• Non ci sono risultati.

Dibattito sulla programmazione in Piemonte

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1974 (pagine 22-36)

Nel precedente numero presentando l'articolo del prof. Angelo Detragiache sulla politica di pianificazione in Piemonte, la rivista « Cronache Economiche » ha offerto a tutte le componenti della vita politica, economica e sociale della regione la possibilità di portare sulle proprie colonne un fattivo contributo d'idee ed esperienze sul tema della programmazione regionale sia a livello globale sia nei riguardi dei settori di più diretto interesse.

L'iniziativa, ha incontrato un largo e lusinghiero successo, dimostrato dal vivo entu-siasmo con cui vari organismi pubblici e privati hanno accolto l'invito al dibattito, predi-sponendo sintetiche ma costruttive memorie critiche sulle modalità di intervento ritenute più efficaci per l'impostazione di un'organica e concreta politica di razionalizzazione e ade-guamento delle strutture operative e/o di servizio alle sempre più crescenti esigenze della popolazione regionale.

Ecco qui di seguito i contributi d'analisi forniti dalla Federazione italiana coltivatori diretti, dall'Unione industriale di Torino, dall'Unione dell'edilizia del Piemonte e della Valle d'Aosta, dall'Associazione commercianti di Torino, dalla Cassa di Risparmio di To-rino e dall'Ente provinciale per il turismo di ToTo-rino. Al prossimo numero la seconda parte degli interventi.

( N . D . D . )

Il rilancio dell'agricoltura passa attraverso la formulazione dei piani zonali.

L'impegno ad operare per il superamento degli squilibri settoriali, territoriali e sociali attraverso il metodo e gli strumenti della programmazione trova il pieno consenso di una organizzazione professionale quale quella dei Coltivatori Diretti che, da ormai tre decenni, si prefigge come obiet-tivo primario la tutela degli interessi degli im-prenditori-titolari di imprese agricole familiari, le cui condizioni sociali, u m a n e e di reddito sono a tutt'oggi sensibilmente inferiori a quelle delle altre categorie di lavoratori.

Infatti fin dall'approvazione del primo Piano di sviluppo economico nazionale 1 9 6 6 / 7 0 , la Coltivatori Diretti — che alla definizione del me-desimo ebbe a contribuire attivamente con l'in-troduzione di numerosi emendamenti per il tra-mite della sua rappresentanza p a r l a m e n t a r e — ha richiamato p u n t u a l m e n t e e ripetutamente i pub-blici poteri ed in particolare i Governi succedutisi all'osservanza degli obiettivi indicati nel capi-tolo X V I I I , specialmente di quello volto al con-seguimento della parità dei redditi tra lavoratori agricoli ed extra-agricoli, anche con il ricorso alle previste misure di redistribuzione del reddito

na-zionale per mezzo di provvidenze di natura sociale.

I richiami contenuti peraltro nella stragrande maggioranza degli statuti delle Regioni al conse-guimento delle loro finalità di sviluppo economico e sociale attraverso il metodo della programma-zione viene a cogliere nella loro completezza le istanze e le richieste delle categorie più deboli, quali a p p u n t o i coltivatori diretti. L'impegno della nostra Regione — per esempio — ad ope-rare per il superamento degli squilibri territoriali, economici, sociali e culturali (art. 73 dello Statu-to) si fa carico della realtà del m o n d o rurale e dell'agricoltura piemontese che, nel contesto del-l'economia regionale, ne costituisce sotto tutti gli aspetti il relativo « mezzogiorno ».

Dal punto di vista territoriale, le aree depresse si identificano poi, in m o d o sostanziale, con le aree rurali, laddove più carente si è manifestata fino ad oggi una tendenza allo sviluppo, nonché una presenza attiva delle comunità locali.

La stessa configurazione del m o n d o rurale ha meno favorito un processo di attivazione e di pre-senza partecipata degli operatori locali, i quali

hanno in generale fino ad oggi subito alcune scelte di fondo riguardanti il modello di sviluppo della zona in cui operano.

Il recepimento da parte del nostro Paese delle direttive comunitarie per l ' a m m o d e r n a m e n t o del-l'agricoltura, che peraltro si sarebbe dovuto veri-ficare fin dall'aprile dello scorso anno, acconsente di pensare in termini concreti alle enunciazioni di parità fatte dai programmi economici nazionali ai quali non è mai seguita una politica reale tesa al conseguimento di detta parità.

Le direttive pongono infatti come obiettivo l'equiparazione dei redditi agricoli a quelli extra-agricoli e che tale raggiungimento costituisce vin-colo alla concessione dei contributi. A tale scopo le direttive, com'è noto, indicano gli strumenti per conseguirlo: riduzione degli addetti attra-verso il pensionamento anticipato, messa a dispo-sizione delle terre, contributi per miglioramenti strutturali e per settori produttivi da sviluppare secondo un preciso piano economico e finanzia-rio, servizi di informazione socio-economica per gli agricoltori, ecc.

All'obiettivo della tendenziale parificazione dei redditi, cioè alla eliminazione degli squilibri set-toriali, non si può giungere mediante interventi generici ed indifferenziati, bensì solo attraverso la formulazione di piani zonali, a livello dei quali è possibile rispondere a due esigenze: una cono-scenza della complessa realtà agricola nazionale e regionale — disaggregata a livello zonale — e quindi una articolazione degli interventi coerenti a tale realtà; una partecipazione democratica e responsabile della base, che cosi diventa la prota-gonista del processo di sviluppo.

Il p i a n o zonale costituisce quindi un prezioso strumento p r o g r a m m a t o r i o e partecipativo che tiene conto della realtà di un comprensorio e ne preconizza il modello di sviluppo.

A tali studi zonali si sono in questi anni eser-citate alcune regioni italiane ed enti di sviluppo a volte con metodologie eterogenee anche a livello della stessa regione.

Cosa deve considerare il piano zonale? Su tale argomento, la discussione tra economisti, socio-logi e tecnici è ancora viva. Il dibattito ha evi-denziato gli inconvenienti che avrebbe compor-tato la predisposizione di un piano zonale agri-colo in assenza di un piano globale di riferimento, per cui alcuni h a n n o proposto una formulazione globale del piano zonale, quale articolazione terri-toriale del piano economico regionale; altri inve-ce un piano zonale, quale articolazione territo-riale di q u a n t o previsto nel piano economico regionale per lo sviluppo del settore agricolo.

Si condivide senz'altro la prima impostazione purché si intenda per piano zonale globale non un piano che si esaurisca in se stesso, nell'ambito cioè della zona, raggiungendo l'equilibrio tra i diversi settori, perché oltre all'impossibilità mate-riale di determinare una tale zona, vi sono dei problemi risolvibili solo a livello regionale o na-zionale, ma intendendosi per piano zonale una pluralità di prodotti per i quali è possibile calco-lare la fattibilità economica e sociale, che realiz-zino con interventi locali, le scelte della base e gli obiettivi definiti a livello regionale, valutan-done la reciproca congruità e le priorità nei limiti posti dalle disponibilità finanziarie.

Da q u a n t o sin qui detto, si dovrà prevedere un p r o g r a m m a regionale globale che definisca gli obiettivi e tanti piani zonali globali intesi nel senso di una pluralità di progetti che compren-dono anche l'agricoltura studiata a priori a livello di aree omogenee e ciò per q u a n t o riguarda le strutture di produzione, di p r i m a trasformazione e commercializzazione.

In tal m o d o e con la partecipazione attiva della base operante sul territorio, cui spetta in definitiva la definizione delle proposte di sviluppo della zona, da raccordare agli obiettivi del pro-g r a m m a repro-gionale, si introdurrà concretamente un discorso p r o g r a m m a t o r i o di interventi per il set-tore agricolo non più dispersivo e calalo dall'alto, bensì coordinato e sentito dalle stesse categorie produttive.

G I A N F R A N C O T A M I E T T O Direttore Federazione Regionale

Coltivatori Diretti

L'ulteriore crescita dell'industria è la condizione fi

È ormai passato parecchio t e m p o dal momento in cui si è cominciamomento a parlare di p r o g r a m m a -zione, nazionale e regionale, in Italia; c o m u n q u e

nentale per il riequilibrio dello sviluppo regionale.

ne è passato a b b a s t a n z a da rendere auspicabile che oggi si parli di m e n o e si faccia di più. Qui p a r l i a m o di p r o g r a m m a z i o n e regionale: vediamo

come può operare la programmazione in una re-gione come la nostra.

A livello di regione la programmazione ha per forza di cose due aspetti, discriminati dall'esi-stenza dei vincoli obiettivi delle competenze che la Costituzione attribuisce alle regioni stesse. Il primo aspetto, il più evidente, è quello tecnico — del « fare » operativo — e deriva appunto dalle specifiche attribuzioni di compiti all'ente regionale (visto che si vuol qui parlare del « fare » non si deve dimenticare l'esigenza della sollecita attuazione delle leggi cornice o quadro che dir si voglia, la cui carenza determina contemporanea-mente sia l'impossibilità di decidere, sia i con-flitti di competenza). Il secondo aspetto, che si potrebbe chiamare politico o del « far fare », o « del coordinare » è quello che legittima l'inter-vento della Regione nei confronti della proble-matica locale, affrontata integralmente anche al di là del presupposto tecnico della competenza. Il primo aspetto delineato è poi anche uno de-gli strumenti operativi del secondo; cosi ad esem-pio, dal quadro globale della situazione regionale si possono trarre le linee dell'azione specifica nel campo della formazione professionale o dell'ur-banistica o dei trasporti, e cosi via. Ma come agi-re, come intervenire in modo complementare e coerente, in quei campi — e qui vogliamo ricor-dare primo fra tutti quello della industria — per cui manca la competenza diretta?

In teoria è possibile pensare a delle strategie indirette incentivanti o disincentivanti attuate mediante gli strumenti disponibili, in modo da incidere sul comportamento degli operatori dei settori che si trovano fuori della portata ammi-nistrativa della regione. Ma si tratta di strategie che facilmente alienano all'operatore pubblico il consenso di talune parti sociali (e a volte contem-poraneamente di più parti sociali i cui interessi possono anche non essere comuni); si tratta di strategie necessariamente poco incisive; si tratta infine di strategie che finiscono per sfociare in provvedimenti rigidi, rapidamente obsoleti. Nel-l'ottica del confronto con l'intera problematica regionale devono essere invece tenuti ben presenti i criteri del « far fare » o del « coordinare »; e ciò in modo tale da permettere l'individuazione di altri soggetti diretti della programmazione re-gionale, che possano essere chiamati ad affiancare, nei campi di loro spettanza, l'azione dell'opera-tore regione (e pensiamo alle province, ai comuni, alle organizzazioni imprenditoriali; alle grandi

aziende; non ci si stupisca se da questo elenco sono esclusi i snjdacati dei lavoratori, il cui ruolo è fondamentale nel momento in cui si dibattono le scelte del piano coordinato di azione ma che, per la loro stessa natura, non possono essere de-legatari di specifiche attività).

Idee assai prossime alla nostra del « coordi-nare » nell'ambito di una interpretazione più va-sta della programmazione regionale si trovano sia nell'ultimo documento IRES (« Rapporto del-l'IRES per il piano regionale 1974-1978 ») sia nel recente documento della Giunta Regionale Piemontese che costituisce la relazione al bilan-cio di previsione per il corrente anno. È quindi possibile un discorso di tempi brevi e non solo di enunciazioni di principio.

Tutto ciò, ovviamente, deve basarsi su pro-grammi ampiamente concordati, sia pur flessibili (agricoltura, industria, servizi pubblici e privati, territorio e urbanistica, formazione, l'elenco dei punti nodali della programmazione è immediato e ben noto). Se i programmi concordati devono necessariamente essere comuni, parziali sarebbe-ro invece le attribuzioni di impegno e di compe-tenza ai soggetti della programmazione via via individuati. Ed è qui che si può compiere un grosso salto di qualità verso l'attuazione della programmazione: attribuendo gli impegni di atti-vità (« facendo fare ») non tanto a chi è formal-mente competente, ma direttaformal-mente a chi è in grado di operare.

Come presupposto per la sua utilità ed efficacia la programmazione piemontese deve indirizzarsi secondo quella che può essere definita la « voca-zione industriale » della nostra regione. Secondo i dati più recenti, in Piemonte gli occupati del-l'industria sono il 5 4 , 7 % del totale, contro il 4 3 , 9 % per l'Italia; sul totale dei lavoratori del-l'industria e del terziario privato gli addetti me-talmeccanici piemontesi sono il 5 3 , 7 % , contro il

19,5% dell'analogo raffronto a livello nazionale: il Piemonte contribuisce ad oltre il 10% dell'in-tero prodotto lordo nazionale e ad oltre il 13% di quello dell'industria (prodotto lordo nazionale dell'industria).

Questi dati possono essere anche usati per mettere in evidenza la contraddizione: tanta in-dustria, pochi servizi. Ebbene, mettiamo in evi-denza la contraddizione, ma esaminiamola serena-mente, alla luce della programmazione.

La nostra regione ha accumulato un patrimo-nio di « avviamento » industriale inestimabile,

tale da rendere agevole il sostegno e lo sviluppo della produzione industriale. Dimenticarsi tutto questo e puntare ad una terziarizzazione della re-gione sarebbe un errore, perché il problema non è quello di ripartire meglio le capacità produt-tive di oggi (e sono oltre tutto discorsi che si pos-sono fare solo sulla carta) ma quello di aumentare tali capacità. Proprio l'ulteriore crescita dà le risorse per il riequilibrio dello sviluppo regionale e, al limite, anche di quello nazionale (si pensi al fatto che in molti campi Lombardia e Piemonte hanno un saldo positivo nei confronti del resto della nazione: valga l'esempio dei settori previ-denziale e assistenziale in cui le regioni indicate — i loro cittadini — pagano molto di più di quel-lo che ricevono).

Avviamo dunque l'attività concreta della pro-grammazione, chiarendo però bene sin dall'inizio i termini della questione.

La programmazione coinvolge due volte i set-tori produttivi, secondo due ottiche diverse: per i problemi del territorio; per i problemi specifici della produzione (agricoltura, industria, terziario pubblico e privato). Le due cose non devono es-sere confuse, salvo poi trovarsi ad avere compiuto scelte vantaggiose (o presunte tali) solo per un verso e non per l'altro. Per esemplificare: i pro-blemi della concentrazione e congestione sono problemi del territorio, ma coinvolgono soprattut-to l'attività produttiva; non è sempre facile indi-viduare a tavolino soluzioni alternative di inse-diamento produttivo, mentre è facilissimo spez-zare il tessuto connettivo del sistema industriale di una regione. I problemi dei settori produttivi e quelli del territorio devono quindi essere studiati a fondo e poi fusi in un programma comune.

Il Piemonte deve darsi una agricoltura moder-na, in modo che il settore non sia una palla al piede dello sviluppo. L'esigenza di un diverso modo di guardare ai problemi agricoli è sentita da tutti, e non solo per le recenti vicende econo-miche (prezzi, bilancia dei pagamenti), ma pro-prio perché né un paese né una singola regione possono permettersi uno sviluppo zoppo (non in quantità, perché inevitabilmente il peso della agri-coltura diminuisce, ma in qualità). Esistono le direttive agricole della CEE in tema di imprentorialità agricola, con i relativi risvolti della di-mensione o modernizzazione della azienda agri-cola e dell'apprestamento di programmi di svi-luppo. Perché non seguirle?

Il volto dell'industria della regione deve essere ben conosciuto, senza perdersi ad esaminare la validità o meno dei giudizi di monocoltura indu-striale attribuiti al Piemonte. Lo sviluppo della nostra industria c'è stato, ed è riuscito proprio perché sono state attuate quelle produzioni: ogni via alternativa è una pura ipotesi. Oggi ci trovia-mo a disporre di un grosso comparto industriale, inserito per la maggior parte in produzioni mecca-niche a tecnologia intermedia con elevati conte-nuti di lavoro qualificato. L'elemento trainante, o comunque rilevante, della domanda che sta di fronte a questo comparto è quello della domanda estera, che non può essere dimenticata se l'Italia vuol continuare la politica aperta agli scambi commerciali che ha caratterizzato lo sviluppo del dopoguerra; e che non può essere dimenticata se vogliamo restare nella CEE e ancor più se voglia-mo evitare inutili avventure autarchiche. Non vor-remmo che questa sembrasse un'idea astratta: cre-diamo che sia necessario uno sforzo di « market-ing regionale » per confrontare la nostra industria (il nostro sistema industriale considerato in modo unitario) con la domanda, interna ed estera, ov-viamente senza preclusioni né per l u n a né per l'altra, ma soprattutto senza preclusioni per la se-conda. E anche questo non è che un momento — sia pur preparatorio — della programmazione regionale. Non si dimentichi che il Piemonte è una regione industriale e deve continuare ad es-serlo.

Si è già fatto cenno alla contraddizione: tanta industria, pochi servizi. Si è già anche detto che lo spazio economico del terziario inteso non come rifugio di sottoccupazione ma come terziario avanzato deve essere trovato non a danno del-l'industria ma grazie allo sviluppo di questa. Bisogna aggiungere, ma il discorso scivola inevi-tabilmente verso la gestione del territorio, che il ruolo del capoluogo regionale nella ricerca di soluzioni di terziario avanzato è fondamentale (non però come sistema cittadino che autoali-menta e autosoddisfa la propria domanda).

La visione settoriale della produzione deve essere integrata con la conoscenza del territorio. Bisogna conoscere il territorio come bisogna co-noscere esigenze e programmi dei produttori (in-dustriali e non) che vi operano, le loro intercon-nessioni e gli effetti che hanno sulla popolazione. Non solo Torino deve modificare il proprio as-setto produttivo senza distruggere le economie esterne accumulate, ma bisogna che le nuove aree

di sviluppo della regione siano tali da riprodurre sollecitamente lo stesso standard di « avviamen-to » produttivo. Il terriavviamen-torio è un qualcosa da co-noscere a diversi livelli di approfondimento e l'approfondimento deve essere tanto maggiore dove più gravano oggi gli insediamenti.

Quella che auspichiamo è quindi la program-mazione del « fare » e del « far fare ». Gli stru-menti del « far fare » devono essere praticamente inventati, e abbisognano di consenso e di

coor-dinamento come i piani stessi. Ciascuno deve assumere i propri impegni e, sia detto senza in-tento polemico, anche la Regione deve trovare i suoi strumenti di programmazione. Per memoria: deve trovare la coincidenza tra programmazione e finanza regionale e tra questa e finanza locale. E allora essa, come operatore pubblico, potrà chie-dere a ciascuno di assumersi le responsabilità che gli competono nell'ambito dell'applicazione della programmazione.

C A R L O D E B E N E D E T T I

Presidente dell'Unione Industriale di Torino

Utilità della costituzione di un'autorità tecnico-politica per la gestione delle aree di sviluppo residenziale.

Di programmazione regionale nel nostro Paese s'è incominciato a parlare in modo concreto nel 1966 con l'istituzione dei Comitati Regionali per la Programmazione Economica: compito speci-fico dei CRPE era infatti l'elaborazione dei pro-grammi di sviluppo regionale. Purtroppo, però, deficienze di impostazione e di fondo h a n n o con-tribuito a caratterizzare i programmi — almeno nella maggioranza dei casi — come semplice rac-colta di problemi e « b u o n e intenzioni », senza alcun risvolto operativo; inoltre, a rendere più vistoso l'insuccesso dell'esperienza ha contribuito la mancanza di qualsiasi soggetto « attivo » di programmazione, di chi cioè potesse gestire le scelte di piano.

Nel 1970 u n passo decisivo in termini opera-tivi è stato compiuto con l'elezione dei consigli regionali, organi cui è d e m a n d a t o di esercitare le potestà legislative e regolamentari attribuite alle Regioni. Difficoltà d'avvio, dovute ad oggettive carenze d'ordine strutturale, h a n n o caratterizzato i primi due anni di vita dei consigli regionali e solo con l'aprile del 1972 — cioè con l'inizio vero e proprio dell'attività legislativa ed ammini-strativa — si può considerare finalmente aperta la nuova esperienza di programmazione regio-nale.

Le Regioni h a n n o oggi facoltà decisionali au-tonome — nei limiti degli interessi nazionali e non in contrasto con quelli di altre Regioni — per una serie di materie specifiche che rivestono particolare importanza nella gestione delle scelte p r o g r a m m a t o n e : dall'urbanistica alla viabilità ed ai lavori pubblici, dall'agricoltura all'artigianato ed al turismo. N a t u r a l m e n t e tali decisioni, quan-do assumono carattere di azione p r o g r a m m a t o r i a .

vanno ancora soggette a consultazioni con le auto-rità centrali della programmazione: in primo luo-go, come momento di verifica del piano econo-mico nazionale, e poi perché taluni importanti strumenti di intervento nell'economia e sul terri-torio sono ancora in m a n i statali: è il caso, ad esempio, delle autostrade, degli interventi delle partecipazioni statali e, più in generale, degli in-terventi previsti dai cosiddetti piani « settoriali » (case, ospedali, scuole, porti, ferrovie...).

Un giudizio sulla passata esperienza di pro-grammazione che voglia essere soprattutto obiet-tivo deve pertanto tener conto dell'importante cambiamento intervenuto nel q u a d r o politico-isti-tuzionale con l'avvento delle Regioni e del fatto che solo negli ultimi anni è andata m a t u r a n d o u n a concezione della programmazione più ope-rativa e soprattutto più aderente alla realtà, che è rappresentata — giova ricordarlo — non solo dal q u a d r o delle necessità ma anche da quello delle risorse disponibili, da parte pubblica e privata.

11 rapporto dell'IRES per il piano regionale

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1974 (pagine 22-36)