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DELLA RELAZIONE PARTICOLAREGGIATA

4.2 Il contenuto della relazione particolareggiata quale elemento di prova nel processo penale

4.2.1 Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dal Curatore

4.2.1.2 Dichiarazioni rese al Curatore da soggetti terz

Per quanto riguarda le dichiarazioni rese al Curatore fallimentare da soggetti terzi (come fornitori, clienti o dipendenti), le quali sono inserite o allegate alla relazione particolareggiata e dunque parte integrante di essa, è indubbio che queste siano sempre utilizzabili all’interno di un eventuale procedimento penale.

La domanda è se per tali dichiarazioni debbano essere osservate le prescrizioni concernenti la testimonianza indiretta art. 195 c.p.p.274.

272 Art. 238 comma 2 e 2bis Codice di procedura penale: “(Verbali di prove di altri procedimenti)

Comma 2: È ammessa l'acquisizione di verbali di prove assunte in un giudizio civile definito con sentenza che abbia acquistato autorità di cosa giudicata.

Comma 2-bis: Nei casi previsti dai commi 1 e 2 i verbali di dichiarazioni possono essere utilizzati contro l'imputato soltanto se il suo difensore ha partecipato all'assunzione della prova o se nei suoi confronti fa stato la sentenza civile.

273 Ilari A., L'utilizzabilità come prova documentale delle dichiarazioni rese dal fallito al giudice delegato in

www.ilfallimentarista.it.

274 Art. 195 Codice di procedura penale: “(Testimonianza indiretta)

Quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre.

Il giudice può disporre anche di ufficio l'esame delle persone indicate nel comma 1.

L'inosservanza della disposizione del comma 1 rende inutilizzabili le dichiarazioni relative a fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da altre persone, salvo che l'esame di queste risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità.

Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lettera a) e b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo .

Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche quando il testimone abbia avuto comunicazione del fatto in forma diversa da quella orale.

I testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli articoli 200 e 201 in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli, salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati.

Non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame.

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Si ha testimonianza indiretta quando il testimone narra un fatto che egli non ha percepito direttamente ma che dichiara di aver appreso da un altro soggetto (c.d. teste di riferimento), il quale, a sua volta, può essere testimone diretto o indiretto. Il codice non esclude espressamente questa seconda possibilità anche se in concreto sarà ancora più difficile trarre un sicuro valore probatorio da un sentito dire “di seconda mano”.275

La ratio dell’art. 195 non è quella di impedire l’utilizzabilità di quanto non è stato percepito personalmente dal dichiarante, bensì quella di consentire il controllo della conoscenza riferita e della fonte da cui si è appresa.

Nel caso in cui il fatto è conosciuto dal testimone “per sentito dire”, dunque, occorre accertare l’attendibilità sia del testimone indiretto, sia del testimone diretto infatti il codice pone alcune condizioni all’utilizzabilità della deposizione indiretta, le quali permettono di effettuare il controllo sulla credibilità della persona da cui si è “sentito dire” e sull’attendibilità di quanto è stato riferito.

L’art. 195 sottopone a due condizioni l’utilizzabilità della testimonianza indiretta.

La prima condizione richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame (art. 195 comma 7): in caso contrario, sarebbe preclusa ogni possibilità di valutazione in ordine all’attendibilità di quanto è stato riferito al testimone indiretto. Pertanto, nel caso in cui non sia individuato il teste diretto o non sia individuata la fonte (ad esempio, il documento) da cui si è appreso il fatto riferito la testimonianza non è utilizzabile in quanto la mancata individuazione della fonte impedisce, anche astrattamente, di valutare la credibilità e l’attendibilità di quanto è stato riferito. Sicché la testimonianza indiretta è utilizzabile in caso di irreperibilità del testimone primario, ma non qualora ne risulti impossibile l’identificazione.

La seconda condizione opera soltanto quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto; in tal caso, il giudice è

275 Gaito A., Bargi A., Dean G., Fiorio C., Garuti G., Giunchedi F., Mazza O., Montagna M. e Santoriello C.,

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obbligato a disporne la citazione (art. 195 comma 1). Se questa norma non è osservata, la testimonianza indiretta di regola non è utilizzabile. In via eccezionale, la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l’esame diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità (art. 195 comma 3).

In giurisprudenza si afferma l’utilizzabilità delle dichiarazioni de relato del testimone indiretto sia quando nessuna delle parti si sia avvalsa del diritto di chiedere che sia chiamato a deporre il teste di riferimento, sia quando le parti rinuncino espressamente al potere di richiedere l’audizione del testimone di riferimento.276

Sulla base di quella che è la materia della testimonianza indiretta ci chiediamo se eventuali fornitori, clienti o dipendenti che hanno fornito informazioni al Curatore, affinché tali informazioni possano essere oggetto di prova, debbano essere ascoltati come testimoni. Orientamento pacifico sembra essere quello espresso dalla Corte di Cassazione, sezione V, con sentenza n. 39001 del 9 giugno 2004 secondo la quale “le dichiarazioni rese da un teste

al Curatore, in quanto parte integrante della relazione, non sono assoggettabili alla procedura prevista per le comunicazioni de relato. Esse costituiscono un dato di fatto riferito dal Curatore e dallo stesso accertato, che assume oggettiva rilevanza per la effettiva conoscenza del reato”.

Pertanto, il Curatore potrà riferire nel corso dell’esame testimoniale di quanto appreso da terzi e la testimonianza sarà utilizzabile anche se le persone alle quali il Curatore si p riferito per la conoscenza dei fatti, delle quali la parte chieda l’esame, non vengono chiamate a testimoniare.277

276 Gaito A., Bargi A., Dean G., Fiorio C., Garuti G., Giunchedi F., Mazza O., Montagna M. e Santoriello C.,

Codice di procedura penale commentato – Tomo I, UTET, 2012.

277 Ilari A., La relazione del Curatore fallimentare ed i suoi effetti nel processo penale.

(http://giustizia.lazio.it/appello.it/form_conv_didattico/LA%20RELAZIONE%20DEL%20CURATORE%20 FALLIMENTARE%20ED%20I%20SUOI%20EFFETTI%20NEL%20PROCESSO%20PENALE.pdf).

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Conclusioni

L’art. 759 dell’abrogato codice del commercio del 1882 disponeva: “in ogni fallimento, in

Curatore deve presentare entro quindi giorni dall’assunto ufficio al Giudice Delegato una succinta esposizione delle principali cause e circostanze del fallimento e dei caratteri che presenta, e un conto sommario dello stato apparente della massa. Il Giudice Delegato deve sorvegliare l’adempimento di questo obbligo e trasmettere immediatamente con le sue osservazioni al procuratore del re, indicandogli le ragioni del ritardo e costringere il Curatore, anche con pene pecuniarie, a presentarli nel più breve temine possibile”.

Nell’abrogata successiva legge n. 995 del 10 luglio 1930, all’art. 4 comma 4 si leggeva, testualmente: “Alla succinta relazione richiesta dall’art. 756 del codice del commercio il

Curatore deve far seguire, nei venti giorni successivi, una seconda relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sul tempo a cui risale il dissesto, sulla responsabilità del fallimento e di altri e su quanto può interessare anche ai fini dell’istruttoria penale”.

L’attuale disciplina contenuta nella legge fallimentare, all’art. 33, richiama un obbligo a carico del Curatore ormai consolidato nel tempo, la cui rilevanza, in ogni caso, non è mai stata marginale o trascurabile.

La relazione particolareggiata rappresenta, probabilmente, l’atto più tortuoso che il Curatore è chiamato a redigere nell’esercizio del proprio incarico.

La sua complessità è data dalla vastità degli argomenti che necessariamente devono essere affrontati, i quali a loro volta richiamano conoscenze in ambiti di vario genere (dall’economia aziendale, al diritto commerciale, fallimentare, penale e quant’altro), oltre che dalle molteplici funzioni che la stessa relazione riveste (dalla funzione informativa, alla funzione patrimoniale, quale strumento utile all’esercizio della vigilanza di altri organi nonché alla funzione penale), come pure dalle circostanze che da questa possono derivare.

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Il compito di questo elaborato è stato quello di provare a trasmettere la complessità della relazione particolareggiata, identificando l’arduo compito che l’organo gestorio della procedura fallimentare ha il dovere di svolgere ed analizzando gli strumenti che lo stesso ha a disposizione per far fronte alle richieste oggetto dell’art. 33 l.f..

Inoltre si è voluto osservare come la semplice disposizione contenuta nell’art. 33 comma 1 che obbliga il Curatore a relazionare circa quanto può interessare anche ai fini

delle indagini preliminari in sede penale sia di estrema importanza, come tale precetto

attribuisca una funzione penale alla stessa relazione, la quale è stata analizzata sotto un duplice profilo: quale veicolo attraverso cui fatti di possibile rilievo penale giungono all’attenzione del P.M. nonché quale possibile elemento di prova in un eventuale processo penale.

È stato eccepito come, nonostante eventuali opinioni contrastanti, il Curatore fallimentare non possa in alcun caso essere definiti organo di polizia giudiziaria e come, nonostante la qualità di pubblico ufficiale e l’obbligo di denuncia art. 331 c.p.p., la relazione particolareggiata non possa costituire notitia criminis.

Interessante è stato, poi, provare ad addentrarsi all’interno del procedimento penale ed alle disposizioni del Codice di procedura penale, andando ad analizzare le varie opinioni formatesi in dottrina (nonché l’orientamento giurisprudenziale poi consolidato) circa le varie problematiche correlate all’utilizzo della relazione particolareggiata in un eventuale processo penale, concentrando il campo di indagine all’impegno delle dichiarazioni rese dal debitore, amministratori, liquidatori o soggetti terzi direttamente al Curatore fallimentare.

L’analisi svolta si è concentrata principalmente ad osservare i dettami dell’art. 33 Legge fallimentare e la domanda che potrebbe sorgere si basa sulla possibilità di sposare le osservazioni effettuante anche successivamente all’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.

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Com’è noto, il D.lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, emanato in attuazione della Legge n. 155 del 19 ottobre 2017, introduce nell’Ordinamento il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (abbreviato “CCII”), che, in considerazione della modifica apportata, all’art. 389 dello stesso, dall’art. 5 del recentissimo D.L. 23 dell’8 aprile 2020 (“Decreto Liquidità”), entrerà in vigore il 1° settembre 2021 e sostituirà integralmente la vigente Legge fallimentare.

Gli obiettivi principali del futuro Codice sono molteplici, volti a far ordine nelle disposizioni della crisi di impresa, ricomprendendo in un unico testo tutte le condizioni oggettive dello stato di crisi o di insolvenza, disciplinando in modo unitario tutti gli strumenti di regolamentazione della crisi ed introducendo un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di difficoltà.

Il Codice della crisi di impresa non andrà a rivoluzionare la procedura fallimentare, se non nella denominazione, visto il prossimo superamento del temine fallimento con “liquidazione giudiziale” nonché l’eliminazione definitiva dell’espressione fallito. Detto questo ne consegue che l’analisi effettuata principalmente con concentrazione all’art. 33 l.f. non verrà meno con l’introduzione della futura disciplina della crisi di impresa, sia perché non si riscontrano rilevanti elementi di disuguaglianza tra le disposizioni art. 130 rispetto all’art. 33 l.f. e soprattutto non incidono in alcun modo sul contenuto della richiesta (presentando anche all’interno della prossimo dettame normativo il dovere di una relazione complessa e di estrema rilevanza), sia perché il futuro Codice non ha inciso su disposizioni riguardanti la materia di procedura penale.