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di Guido Bedaridadi Guido Bedarida

di Guido Bedarida

Un punto di partenza per la ricerca di prove documentali dell’abbandono di alcuni tratti propri del bagitto sette-ottocentesco può essere l’analisi linguistica dei 180 sonetti che costituiscono Ebrei di Livorno

di Guido Bedarida245. Al di là dell’indubbio valore letterario, l’opera,

pubblicata nel 1956, costituisce la più ampia e completa raccolta di vocaboli ed espressioni giudeo-livornesi realizzata da un autore ebreo, mosso dall’intento di valorizzare e conservare il patrimonio linguistico e culturale della propria comunità storica di appartenza. Pur trattandosi di una fonte letteraria, e quindi soggetta a tutti i limiti del caso246, l’affidabilità e la

competenza dello studioso livornese conferiscono al volume un grandissimo interesse linguistico, sufficiente per impostare un’analisi formale e oggettiva capace di fornire dati attendibili. Già ad un primo sguardo superficiale, il materiale linguistico contenuto nei sonetti risulta adatto alla raccolta di informazioni riguardanti il passaggio dal bagitto alla parlata giudeo- livornese, in virtù della particolare struttura narrativa dell’opera. Scenette e personaggi tipici del mondo del “ghetto” illustrano tre secoli di storia della “Nazione Ebrea” di Livorno, secondo un filo narrativo cronologicamente ordinato che lega i sonetti, e che emerge saltuariamente mediante i riferimenti storici espliciti ed impliciti disseminati qua e là nel testo. Il fatto interessante ai nostri fini è che anche la riproduzione linguistica della parlata giudeo-livornese operata da Bedarida muta in base alla progressione storica soggiacente alla narrazione, simulando l’evoluzione della varietà durante i secoli.

Ad esempio, scegliendo come campioni alcuni fenomeni fonomorfologici della parlata giudeo-livornese riprodotti da Bedarida, è possibile, verificandone la distribuzione nel testo, ricavare approssimativamente il

245 G.BEDARIDA, Ebrei di Livorno. Tradizioni e gergo in 180 sonetti giudaico-livornesi, cit..

246 Per le stesse ragioni addotte da Mancini nei confronti della contemporanea raccolta di sonetti in giudeo-romanesco di Del Monte (M. MANCINI, Sulla formazione dell’identità linguistica giudeo-

romanesca tra tardo medioevo e rinascimento, cit., p.96), l’opera del Bedarida è infatti sospetta di artificiosità, in ragione dell’influsso di un gusto antiquario riflesso dal punto di vista delle scelte linguistiche.

periodo storico di ambientazione del sonetto in cui il tratto compare per l’ultima volta, utilizzando come “punti di riferimento” le coordinate storiche presenti nell’opera . Questa procedura di analisi è stato condotta su quattro fenomeni, due morfologici e due fonetici: in tal modo ovviamente non si otterranno dati incontrovertibili, bensì indizi utili alla comprensione di un problema complesso.

Partendo dalla fonetica segmentale, il primo fenomeno preso in esame è la sostituzione della “v” con la “b”, realizzazione grafica dell’unico esito fricativo bilabiale tipico della parlata giudeo-livornese della fricativa labiodentale sonora e dell’occlusiva bilabiale sonora, due consonanti che in italiano sono distinte sia graficamente che fonologicamente. Bedarida riproduce questa abitudine fonetica bagitta, residuo del sistema fonologico del castigliano, scrivendo parole come “bedere”, “benga”, “bento” per “vedere”, “venga”, “vento”. L’ultima attestazione di questa grafia anomala (“bestitura”) è contenuta nel sonetto 27, “Sionismo avanti lettera”. Bedarida fa parlare con questa pronunzia un personaggio attaccato alla propria identità culturale e religiosa e fieramente ebreo, che stigmatizza il comportamento dei propri correligionari, i quali per paura, vergogna o pusillanimità, mutano l’accento dei propri cognomi per avvicinarli all’italiano.

Il periodo storico in cui è ambientato il dialogo in questione si può dedurre da alcune informazioni contenute nei sonetti immediatamente precedenti e successivi. Nel sonetto 24 si fa riferimento alla “jescibà di Marini”, istituita a metà del secolo XIX, e a Vittorio Emanuele II, che fu re d’Italia dal 1861 al 1878, mentre uno dei personaggi del sonetto 32 è un maestro seguace della scuola di Cesare Lombroso, diffusasi negli anni Novanta del XIX° secolo. La resa grafica di uno dei tratti fonetici più

caratterizzanti del bagitto, a cui l’autore ripetutamente ricorre nei sonetti precedenti anche in posizione intervocalica247, viene dunque abbandonata

definitivamente in una fase della narrazione ambientata nel periodo risorgimentale e postunitario. Al di là dell’epoca scelta, sembra comunque emblematico che l’autore riproduca per l’ultima volta il fenomeno proprio in un sonetto che mette in evidenza le conseguenze negative del processo di integrazione/assimilazione sulla coesione culturale e identitaria della comunità ebraica.

Il secondo fenomeno preso in esame, stavolta oggetto della fonetica intersegmentale, è l’assenza di rafforzamento fonosintattico, che, secondo Bedarida, avrebbe interessato nella parlata giudeo-livornese persino le preposizioni articolate, le quali, secondo la norma dell’italiano, raddoppiano anche graficamente la consonante dell’articolo che segue la preposizione terminate per vocale. Incontriamo dunque nel testo forme come “de l’”, “de le”, “de li”, “de lo”, “a l’”, “a la”, “a le”, “a lo”, “da l’”, “da la”, “da le”, “ne la”, “ne le”, “su l’”, “su lo”, “su le”, al posto delle consuete forme “dell’”, “delle”, “degli”, “dello”, “all’, “alla”, “alle”, “allo”, “dall’, “dalla”, “dalle”, “nello”, “nella”, “nelle”, “su l’”, “sullo”, “sulle”. L’ultima attestazione del fenomeno è la forma “a la” presente nel sonetto 177, inserita quasi alla fine dell’opera. Altre forme compaiono al massimo fino al sonetto 163 (“a lo”), al sonetto 172 (“a l’”, “a le”, “ne la”), o al sonetto 174 (“de l’”).

L’autore non si limita tuttavia a rappresentare il mancato rafforzamento dei giudeo-livornesi, ma giunge persino a dare veste grafica alle consonanti rafforzate dei personaggi non ebrei, addirittura in fonosintassi, ed a porre a contrasto all’interno dello stesso sonetto le due diverse abitudini fonetiche, le

quali coesistettero a lungo a Livorno, giungendo ben oltre il XIX° secolo248.

Meritano perciò particolare attenzione i sonetti 165 e 166, nei quali è inscenato un dialogo tra un’ebrea, “la Farchì”, e due amiche non ebree, “Mentana” e “Crèofe”. Bedarida riproduce la pronunzia rafforzata di quest’ultime mediante forme come “e ssenza”, “o mmetti”249, “ho ssempre”,

“un nnome”, “a mme”250, mentre la donne ebrea continua a pronunciare le

preposizioni articolate senza raddoppiamento consonantico (“de l’”)251. La

scena è senza ombra di dubbio ambientata nell’immediato secondo dopoguerra. Infatti, nel sonetto 165 un motto di spirito, spiegato in nota, fa riferimento alla disinfezione dell’acqua potabile mediante un massiccio uso di cloro effettuata a Livorno dopo la seconda Guerra mondiale, ed inoltre, con l’inserimento di un elemento storico ben più preciso, “Tel Avì” è menzionata come città “già capitale dello Stato d’Israele”. Pare dunque inequivocabile che i due sonetti, entrambi intitolati “Il nome alla bimba”, si collochino storicamente tra il 1948 e il 1949.

A ciò deve essere aggiunto che l’assenza di rafforzamento fonosintattico è un fenomeno assimilabile allo scempiamento delle consonanti geminate, anch’esso rappresentato dall’autore e indicato più volte come un’abitudine fonetica tipicamente giudeo-livornese, da ritenersi ancora una volta un probabile retaggio iberico. L’ultima resa grafica del fenomeno, “scometto”, è stata inserita da Bedarida proprio nell’ultimo sonetto (in realtà il penultimo),

Addio, Livorno!, ove sono riportati i pensieri di un ebreo livornese che, tra

248 Ci sembra importante segnalare che nel sonetto 166, Mentana, non ebrea, si rivolge all’amica riferendosi al “su’ dialetto” e pronunciando alla maniera livornese due parole bagitte, “chìgheda” e “pacarosa”. Dunque secondo Bedarida nel secondo dopoguerra era ancora forte la coscienza di una differenziazione linguistica tra ebrei e “cristiani”, così come erano forti, parallelamente, le contaminazioni reciproche.

249 G.BEDARIDA, Ebrei di Livorno. Tradizioni e gergo in 180 sonetti giudaico-livornesi, cit., p. 179.

250 Ivi, p.180. 251 Ivi, p.180.

entusiamo e malinconia, lascia Livorno nel secondo dopoguerra per imbarcarsi verso Israele.

Il blocco di sonetti che va dal 171 al 180 contiene riferimenti e allusioni storico-politiche che permettono di individuarne l’ambientazione tra il 1946 e i primissimi anni Cinquanta. In questa parte, che conclude l’opera, i fenomeni fonetici sopra descritti non sono rappresentati sistematicamente come nei sonetti precedenti, ma inseriti sporadicamente accanto alle forme consuete, con oscillazioni tra norma e anomalìa - probabilmente non casuali – messe in bocca allo stesso personaggio. Ciò lascerebbe pensare ad una rappresentazione, volutamente cercata dall’autore negli ultimi sonetti, della progressiva regressione di questi elementi fonetici difformi nel periodo storico individuato.

Il terzo fenomeno scelto è invece di natura morfologica: il plurale in –i per i sostantivi femminili, senza distinzione dal maschile nella desinenza252.

Forme del tipo “li navi” per “le navi” sono usate da Bedarida in casi rarissimi (dalla nostra analisi ne risultano soltanto tre), e l’ultima attestazione dell’opera, “mani lunghi”, cade all’interno del sonetto 15. Già dal titolo l’inquadramento storico è palese: “Napoleone s’è lehhtito dall’Elba”, che in giudeo-livornese sta per: “Napoleone se n’è andato dall’Elba”. I commenti degli ebrei livornesi Algranati e Dana prendono dunque spunto dagli avvenimenti del 1815.

L’altro carattere morfologico preso in esame, il quarto ed ultimo fenomeno di questa breve disamina, interessa una serie di clitici: in bagitto i pronomi atoni “mi”, “ti”, “ci”, “si” sono sostituiti da “me”, “te”, “ce”, “se”. L’autore di Ebrei di Livorno ricorre abbondantemente e per buona parte

dell’opera a questi esiti morfologici dall’effetto spagnolizzante, per poi abbandonarli dopo il sonetto 27253, già “confine” testuale per la sostituzione

di “v” con “b” analizzata in precedenza e collocabile storicamente nel periodo risorgimentale e postunitario. In realtà il “te chiamo” e “ce chiamerebbimo” presenti nei versi di “Sionismo avanti lettera” non costituiscono le ultime attestazioni nell’opera: ne “I sonetti di Giacobbe Attias, Levantino” (40-45)254

il fenomeno ricompare ben otto volte. Non sarebbe tuttavia corretto attribuire queste forme alla rappresentazione dell’evoluzione linguistica della parlata giudeo-livornese operata dall’autore. Tutte le attestazioni, infatti, ricorrono esclusivamente nelle parole di Giacobbe Attias, “levantino” dotato di un linguaggio particolare e nettamente distinguibile da quello dei propri interlocutori, ebrei e non ebrei. Bedarida, come egli stesso ci informa255,

attraverso il personaggio di Giacobbe Attias fa rivivere in questi cinque sonetti – e solo in questi - la cosiddetta lingua franca o degli scali del Levante256, parlata in passato da alcuni commercianti ebrei di stanza a

Livorno, ma non assimilabile alla parlata giudeo-livornese. Anche non prendendo in considerazione l’esclusione dall’analisi dei sonetti sopra indicati in virtù del loro “speciale” status linguistico, l’atmosfera storica relativa non si discosta sostanzialmente da quella del sonetto 27, in cui occorre l’ultima attestazione idonea del fenomeno. Nel sonetto 36 è infatti nominato Umberto I, re d’Italia dal 1878 al 1884, e nel sonetto 44 Giacobbe Attias si trova a Lucca per sfuggire da una Livorno infestata dal colera, molto probabilmente durante la grave epidemia del 1866257; siamo quindi ancora in

253 G.BEDARIDA, Ebrei di Livorno. Tradizioni e gergo in 180 sonetti giudaico-livornesi, cit.,pp.36-37.

254 Ivi,pp.52-59. 255 Ivi, p.52, n.2.

256 Si veda a proposito il paragrafo §1.2.5.

periodo immediatamente postunitario.

Sembrerebbe dunque che Guido Bedarida, oltre all’ambizioso progetto di utilizzare lo strumento letterario per creare un vero e proprio “glossario- Nazione”, abbia anche condotto durante la stesura un attento e costante sforzo di rappresentazione diacronica delle trasformazioni della parlata giudeo-livornese. Gli elementi testuali analizzati lasciano supporre che per raggiungere questo scopo l’autore di Ebrei di Livorno abbia fondato la narrazione su eventi storici, politici e sociali rilevanti che, secondo la visione dello studioso livornese, costituirebbero gli spartiacque necessari per una delimitazione cronologica delle fasi evolutive della varietà dialettale degli Ebrei livornesi.

I risultati di questa parziale analisi linguistica del testo, focalizzata sul collegamento tra la distribuzione di alcune forme-guida e l’ambientazione storica del percorso narrativo, dimostrano una puntuale aderenza con una periodizzazione delle fasi della parlata giudeo-livornese basata sui criteri storici, storico-liguistici, demografici, culturali e socio-politici sviluppati in precedenza. Gli stadi che segnano su piani diversi il passaggio dal bagitto

alla parlata giudeo-livornese trovano perciò conferma nell’impianto proposto dal Bedarida: declino delle difformità morfologiche tra l’inizio e la seconda metà dell’Ottocento; declino delle difformità fonologiche tra la seconda metà dell’Ottocento e la metà del Novecento. Lo studio delle anomalie prosodiche e intonazionali, per ovvie ragioni, non può invece trovare alcun riscontro in un’opera letteraria.

ambientato durante la Seconda Guerra mondiale. La locuzione interessata, “in che se bide” è però, come spiega l’autore in nota, una “vecchia frase di gergo”, ossia una olofrase originaria dell’Ottocento che si è tramandata in forma fossilizzata. Non trattandosi dunque della mimesi di un uso corrente e autonomo da parte del personaggio del clitico difforme, l’attestazione non è stata presa in considerazione ai fini dell’analisi effettuata.

Capitolo III

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