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1.4. Dal Rinascimento al Razionalismo

1.6.1. Hjelmslev: La catégorie des cas

Il concetto di Grundbegriff degli indoeuropeisti della seconda metà dell’800 era di ordine diacronico: nel XX secolo esso viene ripreso dallo strutturalismo in senso sincronico come nozione ermeneutica della categoria del caso. Il trattamento della categoria nello strutturalismo è caratterizzato da una forte esigenza di astrazione, teorizzazione e simmetria, che permetta di superare l’atteggiamento ottocentesco volto allo studio empirico e all’elencazione ateorica di valori funzionali.

L’impianto teorico dei casi si realizza nello strutturalismo per mezzo di due concetti fondamentali, quello di sistematizzazione delle relazioni oppositive e quello di “significato generale”, che esiste, appunto, in virtù del sistema oppositivo. L’eredità concettuale che concerne il “significato generale” è rielaborata da Hjelmslev nella nozione di “valore” come scarto semantico minimo rispetto agli altri elementi della categoria;65 il valore è l’elemento sistemico, astratto, che permette la casistica concreta degli usi nella parole: «Un cas, comme une forme linguistique en général, ne signifie pas plusieurs choses différentes; il signifie une seule chose, il porte une seule notion abstraite dont on peut déduire les emplois concrets. […] A une seule unité du système doit

65 L’idea di “significato generale” non coincide esattamente tra le diverse posizioni

strutturaliste. Jakobson (1936 [1971: 23 e ss.]), fin dalle prime battute del Beitrag, sostiene la necessità di superare la visione atomizzante del significato categoriale come somma dei vari significati quale unico modo di salvaguardare la relazione saussuriana tra significante e significato, ma prende le distanze dalla signification fondamentale di Hjelmslev, preferendo il concetto di Gesamtbedeutung. Questo, secondo Jakobson, presenta il vantaggio di non prestarsi a sovrapposizioni con la Hauptbedeutung, cioè il “significato principale”.

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correspondre une seule valeur. Cette valeur ou signification fondamentale est trouvée par une comparaison des emplois auxquels se prête le cas en question, et par une considération des oppositions qu’il contracte dans le système. La valeur est le minimum différentiel de signification» (HJELMSLEV, 1935 [19722: 85- 86]).66 La concezione hjelmsleviana dei casi è, come noto, localistica ed universalistica, seppure in senso diverso rispetto al razionalismo: per Hjelmslev non sono i sistemi di casi ad essere universali né tantomeno i loro significati, ma unicamente la categoria, che è espressa da mezzi formali diversi nelle diverse lingue. In tutte le lingue, pertanto, esiste una rappresentazione della categoria del caso, che può benissimo non essere codificata mediante la flessione nominale (HJELMSLEV, 1935 [19722: 68 e ss.]). La definizione della categoria si colloca dunque al livello semantico: Hjelmslev riprende le teorie localistiche di Massimo Planude e del XIX secolo apportandovi delle modifiche.67 Le tre dimensioni definitorie della categoria, gerarchicamente implicate, sono quella di direzione68, di coerenza e di soggettività; ogni parametro delle dimensioni può essere positivo, negativo o neutro. Ogni sistema possiede un caso detto intensionale, cioè un “caso-cardine” rispetto al quale si dispongono le opposizioni degli altri casi e che individua solo una delle tre possibilità.69

Nella sezione sui risultati provvisori cui Hjelmslev approda in seguito all’espressione della necessità di una teoria pancronica e dopo la definizione e

66 Per la critica al concetto di valore in Hjelmslev si rimanda a Calboli (1972: 124-125). 67 Per esempio Hjelmslev si distacca dalla teoria localistica di Wüllner che escludeva il

nominativo dal novero dei casi: questo è secondo lo studioso danese uno dei motivi della poca fortuna del localismo (HJELMSLEV, 1935 [19722: 43]). Per questo motivo Hjelmslev include il

nominativo nel novero dei casi, come espressione di una relazione collocabile senz’altro nella dimensione della direzione.

68 Le dimensioni di Hjelmslev sono connotate in maniera assolutamente astratta e non

circostanziata nella deissi, e si manifestano a tutti i livelli possibili, di spazio, di tempo e di relazioni logiche (HJELMSLEV, 1935 [19722: 85]).

69 Ovvie ragioni di spazio e di pertinenza al tema trattato non permettono una trattazione

approfondita della complessa dottrina casuale di Hjelmslev. Una trattazione sistematica delle questioni ad essa legate, anche in relazione ad altre posizioni strutturaliste, si trova in Calboli (1972: 121 e ss.), Agud (1980: 275 e ss.), Serbat (1981: 97 e ss.). Si segnalano inoltre i più recenti contributi di critica hjelmsleviana di Galassi, Picciarelli e Caputo (1999: 9-69) posti ad introduzione dell’edizione italiana di La catégorie des cas, che affrontano nel dettaglio gli aspetti salienti dell’opera, in particolare l’universalità della categoria, le sue realizzazioni, la natura partecipativa delle opposizioni grammaticali, la definizione e la struttura delle categorie grammaticali, il concetto della spazialità.

Capitolo 1. Il vocativo nella teoria dei casi 75

delimitazione della categoria del caso come semantica (HJELMSLEV, 1935 [19722: 71-94]), dunque ancora nella parte in cui vengono fissati i presupposti alla teoria vera e propria, si dà una definizione provvisoria di caso, secondo la quale «Est cas une catégorie qui exprime une relation entre deux objects». Pertanto:

La définition qui vient d’être donnée permet à coup sûr d’exclure le vocatif de la catégorie casuelle. Par opposition à tout véritable cas, le vocatif a précisément ceci de particulier de ne pas exprimer une relation entre deux objects (HJELMSLEV, 1935 [19722: 96-97]).

Il vocativo è dunque escluso a priori dalla trattazione, poiché esula dalla cornice definitoria adottata. L’autore aveva del resto già nel corso dell’opera più volte accennato al fatto che l’inclusione del vocativo nella stessa categoria del caso fosse un completo arbitrio, a causa della totale estraneità del suo significato rispetto a quello degli membri della categoria (cfr. anche § 1.2.2.).

L’espunzione compiuta da Hjelmslev, tuttavia, è evidentemente discutibile, dal momento che non si può tralasciare il dato che il vocativo è morfologicamente senz’altro integrato nel sistema dei casi delle lingue classiche, cui Hjelmslev fa riferimento in questa prima parte della sua opera. Tale espunzione ci appare dettata esclusivamente da quello che possiamo definire un horror inaequālis, cioè un “rifiuto dell’asimmetrico”, particolarmente avvertito in ambito strutturalista proprio a causa della concezione della lingua come sistema (simmetrico) di opposizioni parallele. Dal punto di vista di Hjelmslev l’asimmetria del vocativo è in effetti doppia: esso è asimmetrico sia rispetto agli altri casi, sia, volendolo considerare con Bernhardi (cfr. § 1.5.) come caso della II persona, rispetto alla persona stessa, dal momento che non esiste un caso della I persona: questo punto sarà di nuovo oggetto di più approfondita discussione nel § 2.2.2.

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Altri strutturalisti, a differenza di Hjelmslev, non espungono il vocativo, pur non riuscendo ad integrarlo nel sistema.