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L’intelletto e il “gran comento”

CAPITOLO SECONDO

4.1 L’intelletto e il “gran comento”

Nella Commedia e, più precisamente, nel XXVIII canto dell’inferno, Dante sembra tenere un atteggiamento diverso nei confronti di Averroè rispetto a Muhammad e Alì. Infatti il poeta fiorentino lo elogia per il suo “gran comento” che ha reso degno il filosofo arabo di stare tra gli spiriti magni del limbo. Il “gran comento” a cui l’Alighieri fa riferimento è presumibilmente il Commento grande al De anima di Aristotele che venne tradotto dall’arabo al latino dal Magister Michele Scoto201 e che è presumibile che Dante conoscesse direttamente o indirettamente, probabilmente tramite gli insegnamenti di Sigieri di Brabante.

4.1.1 La teoria dell’intelletto di Averroè e le Questioni sul terzo libro del De Anima di Sigieri di Brabante

In effetti il Sigieri, nelle Quaestiones in tertium librum De anima, che secondo Bazàn sono la testimonianza di lezioni tenutesi presso la Facoltà delle Arti di Parigi tra il 1265 e il 1270, intende percorrere la strada indicata da Aristotele e messa in luce da Averroè proprio nel Commento grande al De anima, in particolare circa la teoria dell’intelletto.

Sigieri, come Aristotele, sostiene che l’intelletto sia assolutamente immateriale in quanto “pensiamo mediante l’astrazione della forma intelligibile dai fantasmi, però, nello specifico compimento dell’atto di pensare, l’intelletto non si serve di un organo202”; infatti noi non

201 Michele Scoto o Michael Scot (Scozia, 1175 circa - 1232 circa o 1236), è stato un filosofo e alchimista che lavorò presso la corte siciliana di Federico II di Svezia. Gli studiosi hanno molto discusso su quale sia stato il contesto in cui Michele Scoto svolse principalmente la sua attività di traduttore, Toledo e la Spagna, Bologna, la corte papale o la corte di Federico II. Sulla questione e in generale sulla figura di Scoto cfr. L. Thorndike, Michael Scot, London-Edinburgh, Thomas Nelson Ltd, 1965; Ch. Burnett, Michael Scot and the

Transmission of Scientific Culture from Toledo to Bologna via the Court of Frederick II Hohenstaufen, in Micrologus, II (1994), pp. 101-126.

Fu uno dei primi a tradurre in latino i commenti di Averroè e le opere aristoteliche in Occidente. Fu una personalità nota ai tempi di Dante per le sue capacità divinatorie, con questa qualifica figura tra i personaggi della Divina Commedia. Infatti nell'Inferno dantesco (Canto XX),viene collocato dal poeta fiorentino all’interno della bolgia degli indovini ed è definito come colui "che veramente / delle magiche frode seppe il gioco". Questo passo è stato preso ad esempio, tra il 1324 e il 1328, da Jacopo della Lana (m. 1365), che fu il primo a chiosare l’intera Divina Commedia. Egli, nel suo commento al poema dell’Alighieri, sottolinea, infatti, come le arti magiche fossero utilizzate da Michele Scoto per allietare la vita del re di Sicilia.

202 Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Questiono sul terzo libro del “de anima” di Aristotele a cura di Antonio Petagine, edizione Bompiani, Milano, 2007, p. 107.

abbiamo bisogno di vedere tutti i triangoli possibili per cogliere in modo evidente tutte le proprietà appartenenti ad ogni triangolo: questo accade perché facciamo esperienza in noi della presenza di una forma che è il concetto, il quale ha la capacità di essere predicabile di tutti i singolari che raccoglie in ogni tempo e in ogni luogo. Ciò accade in quanto il concetto è universale, pertanto possiede caratteri antitetici rispetto a ciò che possiede la materia; dunque è del tutto immateriale e immateriale è l’intelletto che lo produce e che lo fa suo. L’intelletto pertanto non è soggetto a generazione, corruzione, nascita, morte, individuazione e mutamento, cioè a tutti quei predicati che si attribuiscono a ciò che è materiale. Va considerato come una sostanza autonoma, pur avendo un legame naturale al corpo e all’anima, non contenuto nell’anima e dotato di peculiari caratteristiche.

Essendo semplice e venuto dal di fuori, l’intelletto si unisce quindi al vegetativo e al sensitivo al momento della sua venuta. Unificati in questo modo, tali principi non vanno a costituire un’anima semplice, quanto piuttosto una composta.

Se si tiene a mente questa soluzione, diventa chiaro quel che sostiene Averroè, ossia per Aristotele il vegetativo, il sensitivo e l’intellettivo costituiscono nel soggetto un’unica anima. Più precisamente: un’unica anima composta però, non una semplice.203

Pertanto, secondo Sigieri, in linea col pensiero di Aristotele204 e di Averroè, l’intelletto è in sé, ontologicamente separato dalle altre parti dell’anima umana.

L’intelletto va dunque considerato solo per il fatto di essere in sé e nelle varie questioni, Sigieri si chiede se l’intelletto in sé sia eterno o prodotto ex novo. Sigieri sostiene che sia eterno, come eterno è il mondo. Entrambi vengono all’essere senza subire un processo di generazione; solo gli individui delle specie del mondo sono corruttibili, ma non il mondo né la specie. Questo avviene perché il mondo procede direttamente dalla Causa Prima. La stessa cosa dovrebbe essere detta dell’intelletto in sé. Ciò contrasta molto con la tesi dei teologi (e di Agostino205) per i quali l’intelletto è stato creato ex novo in un determinato istante del tempo per volontà del primo principio.

203 Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Questiono sul terzo libro del “de anima” di Aristotele a cura di Antonio Petagine, edizione Bompiani, Milano, 2007, p. 83.

204 A più riprese Sigieri di Brabante prende in considerazione il testo aristotelico Sulla generazione degli

animali in cui Aristotele dichiara che soltanto l’intelletto viene ab extrinseco.

205 L’anima viene infusa da Dio nel momento in cui viene creata e viene creata nel momento in cui viene infusa; quindi l’intelletto ha cominciato ad esistere solo insieme al corpo che esso anima.

Sigieri trova una soluzione: anche se l’intelletto non fosse eterno rispetto al passato, non si può dire che sia stato prodotto in un tempo lineare, cioè relativo alla corruzione e alla generazione; l’intelletto è, dunque, posto in un tempo sui generis che non ha a che fare con la materia e che, nel venire ad essere, non ha conosciuto la mediazione dei processi e delle categoria spazio-temporali del mondo materiale206. Dunque l’intelletto è venuto ad essere in una successione immediata dal non essere all’essere. Ecco perché l’intelletto viene dal di fuori rispetto al processo di generazione.

Inoltre l’intelletto è anche incorruttibile, anche se, qualora la Causa Prima lo volesse, potrebbe sopprimerlo nel futuro, esso infatti dipende dalla Causa Prima. E’ infatti la volontà di Dio l’unica che dà e toglie l’essere. Non a caso Sigieri conclude la questione cinque con una citazione del Timeo di Platone:

“o dèi figli di dèi, di cui io sono il padre e l’artefice, voi che secondo la vostra stessa natura sareste corruttibili, ma per la mia volontà siete invece incorruttibili207”.

Dio, pertanto, potrebbe generare una cosa ingenerabile e rendere corruttibile qualcosa di incorruttibile. Questa visione platonica, ripresa dallo stesso Sigieri, venne criticata intorno alla fine degli anni 50 del XIII secolo dal domenicano Alberto Magno nel suo commento al primo libro del De coelo di Aristotele, in cui spiega che l’azione divina non può produrre qualcosa che sia in contrasto con le caratteristiche intrinseche della natura che essa stessa ha creato, altrimenti il suo agire sarebbe contraddittorio e arbitrario.

Sigieri afferma, inoltre, in linea con ciò che sostiene Aristotele, tra corpo e anima vi sia una relazione simile a quella che il pilota tiene con la nave. L’intelletto, dunque, non fa parte

206 In realtà, anche se Sigieri conclude che l’intelletto è prodotto in un “tempo non continuo”, questa tesi non è rintracciabile tra le pagine del VI libro della Fisica di Aristotele a cui il brabantino fa riferimento. Il filosofo greco non fa altro che sostenere che il tempo è continuo, ovvero ciò che è divisibile in parti sempre divisibii; pertanto il tempo non è composto da istanti. E’ vero anche che lo Stagirita afferma che i contraddittori e i contrari sono realtà non continue e che cambiare secondo contraddizione significa mutare dal non essere all’essere (VI,5,235 b). A partire da questi elementi Sigieri elaborerà la sua teoria della “generazione non nello spazio-tempo” dell’intelletto.

207 Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Questiono sul terzo libro del “de anima” di Aristotele a cura di Antonio Petagine, edizione Bompiani, Milano, 2007, p. 115. Cit., Platone, Timeo, 41, a.

dell’anima208 né è forma sostanziale del corpo209; il contatto tra intelletto e corpo si realizza soltanto a livello operativo, l’intelletto è operans in corpore, pertanto è sia motore del corpo ma dall’altro lato l’intelletto si avvantaggia del corpo per produrre l’atto intellettivo. Secondo ciò che spiega il Commentatore, Sigieri afferma che non esiste nessuna traccia all’interno della natura intellettiva che giustifichi la moltiplicazione di intelletti della stessa specie; questo perché la condivisione di una stessa specie da parte di individui distinti è possibile solo in presenza della materia, che l’intelletto non possiede. Il ciclo di generazione e corruzione, come la molteplicità degli individui, non toccano le sostanze dotate di intelletto, che sono immateriali e incorruttibili. Ecco perché esiste un unico intelletto per tutta la specie umana; intelletto che è, però, collegato alle molteplici immagini che noi produciamo con le nostre facoltà sensibili. Solo in riferimento alla molteplicità delle immagini si può dire che l’intelletto è “moltiplicabile”.

208 Tommaso, nelle Sentenze sul “De Anima”, sostiene che l’anima razionale è di per sé secondo la sua stessa essenza, forma sostanziale del corpo, nel senso che costituisce un’unità semplice ed immediata con il corpo per attualizzare l’essere che ha ricevuto. L’anima è anche sussistente di per sé perché, compiendo un’attività immateriale come quella intellettiva, manifesta la facoltà di sussistere indipendentemente dal corpo.

209 Alberto Magno (m. 1280), nel trattato De homine della Summa de craturis sostiene, come Tommaso, l’unità tra anima razionale e corpo; tuttavia l’anima non è proprio forma del corpo (come sostenne l’Aquinate). L’anima è, piuttosto, realizzazione del corpo, cioè ciò che dà l’essere al corpo. Non dipende dal corpo, pur essendone unita e dal corpo si separerà al momento della morte.

“Averroè sostiene210 che se l’intelletto si moltiplicasse secondo la moltiplicazione

degli individui umani, sarebbe una potenza del corpo.

Perciò, si conclude in altro modo, ossia dicendo che l’intelletto è unico, non moltiplicato secondo la moltiplicazione degli individui umani, perché altrimenti sarebbe una potenza che si trova nel corpo dei diversi uomini; oppure si potrebbe dire anche che non è unico, perché sebbene lo sia nella sostanza, tuttavia attiva facoltà diverse nei diversi uomini.

Ma l’intelletto non è moltiplicato né per questo, né per l‘altro motivo. L’intelletto dei diversi individui è unico: unica infatti è la sostanza dell’intelletto e, analogamente, unica è la sua potenza. Dato che le diverse intenzioni immaginate hanno la stessa natura, è evidente che è unica la potenza dell’intelletto211.”

Sigieri, in linea con ciò che aveva assunto Averroè, non intende negare che il pensare sia un’attività che va associata al singolo individuo, come sembra rimproverargli Tommaso d’Aquino nel De unitate intellectus che analizzeremo nel paragrafo successivo, bensì intende descrivere l’intelletto in due modi diversi, ossia in quanto intelletto e in quanto unito al singolo.

210 Riporto i passi a cui Sigieri fa riferimento da F. Stuart Crawford, (Averrois Cordubensis Commentarium

Magnum in Aristotelis ‘De Anima’ libros, The Medieval Academy of America, Cambridge, 1953, pp.

401-402) con traduzione di Illuminati (Averroè e l’intelletto pubblico, antologia di scritti di Ibn Rushd

sull’anima, Manifestolibri, Roma, 1996, pp. 138-139).

“Et cum omnia ista sint sicut narravimus, non contingit ut ista intellecta quae sunt in acto, scilicet speculativa, ut sint generabilia et corruptibilia nisi propter subiuctum per quod sunt vera, non propter subiuctum per quod sunt unum entium, scilicet intellectum materialem.

Quaestio autem secunda, dicens quomodo intellectus materialis es unus in numero in omnibus individuis hominum, non generabilisi neque corruptibilis, et intellecta existentia in eo in actu (et est intellectus speculativus) numeratus per numeration individuorum hominum, generabilis et corruptibilisi, per generationem et corruptionem individuorum, hec quidem quaestio valde est difficilis et maximam habet imbiguitatem.

Si enim posuerimus quod iste intellectus materialis est numeratus per numerationem individuorum hominum, continget ut sit aliquid hoc, aut corpus aut virtus in corpore. Et cum fuerit aliquid hoc, erit intentio intellecta in potentia. Intentio aut intellecta in potentia est subiectum movens intellectum recipientem, non subiectum motum. Si igitur subiectum recipiens fuerit positum esse aliquid hoc, continget ut res recipiat seipsam, ut diximus, quod est impossibile.”

“Il secondo problema - come l’intelletto materiale sia uno di numero in tutti gli uomini, non generabile ne corruttibile, mentre l’intelletto speculativo, che è in sé gli intellegibili in atto esistenti al suo interno, è numerato secondo il numero di tutti gli individui, generabile e corruttibile secondo la generazione e corruzione degli individui - è estremamente difficile e ambiguo. Se infatti ammettessimo che l’intelletto materiale è moltiplicato secondo il numero dei singoli uomini, dovrebbe essere qualcosa di individuale, o corpo o facoltà di un corpo. Se fosse tale, sarebbe un’intenzione intellegibile in potenza: questa sarebbe però il soggetto che muove l’intelletto ricettivo, non il soggetto mosso. Se dunque ammettiamo che l’intelletto ricettivo sia qualcosa di individuale, ne conseguirà che una cosa riceverà se stessa: il che, come dicemmo è assurdo.”

211 Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Questiono sul terzo libro del “de anima di Aristotele, a cura di Antonio Petagine, edizione Bompiani, Milano, 2007, p. 137.

“Analogamente, le operazioni dell’intelletto non sono unite a noi mediante un organo, ma sono unite a noi, perché appartengono all’intelletto unito a noi, unito, dico, non come forma alla materia, che è unita direttamente al composto, ma unito a noi per il fatto che intende grazie alle intenzioni immaginate.”212

L’uomo risulta essere il composto della sinergia tra intelletto e corpo e le specie intellegibili sono unite a noi in atto perché si trovano nell’intelletto, che è una parte di quel particolare composto che siamo noi: dato che quello che appartiene alla parte appartiene al tutto, allora i concetti in atto ci appartengono in quanto appartengono all’intelletto unico213. La conclusione del filosofo brabantino sarà, come vedremo, messa in discussione in modo severo da Tommaso d’Aquino, il quale darà il via ad un dibattito nei confronti del quale Sigieri non potrà mostrarsi indifferente.

4.1.2 Tommaso d’Aquino e il “De unitate intellectus”

I maestri parigini di teologia si scagliarono immediatamente contro la dottrina averroista per cui l’intelletto risulta essere una realtà separata e unica per tutto il genere umano. A queste accuse seguirono, il 10 dicembre del 1270, le già citate sentenze del vescovo di Parigi Tempier (m. 1279), il quale, tra varie tesi, condannava anche quelle che affermavano l’unicità di un principio intellettivo condiviso dall’umanità e tutto ciò che ne derivava. Una delle reazioni più veementi e accompagnata da uno studio approfondito è quella di Tommaso d’Aquino, il quale, nell’opera De unitate intellectus, prende di mira le teorie di Averroè e di Sigieri in modo preciso col fine di confutarle da un punto di vista esclusivamente filosofico.

“Poiché tutti gli uomini per natura desiderano di conoscere la verità, è in essi un naturale desiderio di schivare gli errori e, se ne han modo, di confutarli. Ora, fra i diversi errori, ci sembra più turpe quello che concerne l’intelletto, col quale tendiamo per natura, scansati gli errori, ad apprendere il vero. Da tempo infatti ha trovato credito presso molti un’erronea dottrina intorno all’intelletto, derivata dai detti d’Averroè, il quale si sforza di dimostrare che l’intelletto, che Aristotele chiama possibile, ed egli con vocabolo improprio materiale, è una sostanza che esiste per sé separata dal corpo,

212 Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Questiono sul terzo libro del “de anima” di Aristotele a cura di Antonio Petagine, edizione Bompiani, Milano, 2007, p. 205.

213 Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Questiono sul terzo libro del “de anima” di Aristotele a cura di Antonio Petagine, edizione Bompiani, Milano, 2007, p. 52.

né in alcun modo unita a questo come forma, e che, inoltre, siffatto intelletto possibile è unico per tutti.”214

Le intenzioni di Tommaso sono già chiare ed esplicite nel proemio dell’opera che inizia con una delle più celebre frasi di Aristotele tratta dalla Metafisica . Egli sostiene fin da subito che Averroè - e chi lo segue - sta commettendo un errore grossolano, contrario ai principii della filosofia, nella misura in cui non ha riconosciuto i veri caratteri della natura dell’intelletto.

Tommaso nelle prime pagine del suo testo, a sostegno delle sue teorie confutatorie, prende in esame il testo del De anima, nella fattispecie, il secondo libro del testo dello stagirita. Nelle parole di Aristotele, secondo il teologo, l’unità sostanziale nell’uomo tra anima e corpo non sarebbe mai messa in dubbio. L’uomo infatti è composto da anima intellettiva e di corpo. L’anima comprende la potenza vegetativa, intellettiva e motiva, e con tutte queste parti si unisce al corpo, non come il nocchiero alla nave, ma come la forma alla materia. Se Sigieri non ritenne vera l’idea per cui nella medesima sostanza dell’anima umana si trovino contemporaneamente potenze materiali e immateriali, Tommaso sostiene che non vi è nulla di strano che l’anima sia forma del corpo e una qualche facoltà dell’anima non sia forma del corpo. Alcune facoltà dell’anima trascendono la materia, tra queste c’è proprio la facoltà intellettiva. L’intelletto è separato, ma perché non è una facoltà del corpo, bensì dell’anima che è atto del corpo, e non perché l’intelletto è assolutamente immateriale, unico e separato anche dal punto di vista del luogo.

“L’intelletto che Aristotele afferma essere una potenza dell’anima, non è atto del corpo. Ché l’anima non è atto del corpo mediante le sue potenze, ma per se stessa è atto del corpo, in quanto dà al corpo il suo essere specifico; alcune potenze di essa sono, poi, atti di alcune parti del corpo, che traggono queste a compiere determinate operazioni; la potenza intellettiva invece non è in questo modo atto di alcun corpo, perché la sua operazione si compie senza bisogno d’un organo corporeo.”215

214 Tommaso d’Aquino, Trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti, traduzione, commento e introduzione storica di Bruno Nardi, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo Spoleto, Firenze, 1998, p. 101.

215 Tommaso d’Aquino, Trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti, traduzione, commento e introduzione storica di Bruno Nardi, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo Spoleto, Firenze, 1998, p. 123.

Tommaso, in linea a ciò che asserirebbe Aristotele nel De anima, afferma che non solo lo Stagirita stabilisce che l’intelletto sia una parte dell’anima che è atto e forma del corpo, ma anche tutti gli altri Peripatetici greci e arabi. Tutta la tradizione aristotelica avrebbe sostenuto, eccezion fatta per Averroè, l’appartenenza dell’intelletto all’anima umana forma sostanziale del corpo. Per l’Aquinate la visione del Commentatore risulta essere distorta e fuorviante, in quanto frutto di un travisamento delle opinioni di Temistio, Alessandro di Afrodisia e di Teofrasto e, sotto questo aspetto, l’autore del Gran comento sarebbe stato il “corruttore della tradizione peripatetica”. In realtà è opinione comune credere che la teoria dell’intelletto di Averroè sia un compromesso tra il pensiero di Alessandro di Afrodisia e quello di Temistio216. Le argomentazioni di Tommaso, sulla presunta “visione distorta” di Averroè circa il pensiero dei Peripatetici sopracitati, sono state prese in considerazione e confutate da critici come Verbeke e Ghisalberti i quali hanno affermato l’insostenibilità di questo presunto approccio che il Commentatore avrebbe avuto nei confronti di Temistio e di Alessandro di Afrodisia217.

Al di là di ogni possibile ragione o torto dell’Aquinate, quello che è certo è che nell’affrontare un tema del genere, cioè la messa a fuoco della relazione tra Averroè e il pensiero peripatetico, offrirà a Sigieri, come vedremo nel paragrafo successivo, una nuova possibilità di argomentare le proprie tesi sotto le insegne di Temistio.