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Il “diritto – dovere” alla salute alla luce della disposizione dell’art 32 della Costituzione.

L’evoluzione del consenso informato tra diritto e dovere di cura e i più recenti approdi giurisprudenziali.

1. Il “diritto – dovere” alla salute alla luce della disposizione dell’art 32 della Costituzione.

Codici di deontologia medica. 3. Il consenso informato nelle ricostruzioni della giurisprudenza costituzionale. 4. La manifestazione del consenso in caso di rifiuto dei trattamenti salva vita: rifiutabilità o non rifiutabilità degli stessi. 5. Il consenso nel paziente capace di intendere e di volere e sue modalità di accertamento; le differenze con il paziente incapace. 6. La sentenza n. 2847 del 2010, consenso informato e profili civilistici. 7. Rilevanza penale del consenso informato.

1. Il “diritto – dovere” alla salute alla luce della disposizione dell’art. 32 della Costituzione.

Dall’ analisi delle fonti svolta nella parte iniziale, è emerso un dato significativo: ossia che uno snodo cui deve necessariamente accedersi per portare avanti un dibattito sulla questione del fine vita è, di certo, quello relativo alla validità ed ai limiti del rifiuto dei trattamenti sanitari nel nostro sistema giuridico, e, quindi, all’esistenza e alla portata di un “diritto-dovere” alla salute, i suoi contenuti, le sue evoluzioni dottrinarie e giurisprudenziali.

Sicchè, accertata l’esistenza nel nostro ordinamento, della vigenza di un principio generale che pone il consenso come presupposto dell’atto medico, potrà verificarsi se e come esso si atteggia nella ipotesi di piena capacità di intendere e di volere del paziente, o nel contrario caso di sua incapacità.

Ci si chiederà quindi, quale sia la tutela che può essere accordata al soggetto che sia stato leso e se essa integri una autonoma fattispecie di danno, ovvero di illecito penale.

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Punto di partenza di tale articolato (e potenzialmente illimitato) discorso è inevitabilmente l’art. 32 della Costituzione, di cui si è già avuto modo di precisare la fondamentale funzione di principio fondamentale di portata generale118.

Si è anche avuto modo di osservare come tale disposizione, che al primo comma sancisce il fondamentale dovere dello Stato di provvedere alla salute dei singoli (qualificata come diritto) e della collettività (qualificata come interesse), pone al secondo comma un generale divieto di trattamenti sanitari obbligatori; divieto al quale sono consentite eccezioni solo previa puntuale previsione legislativa (riserva di legge) e, comunque, fatta salva la necessaria osservanza dei limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Il dibattito sui confini del diritto alla salute e sull’eventuale correlativo diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari è stato in passato molto intenso; pertanto, senza alcuna pretesa di esaustività, si tenterà di tracciare le linee essenziali del suo sviluppo.

Nel tempo si è, dunque, assistito a differenti letture della Carta costituzionale e del principio sancito all'art. 32.

Verosimilmente confortati dai progressi della scienza medica e preoccupati di affermarne l'estensione dei benefici a tutta la collettività, l'iniziale lettura di tale articolo è stata nel senso di privilegiare la doverosità dell'intervento medico a tutela della salute del singolo, soggetto alle valutazioni del sanitario quale unico responsabile e garante della sua salute. Della norma costituzionale venivano valorizzate alcune espressioni del comma 1 (“...la Repubblica tutela la

salute...come interesse della collettività...”) volendosi sottolineare soprattutto il

fondamentale diritto dell'individuo a essere curato, trascurandosi la valenza prescrittiva del comma 2 (“...nessuno può essere obbligato a un determinato

trattamento sanitario...”) , inteso non già come precetto immediatamente

operante, ma al più come principio di natura programmatica e di indirizzo119. Tale lettura ha fortemente limitato la portata contenutistica ed applicativa dell’art. 32 Cost. Pur partendo cioè dall'indiscutibile premessa circa l'esistenza di un diritto costituzionale a non farsi curare, questo indirizzo interpretativo è giunto ad invalidarne gli effetti, laddove si fosse stato in presenza di cure necessarie per il

118 Si veda il par. 5 del Capitolo 1, p. 20 ss.

119 Tale lettura costituzionale veniva confortata da un'interpretazione estensiva del disposto di cui

all'art. 5 c.c. («Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una

diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume») , secondo cui usciva rafforzato un concetto di integrità fisica

e salute inteso alla stregua di diritto soggettivo pubblico, indisponibile per l'individuo, come bene strumentale subordinato a interessi di carattere pubblico, perché l'uomo potesse assolvere ai suoi doveri nella collettività.

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mantenimento in vita del paziente, sulla scorta della asserita prevalenza, in questo caso, del principio di indisponibilità della vita (e che troverebbe una ulteriore conferma, oltre che nella previsione di cui all'art. 579 c.p., nella ritenuta antigiuridicità del suicidio120 e nel divieto di atti di disposizione del proprio corpo di cui all'art. 5 c.c.) 121.

Invero, si sostiene, l'art. 32 Cost.: <<non si occupa minimamente del caso in

cui sia in gioco l'alternativa tra vita e morte nell'ambito della relazione tra medico e paziente>>, attenendo piuttosto <<agli interventi che invadono la sfera di salvaguardia della salute, sfera che compete per l'appunto al rapporto del paziente col medico, salva contraria disposizione di legge entro i limiti imposti dal rispetto della persona umana>>; il che finirebbe per evidenziare come la norma

costituzionale,<<lungi dal sancire logiche di assoluta autodeterminazione, esiga e

presupponga, quando siano in gioco la vita e l'integrità personale, l'esistenza di precisi limiti alla validità del consenso, onde evitare che si possa comunque agire sulla sfera fisiopsichica di un individuo solo sulla base del consenso>>122.

Altre posizioni dottrinarie, mettendo in rilievo, essenzialmente, l’interesse alla salute della collettività, hanno cercato di ricondurre il diritto alla salute nel novero dei diritti c.d. “sociali”123: in quanto tale, il diritto alla salute andrebbe finalizzato al perseguimento di un interesse collettivo e, dunque, rispetto al singolo individuo che di esso sia titolare, si manifesterebbe come un diritto soggettivo debole o più esattamente come un interesse124. Da ciò deriverebbe che, nella

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Per questa impostazione, nella dottrina penalistica, per tutti, v. S. EUSEBI, Omissione

dell'intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, p. 525 ss.; S. EUSEBI, Il diritto penale di fronte alla malattia, in Fioravanti(a cura di) , La tutela penale della persona, Milano, 2001, p. 119 ss.

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Sul dibattito, tra i molti, C. TRIPODINA, Il diritto nell'età della tecnica. Il caso dell'eutanasia, Napoli, 2004, p. 135 ss.; M. B. MAGRO, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, p. 61 ss.; R. ROMBOLI, Commento all'art. 5 del codice civile, in Scialoja- Branca(a cura di) , Commentario al

codice civile, Bologna, 1988, 301 s.; A. VALLINI, Lasciar morire, lasciarsi morire: delitto del medico o diritto del malato?, in Studium iuris, 2007, p. 542 ss.

122 S. EUSEBI, Omissione dell'intervento terapeutico ed eutanasia, cit., p. 133 ss., il quale dietro al

problema della effettuazione di trattamenti sanitari contrari alla volontà del malato scorge il fondato e rilevante rischio di un ”disimpegno verso il malato non interessante dal punto di vista

scientifico o non più sanabile”, paventando che “per affermare sul piano teorico un concetto — quello di incondizionata autodeterminazione - ideologicamente (ma erroneamente) percepito come espressione di laicità e di compiuta democrazia pluralista si finisca per favorire il modello di una medicina contrattualistica, scarsamente proclive a offrire comunque il meglio possibile in ogni situazione e ripiegata in un'ottica difensiva: in altre parole, per aprire larghe falle nell'approccio solidaristico al problema della malattia”.

123 In tale prospettiva C. CHIOLA, Incertezze sul parametro costituzionale per l’aborto, in Giur. Cost.,

1975, I, p. 101 ss.; in senso critico M. LUCIANI, Il diritto costituzionale alla salute, in Diritto e società, 1980, p. 770 ss.

124 Sulla natura giuridica di tali diritti, specie rispetto alle disposizioni costituzionali, si v. ad es. B.

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misura in cui il diritto alla salute del singolo dovesse essere finalizzato all’interesse generale alla salute, sarebbe caratterizzato da un grado più o meno elevato di indisponibilità, proprio in quanto strumentale al bene pubblico “salute”prioritariamente tutelato.

Trattasi, comunque, di una impostazione minoritaria.

Più accreditata è, invece, quell’impostazione che definisce il diritto alla salute quale diritto sociale, ma nel senso di affermare un dovere dello Stato di attivarsi perché esso sia effettivamente salvaguardato, e di correlativa pretesa da parte del singolo di poter essere curato efficacemente e con ogni mezzo necessario125.

In questa prospettiva, l’interesse alla salute della collettività non va più inteso come il fine cui l’esercizio del diritto da parte del singolo debba essere orientato, ma la risultante di un eguale diritto alla salute riconosciuto in capo a ciascun membro della collettività.

In altri termini, il diritto del singolo alla salute non è orientato alla sussistenza della salute collettiva, ma si bilancia con un simmetrico e correlativo diritto di ogni altro soggetto alla propria salute individuale126.

Da tale ricostruzione deriva che, non solo il singolo può vantare una pretesa nei confronti dello Stato affinché sia realizzato il proprio diritto, ma che egli abbia un dovere inderogabile di provvedere alla sua conservazione: con la conseguenza di ritenere illecito ogni comportamento che, mettendo a repentaglio la salute individuale col rifiuto di un trattamento sanitario, costituisca una violazione di tale dovere alla salute127.

Il diritto alla salute, in sostanza, trascenderebbe la mera dimensione individuale ed andrebbe letto nell’ottica di una più generale doverosità civica, la quale escluderebbe la possibilità per il soggetto di realizzare tale diritto rifiutando cure e trattamenti indispensabili per la conservazione della salute stessa, qualificata come bene non disponibile totalmente da parte del singolo.

Si è già avuto modo di osservare come parte della dottrina ponga il diritto alla salute in relazione al c.d. principio personalista, ricavabile tanto all’art. 2 Cost. che dal secondo comma dell’art. 32 Cost., laddove si afferma che i trattamenti sanitari trovano un limite nel “rispetto della persona umana”. Cosicché il rispetto

2001; D. BIFULCO, L’inviolabilità dei diritti sociali, Napoli, 2003; A. GIORGIS, La costituzionalizzazione

dei diritti all’eguaglianza sostanziale, Napoli, 1999

125 F. MANTOVANI, I trapanati e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova,

1974, p. 111-112.

126 P. BELLINI, Aspetti costituzionali on specifico riferimento alla libertà religiosa, in AA. VV.

Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Atti del Convegno di Roma, 01/12/1982, Napoli, 1983,

p. 61 ss.

127 Così C. MORTATI, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana,

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del diritto alla salute diventa bene strumentale allo sviluppo della personalità, intesa non come volontà arbitraria di autorealizzazione, ma come valore da preservare e da realizzare nel rispetto di se stessi128.

Il diritto alla salute si configura pertanto quale diritto soggettivo, personale e disponibile129.

L’esaltazione del diritto soggettivo e la sua qualificazione in termini di assoluta disponibilità da parte del titolare, affonda le sue radici nel pensiero dell’Età di Mezzo e, segnatamente, nel pensiero del giusnaturalismo volontaristico della scuola francescana, ove si sviluppò l’idea della radicalità della volontà individuale, intesa come capacità di agire e di determinarsi in modo del tutto potestativo ed autonomo da parte del soggetto130.

L’idea dell’assoluta disponibilità del diritto soggettivo, da cui deriva il diritto del soggetto malato di rifiutare le cure, affonda le sue radici nella qualificazione dello jus come potestas, ossia del diritto di usare dei propri beni come più si desidera.

Se la libertà del singolo si manifesta, dunque, innanzi tutto in un atto di volontà, il diritto soggettivo non è altro che il riconoscimento di uno spazio in cui l’individuo può agire ed utilizzare i beni dei quali abbia la disponibilità, senza che altri lo possano ostacolare e realizzando in ciò la sua propria personalità.

In altri termini, proprio perché il diritto soggettivo è configurato come

potestas absoluta utendi e abutendi, né l’ordinamento, né i terzi possono

legittimamente impedire al soggetto di attuare le determinazioni della sua volontà, dovendosi per contro attestare su di una posizione di rispetto e di astensione.

In tale prospettiva, nessun vincolo di indisponibilità potrà essere opposto in merito a beni sui quali al soggetto sia riconosciuta, nella figura del diritto soggettivo, una potestà assoluta. L’esaltazione della libertà soggettiva , che Locke identifica con: <<la libertà di disporre e regolare , come gli pare, la sua persona, le

sue azioni, i suoi possessi e la sua intera proprietà entro i limiti consentiti dalla

128

P. PERLINGIERI, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass. Dir. civ., 1982, p. 1045 ss.

129 F. MACIOCE, Il rifiuto dei trattamenti sanitari: una prospettiva filosofica, in Doveri e diritti alla

fine della vita (a cura di) L. PALAZZANI, Roma, 2010, p. 70 ss.

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Trattasi di un’idea che sta alla base di tutte le successive costruzioni del diritto soggettivo e dell’assoluto rispetto dovuto alle determinazioni soggettive della volontà e sulla quale si fonda l’idea che la prassi medica, al pari di ogni altro intervento sulla persona sia lecita non tanto per le finalità perseguite, quanto, soprattutto per la rilevanza del consenso e della volontà libera del soggetto cui di riferisce. In tal senso G. BASCHERINI, L’emergenza ed i diritti, un’ipotesi di lettura, in

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legge>>131, sta tutta nella ricerca di uno spazio entro cui la volontà umana non sia soggetta ad altri che a se stessa, salvo – per i casi ristretti, tassativi, e finalizzati al perseguimento del bene comune – il rispetto delle leggi; non caso la manifestazione più concreta della libertà originaria dell’individuo, e dell’assolutezza della sua libertà, è precisamente il diritto di proprietà132.

In sintesi, dunque, è proprio questo l’orizzonte nel quale vanno collocate le elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza in merito alla qualificazione del diritto alla salute in una prospettiva proprietaria: ossia il potere del soggetto di disporre dei beni sui quali esercita la propria potestà133.

Pertanto, al fine di comprendere quale sia il contenuto e la portata del diritto-dovere alla salute, in primo luogo si tenterà di ricostruire come si sia evoluto tale diritto e come si sia, conseguentemente, evoluta la nozione di consenso e la sua portata, attraverso una ricostruzione operata su uno dei fondamentali strumenti utilizzati dagli “operatori” della materia, i medici.

Attraverso i codici di deontologia medica che si sono susseguiti a partire dagli anni cinquanta, sino ad oggi, potrà quindi cogliersi la significativa evoluzione della libertà di autodeterminarsi del paziente.

2. Il consenso all’atto medico: la sua evoluzione attraverso l’esame dei

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