica è necessario prendere in esame la natura linguistica e funzionale di ð, dopo una precisazione terminologica preliminare.
La particella ð viene generalmente indicata come “interiezione”. Tuttavia, ð non risponde alla principale delle caratteristiche delle interiezioni ― cioè la possibilità di costituire olofrasticamente un’unità enunciativa (LEPRE, 2000) ― dal momento che in genere non compare isolatamente. Il termine “interiezione”, pertanto, non appare molto adeguato alla sua definizione. In greco, infatti, è piuttosto l’intera costruzione (nel senso elaborato negli approcci costruzionisti, cioè un’associazione convenzionale di forma e significato indipendente dalla struttura interna, che costituisce un’unità a qualche livello di rappresentazione; cfr. infra § 3.3.3. e 3.3.4.) data da ð insieme con il sintagma vocativale a costituire un’unità interiettiva, non la sola particella allocutiva. In questa sede,
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preferiamo dunque, come anticipato in nota, usare l’espressione “particella allocutiva”.
Gli elementi interiettivi sono solitamente esclusi o trattati marginalmente nelle grammatiche delle lingue classiche e dalle grammatiche in generale (LEPRE, 2000: 9), poiché si tende a pensare che essi non pertengano strettamente al dominio della grammatica di una lingua, ma che siano semplicemente l’espressione dell’emotività e dell’affettività, cioè, in termini peirciani, solo indici e non simboli. La tassonomia proposta da Lepre (1994), invece, mette l’accento sulla effettiva natura linguistico-funzionale delle interiezioni, ad avviso della studiosa suddivisibili tra conative ed emotive. La studiosa parte dal presupposto che la funzionalità di questi elementi sia il parametro pertinente alla loro classificazione, e li distingue pertanto in base ai parametri di neutralità vs specificità semantico-funzionale, distaccandosi in tal maniera dalla tradizione.143 In questa tassonomia, quindi, la particella ð, benché di natura non lessicale, si collocherebbe senz’altro tra gli elementi funzionalmente specifici: ð è un segno linguistico a tutti gli effetti, costituito dall’associazione convenzionalizzata tra un significato ed una contropartita formale. In effetti, ð presenta una specifica funzione semantico-pragmatica, evidentemente relativa al dominio dell’allocuzione e dell’individuazione deittica, che l’analisi dei contesti di occorrenza nella fase arcaica del greco rivela piuttosto precisamente.