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Dal De Monarchia alla Divina Commedia Due letture a confronto: Bruno Nardi ed Étienne Gilson

CAPITOLO SECONDO

4.2 Dal De Monarchia alla Divina Commedia Due letture a confronto: Bruno Nardi ed Étienne Gilson

Dopo questa digressione, tornerò ora a discutere le interpretazioni fornite da Nardi e Gilson a proposito delle seguenti questioni: Dante conobbe il tema dell’intelletto nella filosofia di Averroè, poi ripreso da Sigieri di Brabante? Quale pensiero aveva circa il pensiero del maestro brabantino? Cosa pensava della netta presa di posizione di Tommaso d’Aquino contro gli averroisti?

Secondo Nardi una parziale risposta a queste domande si può trovare all’interno del De

Monarchia.

“è l’essere capace di apprendere per mezzo dell’intelletto possibile, capacità che invero non compete a nessun altro che all’uomo, né al di sopra né al di sotto di lui.

Infatti, anche se ci sono altri esseri forniti di intelletto, il loro intelletto tuttavia non è possibile come quello dell’uomo, perché tali esseri sono specie puramente intellettuali il cui essere non è altro che un intendere la propria essenza, che si attua senza mediazione, altrimenti queste specie non sarebbero eterne. Risulta chiaro pertanto che la potenza specifica dell’umanità è la capacità o la virtù intellettiva. E poiché questa potenza non può tutta quanta essere ridotta contemporaneamente in atto da un solo uomo, o da qualcuna di quelle particolari comunità elencate più su, è necessario che il genere umano sia costituito da una moltitudine, per opera della quale questa potenza possa essere pienamente attuata, così come è necessaria una moltitudine di cose generabili perché la potenza della materia prima sia sempre tutta quanta in atto, altrimenti bisognerebbe ammettere una potenza separata, il che è impossibile. E con questa affermazione concorda Averroè nel suo commento al De anima.”227

Nardi fa notare come nel primo libro del De monarchia sia evidente l’influenza averroistica: Dante, in effetti, spiega che il fine ultimo dell’umanità, presa nel suo complesso, è quello di attuare tutta e sempre la potenza dell’intelletto possibile.

Gilson, tuttavia, contestò la lettura di Nardi insistendo, invece, su una differenza sostanziale tra Dante e Averroè228. Secondo Gilson, anche se l’Alighieri trova un punto di partenza nel pensiero del filosofo arabo, le loro strade si dividono nettamente. Nella analisi di Gilson, per Averroè l’intelletto, con o senza l’umanità, è sempre in atto; per il poeta fiorentino, invece, è necessaria la società umana nella sua interezza per la piena attuazione della potenza dell’intelletto, in quanto l’individuo non basta per raggiungere questo fine. Per Gilson, infine è impossibile sostenere che Dante aderisca alla dottrina di Averroè, tuttavia l’Alighieri traspone con originalità sorprendente e creativa la dottrina del Commentatore di Cordova. Dante non parla, come Averroè, da metafisico che prende atto

227 Dante Alighieri, De Monarchia, in Dante. Tutte le opere., a cura di Luigi Blasucci, Sansoni Editore nuova s.p.a., Firenze, 1981, libro I, III, pp. 250-252.

228 Gilson in Dante e la filosofia, nella parte dedicata al De monarchia, spiega che “l’intelletto possibile di Averroè offriva a Dante una sorta di genere umano individuale, la cui unità sarebbe sempre concretamente realizzata e che attualizzerebbe in ogni momento della sua durata la totalità della conoscenza accessibile all’uomo. Se il fine dell’uomo è conoscere, si può dire che in questo intelletto possibile separato il genere umano sarebbe, eternamente e in permanenza, in possesso del proprio fine. Per costruire la sua dottrina, Dante ha dunque trasposto la tesi di Averroè, considerando il genere umano, cioè la collettività degli individui esistente in ogni momento sulla terra, come un equivalente dell’intelletto possibile unico di Averroè. Se rinvia qui ad Averroè, ciò avviene perché egli trova in effetti il suo punto di partenza nell’averroismo, ma ciò non significa che vi sia installato.

di un’unità di fatto fondata sulla struttura dell’universo bensì parla da riformatore politico e sociale229.

Nardi, a sua volta, oppose altri argomenti a Gilson, sostenendo che se le cose stessero così, non si sa a che proposito Dante avrebbe potuto citare Averroè. Per lui, la realtà è che il filosofo arabo ritenne che l’intelletto possibile, pur essendo una sostanza separata ed unica per tutti gli uomini, non potesse intendere senza una qualche immagine sensibile dalla quale l’intelletto agente astrae l’idea che è intesa dall’intelletto possibile. Ecco perché questa sostanza eterna e separata ha bisogno di essere eternamente unita a una moltitudine di individui, dei quali, dunque, non può fare a meno230.Nardi conclude che direttamente o indirettamente Dante deve necessariamente aver conosciuto il contenuto del “gran comento” di Averroè, citato espressamente in più opere dal poeta fiorentino e che era diffuso ovunque al suo tempo231.

Quantomeno, afferma Nardi, il fine dell’umanità è lo stesso sia per gli averroisti che per il Dante del De monarchia, consistente nell’attuazione di tutta la potenza dell’intelletto possibile.

Ma se le cose stanno così, com’è possibile spiegare in un’ottica dantesca la distinzione tra teologia e filosofia?

Bisogna ammettere che, se Tommaso subordina la filosofia alla teologia232, Dante propone un’interpretazione della separazione tra le due dottrine molto vicina a quella esposta da Sigieri di Brabante nel De anima intellectiva. La filosofia è capace di soddisfare il naturale desiderio dell’uomo e sufficiente al raggiungimento del fine terreno, consistente nella completa attuazione della potenza dell’intelletto possibile.

229 Gilson spiega che Dante, nel riprendere in parte Averroè, usa il suo insegnamento per parlare da riformatore politico, da araldo di una società da costruire e da lui concepita come un duplicato temporale di quella società religiosa universale che è la Chiesa.

230 Circa questo legame eterno che unisce la specie umana con l’intelletto possibile si è espresso Sigieri di Brabante. Come visto nei paragrafi precedenti il brabantino afferma in modo molto chiaro, e in linea con ciò che affermava Averroè, che l’intelletto non può separarsi con gli individui ai quali è unito da un rapporto necessario nell’atto di intendere.

231 Un’ipotesi possibile, spiega Nardi, potrebbe essere quella che per spiegare la conoscenza dell’Alighieri del pensiero averroistico basterebbe fare un riferimento alla sua familiarità e le frequenti discussioni con l’amico poeta Guido Cavalcanti; ma di questo parlerò successivamente quando verrà affrontato lo studio di Antonio Gagliardi su queste questioni.

232 L’Aquinate distingue la filosofia dalla teologia; ma, pur riconoscendo alla prima una certa autonomia, la riteneva incapace di soddisfare il desiderio naturale dell’uomo. Dunque la subordinava alla seconda.

“Se dunque l’uomo è termine medio fra le cose corruttibili e le incorruttibili, dal momento che ogni termine medio partecipa della natura degli estremi, è necessario che egli sia partecipe dell’una e dell’altra natura. E siccome ogni natura è preordinata ad un fine ultimo, l’uomo dovrò avere due fini, in modo che, come solo fra tutti gli esseri partecipano della incorruttibilità e della corruttibilità, solo fra tutti gli esseri sia ordinato a due fini ultimi, ad uno in quanto corruttibile, all’altro in quanto incorruttibile. Due fini pertanto l’ineffabile Provvidenza ha posto dinnanzi all’uomo come mete da raggiungere: la felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio - cui le capacità proprie dell’uomo non possono elevarsi da sé senza l’aiuto della luce divina - ed è raffigurata nel Paradiso celeste.233

Dunque per Dante, l’uomo tende in duo ultima, cioè a due fini anziché a uno solo come per Tommaso. Nardi, per questo motivo, sottolinea come questa sia una tesi averroistica, ovvero l’indipendenza della ragione dalla fede, della filosofia dalla teologia, anche senza l’opposizione dell’una all’altra.

Il principio teologico, spiega Nardi, non tarderà molto a prendere la sua rivincita sul principio filosofico. La filosofia, infatti, tornerà a mettersi al servizio della teologia nella

Divina Commedia, in cui Virgilio, il saggio pagano che tutto seppem giungerà in aiuto al

poeta smarrito nella selva oscura per condurlo fino a Beatrice per risolvere quei problemi che la sapienza umana trova troppo ardui a districare.

La sapienza cristiana è nel poema dantesco ristabilita con la confessione di Virgilio e di tutti gli altri spiriti che stanno entro le mura del nobile castello nel Limbo, intorno ad Aristotele e che sono tormentati per l’eternità da un desiderio che la loro scienza fu incapace di appagare.

“La sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia”234

233 Dante Alighieri, De Monarchia, in Dante. Tutte le opere., a cura di Luigi Blasucci, Sansoni Editore nuova s.p.a., Firenze, 1981, libro III, XV, pp. 314-315.

La filosofia è appunto una sete di conoscenza che non può mai saziare il desiderio dell’uomo e Ulisse (come vedremo nei paragrafi successivi attraverso lo studio di Gagliardi) rappresenta l’emblema di questa impossibilità, in quanto impersona la brama di sapere della ragione umana insofferente del limite assegnatole da Dio.

La domanda che si fa Nardi è la stessa che molti si sono posti (e che ho presentato nei paragrafi precedenti): perché Dante pone Sigieri in Paradiso?

Come ho gia ricordato in ciò che precede235, Gilson sostenne, invece, che Sigieri di Brabante rappresenti il simbolo della filosofia pura, una scienza profana totalmente scevra da ogni tipo di teologi. Nardi sottolinea come sia poco persuasiva la soluzione del francese in quanto “sembra disconoscere che nella Commedia la Filosofia torna ad essere subordinata alla Teologia, e vien così a mancare la ragione principale che avrebbe dovuto consigliare a Dante la scelta di Sigieri per rappresentare una dottrina ch’egli stesso aveva ormai superata.236

Inoltre, secondo Nardi, Gilson non considerò con dovuta attenzione l’atteggiamento che Dante assume nei confronti di Averroè, ricordato per il suo “gran comento” e come eminente personalità sicuramente degna di presenziare tra i grandi personaggi del Limbo; un atteggiamento assai diverso da quello di san Tommaso, il quale riteneva Averroè un “depravatore della filosofia aristotelica”.

Nardi spiega che Dante, molto probabilmente, volle solamente onorare la memoria di un onesto e stimato pensatore; una memoria che giaceva sotto il peso dei colpi inferti dell’invidia.

Pertanto, quando e in che modo il poeta fiorentino avesse ottenuto notizie di Sigieri di Brabante, dice Nardi, è certo che egli ne sapeva tanto da permettersi di collocarlo nel decimo cielo del Paradiso, tra i sommi spiriti sapienti che illuminarono con la loro saggezza il mondo. Di sicuro, infine, l’Alighieri non vide Averroè come un “depravatore della filosofia aristotelica” ma come colui che fece un “gran comento” e, per questo, degno di stare tra gli “spiriti magni” del “nobile castello” del Limbo; allo stesso modo non vide

235 Ribadisco il parere avanzato da Étienne Gilson in Dante e la filosofia in quanto Bruno Nardi contesta questa posizione.

Sigieri di Brabante come un eretico, ma come un onesto pensatore che presso la Facoltà delle Arti di Parigi aveva sillogizzato “invidiosi veri”237.