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Un dibattito tra averroismo e tomismo Gli studi di Mandonnet, Gilson, Van Steenberghen e Nard

CAPITOLO SECONDO

3.2 Un dibattito tra averroismo e tomismo Gli studi di Mandonnet, Gilson, Van Steenberghen e Nard

Le opere di Sigieri di Brabante giacevano, fino alla fine dell’Ottocento, sepolte in alcune biblioteche europee e solamente il suo nome resisteva alla memoria dei secoli soprattutto grazie all’ enigmatico elogio che Dante mette in bocca a Tommaso D’Aquino nel Paradiso.

3.2.1 Pierre Mandonnet e il tomismo di Dante

Verso la fine dell’Ottocento Mandonnet159 ritrova il De anima intellectiva e le Quaestiones

in tertium de anima, ovvero opere di psicologia filosofica che, in effetti, spiegavano

l’atteggiamento di condanna del vescovo di Parigi nel 1270. Per questo motivo, la prima grande opera su Sigieri di Brabante di Mandonnet, edita nella sua versione finale nel 1911, s’intitolerà Sigieri di Brabante e l’averroismo latino nel tredicesimo secolo. All’interno dell’opera dello storico francese la figura del filosofo brabantino inizia a prendere una forma concreta: nato intorno al 1240 in una città del Brabante, Sigieri, circa nel 1258-1259, inizia a frequentare la Facoltà delle Arti di Parigi. Secondo la testimonianza di Simone di Brion, un legato pontificio che si era recato nella capitale francese per risolvere questioni legate ad alcune tensioni e dispute createsi tra università, Sigieri risulta come uno dei

159 Pierre Mandonnet (Beaumont, Puy-De-Dome, 1858 - Kain, Hainaut, 1936) è stato uno storico del pensiero medievale. Domenicano e professore all’Università di Friburgo in Svizzera, della quale è stato anche rettore, si concentrò prevalentemente sulla filosofia medievale.

responsabili di questi contrasti160. Non solo. A lui vengono imputate due pesanti accuse: rapimento e sequestro di un maestro schieratosi dalla parte della fazione opposta a quella del brabantino e l’aver assalito altre persone nel bel mezzo di una funzione liturgica presso il convento di Saint Jacques161.

Per questi motivi, legati sia ai documenti del 1270 che a questi disordini universitari, tra le righe di Mandonnet nasce un primo ritratto di Sigieri tutt’altro che positivo: egli doveva essere un leader sobillatore del movimento averroista. Inoltre secondo lo storico, il filosofo del Brabante non era di grande originalità filosofica, visto che nei suoi scritti non fece altro che riportare le tesi di Aristotele e di Averroè. Tuttavia doveva possedere una grande chiarezza espositiva in quanto riuscì a scatenare una delle più grandi censure della storia della Chiesa.

Nel suo scritto su Sigieri, Mandonnet dedica, ovviamente, molte righe anche al presunto rapporto intellettuale tra Dante e il brabantino e arriva a formulare alcune tesi. La prima, come già detto, riguarda il fatto che Sigieri professava un puro averroismo filosofico, l’altra è che Dante condannò di netto l’averroismo al punto tale che «tutta la filosofia di Dante è la contraddizione stessa di quella di Averroè»162.

Dunque come ha potuto, il poeta fiorentino, far glorificare da San Tommaso d’Aquino, in paradiso, un averroista come Sigieri di Brabante?

La riposta che dà Pierre Mandonnet è che Dante non conosceva le dottrine del filosofo. In effetti è possibile che Dante non conoscesse le dottrine di Sigieri di Brabante, tuttavia è anche possibile il contrario, cioè che conoscesse intimamente il brabantino per il fatto di essere stato un suo allievo.

Quest’ultima ipotesi, che è anche la stessa formulata da Renan nel suo testo su Averroè e l’averroismo, è stata ripresa con qualche variante da Reinach163 (L’énigme de Siger, in

160 Nel 1256 Sigieri di Brabante fu tra i protagonisti della disputa tra la nazione picarda, di cui faceva parte, e la nazione francese. Tale disputa era nata in quanto le due nazioni si contendevano l’appartenenza del maestro Giovanni d’Ully. Il contrasto si trasformò presto in vero e proprio conflitto, con tanto di sequestri di persona e tentati omicidi.

161 Si pensa che Sigieri avesse disturbato la commemorazione tenuta in occasione dell’anniversario della morte del maestro francese Guglielmo di Auxerre.

162 P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroisme latin, Inst. Sup. de Phil, Louvain, 1908-1911?, p. 302. 163 Salomon Reinach (Saint-Germain-en-Layne, 1858 - Boulogne-Billancourt, 1932) è stato un archeologo e storico delle religioni. Si interessò anche di filosofia, traducendo nel 1877 l’opera sul libero arbitrio di Schopenhauer.

“Revue Historique”) nel 1926. In questo articolo l’autore, riproducendo una memoria letta all’Académie des Inscriptions et Belle-Lettres il 4 settembre 1925, conclude che Dante conobbe Sigieri di Brabante in Italia, e che, verso il 1282, egli incontrò «questo giovane bello, pensoso, appartenente a una famiglia fiorentina allora molto agiata, e gli diede degli ammaestramenti per vivere. Fu lui ad iniziare Dante ad Alberto e a Tommaso, al loro comune maestro Aristotele, al grande commentatore Averroè». Le parole di Reinach hanno del romanzesco, in ogni caso i passi che riporta nell’articolo sono molto precisi: Sigieri considerava Tommaso come uno dei più importanti filosofi del tempo; almeno dal punto di vista degli agostiniani, anche l’Aquinate era compromesso con Averroè (infatti almeno una ventina di proposizioni della condanna del 1277 colpivano più o meno direttamente anche Tommaso d’Aquino); c’è un perfetto accordo tra Sigieri e Tommaso nell’ammettere che Aristotele sia il filosofo per eccellenza; benché Tommaso non ammetta che la filosofia possa giungere a conclusioni contrarie alla fede, egli è d’accordo sulla distinzione specifica tra filosofia e teologia. Reinach giunge alla conclusione per cui Sigieri e Tommaso non furono poi così separati dall’opposizione radicale che la storia ha creduto di dover constatare fra loro.164

164 Lo studio di Reinach è riportato nella nota 41, pp. 238-239 di É. Gilson, Dante e la filosofia, Editoriale Jaca Book, Milano, 2016.

3.2.2 Étienne Gilson e le “acrobazie esegetiche” di Mandonnet

Dante, di certo, se non sa tutto di Sigieri, vista la profusione di dettagli con cui lo descrive, sa, perlomeno il perché lo ha messo in Paradiso, come spiega nella sua opera del 1939 Gilson165, criticando l’ipotesi del Dante tomista di Mandonnet.

Gilson afferma che quelle dello storico francese sono vere e proprie acrobazie esegetiche mirate a dimostrare un presunto tomismo di fondo all’interno della Divina Commedia e un forzato uso del simbolo166 all’interno del poema; inoltre, a giudicare dal testo di Mandonnet, sembrerebbe che Dante, un antiaverroista e discepolo della scuola di Tommaso, metta un averroista in Paradiso. Per Gilson è una tesi insostenibile, in quanto Dante, a suo parere sapeva molto di più della dottrina di Sigieri, rispetto a ciò che asserisce Mandonnet; inoltre sarebbe difficile sostenere che Dante abbia commesso questo errore per caso.

Gilson infatti tenta di ricavare le uniche verità possibili analizzando le terzine che Dante dedica al brabantino nel Cielo del Sole.

“Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri

165 Étienne Gilson (Parigi, 1884 - Auxerre, 1978) fu un filosofo cristiano cattolico francese e di storia della filosofia medievale. Nato da una famiglia cattolica originaria della Borgogna, studiò nel seminario di Notre- Dame-des-Champs e terminò gli studi presso il liceo Enrico IV. Allievo di Henri Bergson al Collège de France nel 1905, Gilson occupò il ruolo di docente presso l’Università di Lille, Strasburgo, alla Sorbona e al Collège de France. Insegnò per tre anni ad Harvard e nel 1947 fu ammesso all’Accademia di Francia.

Autore di molte monografie sui principali pensatori, Gilson ha contribuito in modo decisivo alla valorizzazione del Medioevo e della sua varietà si posizioni speculative, contribuendo alla rinascita del tomismo. Notevoli furono anche i suoi studi sul Discorsi sul metodo di Cartesio. Scrisse anche su sant’Agostino, Pietro Abelardo, san Bonaventura, Giovanni Duns Scoto, Dante e san Tommaso.

166 Secondo il parere di Gilson, Mandonnet, a prova della sua tesi, cioè che Dante era un tomista, avrebbe trovato troppo spesso l’uso del simbolismo trinitario all’interno del poema dantesco. Mandonnet, in effetti, scorge all’interno della Commedia un simbolismo del numero della trinità talvolta errato e spesso ingiustificato.

Uno degli esempi che riporta Gilson è quello dei tre personaggi principali, Dante, Virgilio e Beatrice. Gilson fa infatti notare che Mandonnet, per far tornare i suoi conti, volontariamente sceglie tre personaggi, “dimenticandosi” di una figura fondamentale e decisiva, cioè san Bernardo, il quale condurrà il poeta all’estasi finale, coronamento del suo pellegrinaggio nell’aldilà.

Un secondo esempio è riferito alla voce di san Tommaso d’Aquino (Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al

centro, / muoversi l’acqua in un ritondo vaso, / secondo ch’è percossa fuori o dentro. / Ne la mia mente fe’ subito caso / questo ch’io dico, sì come si tacque / la gloriosa vita di Tommaso, / per la similitudine che nacque / dal suo parlare e di quel di Beatrice, / a cui sì cominciar dopo di lui, piacque.- Paradiso, XIV, 1-9).

Mandonnet afferma (Dante le Théologien. Introduction à l’intelligence de la vie, des oeuvres de l’art de

Dante Alighieri, Desclèe de Brouwer, Paris, 1935, p. 267) il parlare di san Tommaso d’Aquino è simile a

quello di Beatrice. Secondo il parere di Gilson la tradizione del Mandonnet dei versi di Dante sono errati, in quanto non si affermerebbe mai che la voce di Tommaso somigli a quella di Beatrice, bensì che le due voci avevano prodotto movimenti simili, anche se di movimento contrario.

gravi a morir li parve venir tardo167”.

Innanzitutto si capisce che Sigieri attese una morte lenta a venire. Anche se la morte del filosofo non è documentata da fonti certe; la risposta potrebbe risiedere nel poemetto Il

Fiore168, attribuito a Dante ma di incerta paternità169. Se gli studiosi fossero d’accordo nel ritenerne il poeta fiorentino l’autore, allora tutti i dubbi sulla morte del brabantino sarebbero risolti, cioè che venne assassinato170 presso Orvieto. Gilson, però, vista questa incertezza, tralascia il problema circa gli ultimi momenti della vita di Sigieri.

“essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, sillogizzò invidiosi veri.171

Insegnò, dall’anno 1266172, filosofia presso la facoltà delle Arti dell’Università di Parigi ma la sua carriera iniziò a vacillare già a partire dal 1270173 e fu definitivamente stroncata

167 Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto X, 133-135.

168 Mastro Sighier non andò guai lieto: / a ghiado il fe’ a morire a gran dolore / nella corte di Roma, ad

Orbivieto (Il fiore, XCII, 9-11, Falsambiente, Dante. Tutte le opere., a cura di Luigi Blasucci, Sansoni Editore

nuova s.p.a., Firenze, 1981, p.752).

169 L’operetta Il Fiore, dal titolo puramente convenzionale, assegnato dal suo primo editore F. Castets nel 1881, è un’opera priva di datazione e di autore. La critica ha dedotto da alcuni riferimenti testuali che il testo risale a un periodo compreso tra il 1283 e il 1287. Parte dei critici danteschi ritiene che vada attribuita al giovane Dante. Al verso 9 del sonetto 82 e al verso 14 del sonetto 202, l’io si appella Ser Durante, interpretato come allusione alla forma completa del nome dell’Alighieri.

170 Putallaz e Imbach, in Professione filosofo, dicono che il 20 maggio 1277, quando venne eletto papa Martino IV, cioè Simon de Brion, il legato inviato a Parigi intorno al 1266, che già aveva segnalato Sigieri come uno dei partecipanti ai disordini universitari, il brabantino si trovava ad Orvieto (forse per perorare la sua causa e la sua dottrina presso il papa precedente Giovanni XXII o per sfuggire all’Inquisizione di Francia, infatti già nel 1276 aveva lasciato Parigi). Di certo è che quel soggiorno presso la curia pontificia iniziò a somigliare ad un arresto. Sigieri sarebbe stato assassinato tra il 1281 e il 10 novembre 1284, pugnalato dal suo segretario in preda a una crisi di pazzia, come riporta la cronaca.

171 Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto X, 136-138.

172 Dal 1266, cioè l’anno in cui Sigieri di Brabante iniziò ad insegnare presso la Facoltà delle Arti di Parigi, al 1270, il maestro brabantino compose i suoi primi opuscoli in cui affrontava il problema degli universali: sul piano metafisico, accennando alla questione dell’eternità della specie; a livello ontologico e logico, trattò dei rapporti tra genere, specie e individuo. L’opera principale di questa produzione (che affronterò in modo più dettagliato nel quarto capitolo di questo lavoro) sono le Quaestiones in tertium de anima, un commento sull’interpretazione che Averroè da di Aristotele circa la tematica dell’ unicità dell’intelletto.

173 Il 1270 è l’anno in cui Tommaso pubblicò il De unitate intellectus (di questo lavoro perlerò più approfonditamente nel quarto capitolo), un’opera che andava a minare le basi delle teorie averroistiche di Sigieri di Brabante, soprattutto l’idea che esiste un unico intelletto possibile condiviso dall’intera umanità. Il 1270 è anche l’anno in cui Tempier, vescovo di Parigi, emanò il sillabo contro alcuni maestri delle Arti di Parigi tra cui lo stesso Sigieri.

dalla condanna174 del 1277. Il 23 ottobre dello stesso anno gli fu ordinato di comparire davanti al tribunale dell’inquisitore di Francia, Simon du Val.

La posizione del Mandonnet, sostiene Gilson, è inverosimile. Come poté, Dante, non conoscere le opinioni di Sigieri, ma sostenere comunque che fossero vere? La ragione della scelta di Dante è relativa al fatto non che di lui non conoscesse qualcosa, bensì che conoscesse qualcosa. Sigieri sostenne verità che gli causarono sofferenze; alla base di queste verità sta la distinzione del brabantino tra ordine teologico e ordine filosofico- naturale. Tommaso lo elogia non perché lo avrebbe elogiato in vita, ma perché rientra nell’ottica del progetto dantesco, ovvero ristabilire in cielo l’ordine che in terra venne sovvertito a causa dell’ignoranza umana. La stessa cosa accadde con Bonaventura che elogia Gioacchino, che lo aveva combattuto in vita. Gilson, d’accordo con Nardi175, invita a non prendere i personaggi danteschi nella loro realtà storica per evitare di cadere in aporie. Sigieri ammise che la ragione non sempre si accorda con la fede e Tommaso lo negò. Per il filosofo del Brabante la ragione filosofica si pronuncia a favore dell’unità

174 In questo documento venivano censurate tredici posizioni filosofiche ritenute inaccettabili dall’autorità ecclesiastica.

Le proposizioni 1 e 2 condannavano la tesi del monopsichismo: non si può ammettere che vi sia un solo intelletto per tutti gli uomini, cioè che non sia l’uomo singolo a conoscere.

Le proposizioni 5 e 6 respingevano la tesi dell’eternità del mondo e delle specie, in particolare quella umana. Nelle proposizioni 3, 4, e 9 Tempier condannava come eretiche le tesi sulla negazione del libero arbitrio e quella secondo cui il mondo sublunare sarebbe retto da un determinismo assoluto dovuto alle influenze degli astri.

La numero 7 e la numero 8 censuravano la teoria per cui l’anima, finché legata al corpo, si corrompe con esso e quando dopo la morte si separa dal corpo, non può soffrire dolore per le fiamme dell’inferno.

Infine le proposizioni dalla 10 alla 13 erano quelle in cui il vescovo di Parigi ribadiva l’onniscienza, l’onnipotenza e la provvidenza divine contro ogni tentativo di negarle.

Vorrei riportare anche il parere di L. Bianchi, il quale si è pronunciato circa le motivazioni che avrebbero spinto il vescovo di Parigi alle condanne del 1277. Egli afferma che Tempier intendeva non tanto punire le dottrine proposte dai maestri che presentavano Aristotele filtrato dal pensiero di Averroè, quanto piuttosto porre un limite al dibattito filosofico. L’ecclesiastico, in sostanza, avrebbe inteso mostrare a quali pericolose aberrazioni avrebbe potuto condurre una filosofia che non avesse tenuto presenti gli insegnamenti della rivelazione. Egli intuì che se la filosofia non fosse stata limitata, avrebbe presto cominciato a esaminare e confutare i dogmi della fede sulla base di argomenti puramente razionalizzanti. Per questo egli, secondo Bianchi, ritenne opportuno stroncare necessariamente ogni dibattito filosofico che toccasse anche indirettamente i temi propri della fede.

175 Nardi in Saggi e note di critica dantesca, parlando della netta differenza tra ciò che si conosce in terra e ciò che si conosce in paradiso, dirà di Beatrice: «Essa, insomma, nella beatitudine celeste, ne sa molto di più di quanto ne sapesse San Tommaso in terra, quando questi s’accaniva contro il filosofo averroista del “vico de li strami” che dalla Garlandia conduceva a Notre-Dame, mentre, salito al cielo, lo stesso Aquinate riconosce in esso uno spirito degno di risplendere insieme a lui nella sfera del sole, ove si mostrano a Dante le anime dei grandi saggi che per la loro dottrina meritarono d’essere assunti alla gloria di Dio. E pare (misteri dell’anima dantesca!) senza neppure una strinatina in Purgatorio».

dell’Intelletto possibile, l’Aquinate rigettò questa tesi176. Per comprendere nel miglior modo possibile il progetto dantesco all’interno della Divina Commedia, occorre, pertanto, tener presente la funzione poetica di questi personaggi e non considerarne soltanto la realtà storica.

In conclusione Gilson afferma che Sigieri, “martire della filosofia pura”, era qualificato, agli occhi di Dante, per rappresentare la distinzione tra filosofia come scienza della ragione e teologia come sapienza della fede.

La domanda è: che cosa nella dottrina di un averroista condannato poteva essere lodato da Tommaso d’Aquino e da Dante? Ovviamente non l’averroismo in se bensì la separazione tra ragione e fede implicato dall’averroismo. Il progetto dantesco è qui realizzato appieno: l’Alighieri non vuole né insegnare teologia né promuovere la filosofia, vuole soltanto ricongiungere le due dottrine, teologica e filosofica, in un reciproco rispetto.

Anche Bruno Nardi in Saggi e note di critica dantesca tratta questa tematica del separatismo spostando, soprattutto il fuoco sulla distinzione tra teologia dei beati e teologia dei “viatori”(cioè dei teologi sulla terra). Le controversie cristologiche e trinitarie teologiche sono caratterizzate da litigi, ragionamenti infiniti, dispute e invettive con accuse reciproche;

“sì che là giù, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero;

ma ne l’uno è più colpa e più vergogna. Voi non andate giù per un sentiero

filosofando: tanto vi trasporta

176 Si è unanimemente d’accordo nell’affermare che Sigieri di Brabante venne condannato nel 1270 a causa di un opera sul De Anima andata perduta, in cui si sosteneva che l’intelletto umano è una sostanza separata, unica per tutto il genere umano. Tale scritto venne preso di mira da Tommaso d’Aquino nel suo trattato De

unitate intellectus (che forse diede una spinta verso la condanna di Tempier). In risposta Sigieri scrisse le Quaestiones de anima intellectiva, opera in cui, pur attenuando la sua matrice averroista, sostenne, come

aveva fatto prima del 1270, l’averroista unicità dell’Intelletto possibile, dichiarando che l’anima intellettiva può, tuttavia, essere forma del senso che opera all’interno di ogni uomo. Infine conclude che, essendo di difficile risoluzione queste obiezioni mosse contro le sue tesi, la cosa migliore è attenersi alla fede.

Come si può notare, Sigieri non smentisce mai se stesso, spiega che egli si occupa di filosofia e non di verità; la fede è verità ma non è detto che la filosofia sia comunque falsa. La fede e la ragione, nella stragrande maggioranza dei casi, vanno spontaneamente d’accordo e quando ciò non accade, interviene in aiuto la verità della fede. Per usare le parole del brabantino. Citando le parole di Gilson circa il modo di pensare di Sigieri, «la ragione filosofica descrive la natura quale essa è, o quale essa sarebbe se non vi fosse un Dio la cui potenza soprannaturale ha sostituito alla natura un ordine reale che solo la Rivelazione ci fa conoscere». Per usare invece le parole del testo di Van Steenberghen, Siger de Brabant d’après ses oeuvres inédites (ed. de l’Inst. Sup de Phil., Louvain, 1931, p.179), «non può esistere contraddizione fra vero rivelato e vero scoperto dalla ragione: il vero, infatti, è ciò che è, e Dio non può conciliare cose contraddittorie, non può far si che ciò che è non sia, che ciò che è impossibile sia possibile».

l’amor de l’apparenza e ‘l suo pensiero! E ancor questo qua sù si comporta

con men disdegno che quando è posposta

la divina Scrittura o quando è torta. Non vi si pensa quanto sangue costa

seminarla nel mondo e quanto piace

chi umilmente con essa s’accosta. Per apparer ciascun s’ingegna e face

sue invenzioni; e quelle son trascorse

da’ predicanti e ‘l Vangelio si tace. Un dice che la luna si ritorse

ne la passion di Cristo e s’interpuose,

per che ‘l lume del sol giù non si porse; e mente, ché la luce si nascose

da sé: però a li Spani e a l’Indi

come a’ Giudei tale eclissi rispuose177”.

Beatrice è al corrente di tutto ciò, e, riferendosi sdegnata proprio alla confusione terrena e