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L’esistenza di un “diritto a morire” alla luce della disciplina penalistica.

Dall’indagine sin qui svolta pare potersi affermare con una certa sicurezza che, stando alle disposizioni costituzionali e alla previsione contenuta all’art. 5 c.c., esista in capo al paziente il diritto di non essere sottoposto a trattamento sanitario in base a provvedimenti dell’autorità pubblica che non abbiano forza di legge e che non siano comunque rispettosi del limite costituito dal rispetto della persona umana.

D’altro canto esiste certamente il diritto di rifiutare il trattamento sanitario in assenza di un consenso informato ed esso ha la sua naturale collocazione solo

momento terminale e irrevocabile della vita. Cfr. in argomento, G. CASSANO, E’ lecito il diritto

all’eutanasia?, in Famila, 2002, p. 241 ss.

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nell’ambito dei rapporti interprivati trovando il suo fondamento nel complesso delle leggi ordinarie (ivi compreso l’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale, che stabilisce il carattere generalmente volontario dei trattamenti diagnostici e terapeutici).

Taluno ritiene, al più, esistente una sorta di “sponda” costituzionale offerta dagli art. 2 e 13 della Costituzione nella parte in cui impegnano la Repubblica a riconoscere e garantire i “diritti inviolabili dell’uomo” ed affermano l’inviolabilità della libertà personale; “sponda”, alla quale potrebbe astrattamente contrapporsi anche quella, di segno contrario, ricavabile dallo spesso dimenticato comma secondo dell’articolo 4 della Costituzione che impone ad ogni cittadino “il dovere

di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Appare

infatti evidente che ad un tale dovere si sottrae, ad esempio, chi rifiuti, senza apprezzabile ragione, un trattamento sanitario che potrebbe valere a rendergli la perduta capacità di lavoro o a toglierlo, quindi, dalla condizione di chi costituisce un peso economico per gli altri consociati97.

Escluso, quindi, che con riguardo ai rapporti tra medico e paziente, il diritto di quest’ultimo di rifiutare i trattamenti sanitari abbia un diretto fondamento nella Costituzione, occorre chiedersi se esso equivalga ad una sorta di diritto al suicidio e sia come tale tutelato dall’ordinamento, sia pure a livello di legge ordinaria98.

Ora, considerato che il suicidio, al pari dell’omicidio, può essere realizzato sia con condotte commissive che omissive, un soggetto, ad esempio, può procurarsi la morte anche non alimentandosi più, qualora sia in grado di farlo autonomamente, ovvero rifiutando, qualora non lo sia, di essere alimentato da altri. In presenza di

97 Per le ricostruzioni sin qui svolte sul punto v.si P. DOBOLINO, Fondamento e riflessi penalistici del

diritto al rifiuto di trattamenti sanitari di sopravvivenza, in Riv. Pen., p. 391 ss.

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Taluno distingue tra “diritto a morire” e “diritto al suicidio” (v.si S. SEMINARA, Riflessioni in tema

di suicidio e di eutanasia, in Riv. It. dir. proc. pen., 1995, p. 676- 692) ma la distinzione appare

quanto mai speciosa ove si consideri che la morte è un “fatto” normalmente indipendente, come tale, dalla volontà di chi lo subisce, di tal che, ove esso sia riconducibile in qualsiasi modo a quella volontà, viene necessariamente ad assumere la connotazione di suicidio. Il voler “lasciar fare alla natura”, nel senso di lasciare che un determinato processo patologico prosegua indisturbato fino al suo esito mortale non è, concettualmente, diverso dal volersi avvalere di un qualsiasi altro processo basato su leggi naturali allo scopo di provocarsi la morte. Sotto questo profilo, quindi, a rigore, ogni atto suicidiario è un “lasciar fare alla natura” perché senza l’ausilio delle leggi che regolano l’agire ed il combinarsi di forze o elementi naturali, di cui mediante l’atto si inneschi il meccanismo, sarebbe impossibili procurarsi la morte.

La sostanziale identificabilità del preteso “diritto di morire” con il “diritto al suicidio” emerge in F. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, i termini di una relazione problematica, in Una norma

giuridica per la bioetica, a cura di C.M. Mazzoni, 1998, p. 256 ss. il quale , a sostegno della ritenuta

giustificabilità della rilevanza penale attribuita all’istigazione al suicidio afferma che: <<Il valido

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tali condotte l’ordinamento giuridico rimane indifferente, in quanto non prevede alcun tipo di interventoobbligatorio volto ad impedire la realizzazione del proposito suicida e, meno che mai, alcuna sanzione né civile né penale a carico del soggetto che stia perseguendo quel proposito. Ciò non significa che si sia in presenza di un vero e proprio diritto, ove per diritto si intenda una pretesa per la realizzazione della quale si possa chiedere ed ottenere un sostegno dallo Stato mediante gli strumenti processuali a ciò disposti. Pertanto il c.d. “diritto al suicidio” rientrerebbe, a ben vedere, nell’indistinto novero delle mere “facoltà” le quali, siccome non vietate dall’ordinamento, si riassumono nel generico diritto di ciascuno a godere della libertà di porre in essere tutto ciò che non sia da alcuna norma proibito99.

Non è mancato, in verità, chi ha inteso sostenere, invece, l’esistenza di un vero e proprio “diritto al suicidio”, coperto da garanzia costituzionale, per cui sarebbe giustificato un intervento dello Stato volto a punire chi impedisce l’altrui volontà di suicidio, in quanto lesiva della sua libertà100.

Sposando la tesi prevalente per cui si tratta di mera facoltà, ad esse l’ordinamento può riconoscere una protezione soltanto “indiretta”, ossia intervenire per inibire o anche sanzionare comportamenti che siano in concreto impeditivi della loro realizzazione, senza però poi collaborare affinchè questa concretamente avvenga.

Un tale intervento, tuttavia, non può prevedersi per il caso del suicidio, o meglio di tentativo di esso e ciò perché l’eventuale condotta di chi volesse impedire al suicida di realizzare il suo intento, non è inquadrabile astrattamente in ipotesi di illecito civile o penale, come tale suscettibile di intervento impeditivo e repressivo da parte dello Stato, ma perché un siffatto illecito sarebbe automaticamente scriminato dallo stato di necessità, quale previsto dall’art. 54 c.p.101 e dall’art. 2045 c.c., rispettivamente per la materia penale e per quella civile.

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In tal senso M. RONCO, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e

svuotamento della tutela penale della vita, in Cristianità, 2007, p. 20 ss., secondo cui i poteri che

ogni individuo ha di suicidarsi o di peggiorare le proprie condizioni di salute “non sono espressione

di un diritto, bensì mere facoltà di fatto che non trovano tutela nell’ordinamento giuridico e non possono farsi valere come pretese giuridiche nei confronti dei terzi”

100 V. PUGLIESE, Nuovi diritti: le scelte di fine-vita tra diritto costituzionale, etica, deontologia

medica, in Riv. Pen., 2009, p. 143-44.

101 E’ stato altresì osservato che la scriminante de qua non può intervenire in caso di presenza del

dissenso informato del paziente, ma rileva esclusivamente per le ipotesi in cui non sussista il consenso. Per un approfondimento sul punto, con particolare riflessione sulla sentenza n. 2049/2007 (caso Welby) cfr. G. COCCO, Un punto sul diritto di libertà di rifiutare terapie mediche

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Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso di chi, strappando con la violenza la pistola dalla mano di chi stia per usarla contro sé stesso, ponesse in essere una condotta sicuramente qualificabile , in sé e per sé, come reato di violenza privata; reato del quale, però, l’autore non potrebbe essere in alcun modo dichiarato colpevole appunto per aver agito in presenza della necessità di salvare l’altro dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

Ma se così è, lo stesso principio coeteris paribus, non può non valere anche per il medico; sarebbe infatti assurdo che il quisquam de populo, ponendo in essere una condotta penalmente rilevante potesse fruire di una causa di giustificazione di cui il medico, attuando la medesima condotta, non potesse, sol perché medico, parimenti fruire.

Naturalmente il fatto che una determinata condotta, astrattamente idonea a costituire reato, perda il carattere dell’antigiuridicità per la presenza di una causa di giustificazione (anche putativa ex art. 59 , ultimo comma c.p.) non può certo significare che essa assuma, per converso, i caratteri della doverosità102.

Potrebbe tuttavia, a questo punto obiettarsi che, ove la scelta sostanzialmente suicidaria del paziente di rifiutare un trattamento sanitario sia motivata dall’intento di sottrarsi a sofferenze da lui avvertite come peggiori della morte, verrebbe per ciò stesso meno la condizione per l’operatività della scriminante, costituita dall’esistenza del pericolo di un danno grave alla persona, posto che per quella persona sarebbe danno più grave il sopravvivere piuttosto che il morire.

Il limite però di tale impostazione deriva dal fatto che esso presuppone che la scelta suicidaria implichi, per sua natura, l’avvenuta accettazione della morte come male minore rispetto alla prosecuzione della vita con la paradossale conseguenza che il salvatore dell’aspirante suicida non potrebbe mai invocare a proprio favore, come causa di giustificazione, lo stato di necessità, neppure a livello putativo, atteso che, a fronte di un tentativo di suicidio in atto, egli nessun ragionevole dubbio potrebbe aver nutrito circa la scelta in favore della morte liberamente operata dal soggetto da lui poi “arbitrariamente” salvato103.

Se dunque il rifiuto del trattamento sanitario da parte del soggetto che, in tal modo, intenda provocare od accelerare il proprio decesso equivale a tentativo di suicidio e se l’ordinamento non riconosce ad un tale tentativo natura di diritto ma

102 P. DUBOLINO, op. cit., p. 393 ss.

103 Taluno ha in verità sostenuto che la condotta eventualmente violenta posta in essere dal

salvatore dell’aspirante suicida sarebbe scriminata solo se “l’agente sa o presume di impedire un

proposito dettato da motivazioni contingenti e transeunti” e non invece quando si sia in presenza di “suicida razionale”. Cfr. sul punto, S. SEMINARA, op. cit., p. 702 ss.

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solo di semplice facoltà, ne deriva che risponde del reato di cui all’art. 580 c.p.104 colui il quale abbia istigato od aiutato il soggetto medesimo a porre in essere quella condotta.

Il medico, dunque, se da un lato è pienamente legittimato ad astenersi da ogni intervento coattivo a fronte della dichiarata volontà del malato di rifiutare le cure onde provocare od accelerare la propria morte, dall’altro lato non è però legittimato ad astenersi da ogni intervento dissuasivo, la cui deliberata omissione può significativamente influire sul formarsi della volontà del paziente e, conseguentemente, dar luogo a responsabilità penale ai sensi dell’art. 580 c.p 105.

Trattasi del reato di “Istigazione o aiuto al suicidio” e ricomprende tre condotte tipiche: la “determinazione”, il “rafforzamento”, l’ “agevolazione”.

Parte della dottrina ritiene che le condotte di determinazione e di rafforzamento non siano caratterizzate da una differenza ontologica e giuridica, ma sarebbero meri sinonimi contraddistinti dall’attitudine del mezzo ad influenzare la volontà del terzo nel suo processo di formazione106. La stessa dottrina parla con riguardo a tali condotte di “interazione psichica”, in quanto capaci di interferire sul processo di formazione del volere del suicida, il quale comunque assume una determinazione autonoma successivamente all’accoglimento dell’istigazione.

Per altra dottrina, invece, le due condotte di istigazione e di determinazione sono tra loro diverse.

L’impostazione più accreditata distingue tra le condotte richiamate, avendo tutte una loro autonomi strutturale ed ontologica, ed essendo riconducibili al concetto di istigazione , in quanto modalità differenti di esplicazione della condotta tipica107 .

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Art. 580. Istigazione o aiuto al suicidio. Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l'altrui

proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio.

105 Il reato di aiuto al suicidio e di omicidio del consensiente possono essere commessi anche con

“modalità omissiva”, come ormai generalmente riconosciuto, cfr. P. VIRGADAMO, L’eutannasia e la Suprema Corte: dall’omicidio del consensiente al dovere di uccidere, in Dir. fam. e pers., 2008, I, p. 598 ss. quanto all’eventuale operatività, con riguardo a tali reati, della scriminante dello stato di necessità, lo stesso A. , più oltre (p 603 ss.) osserva che essa dovrebbe essere esclusa “a fronte di un dissenso validamente manifestato”.

106 M.B. MAGRO, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, p. 205 ss. 107

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La qualificazione della fattispecie di cui all’art. 580 c.p. quale reato di danno, e non di mero pericolo, comporta che, non solo sia del tutto irrilevante la mera istigazione non seguita dall’evento morte o da lesioni personali gravi o gravissime, ma che sia, a fortiori, del tutto irrilevante il tentativo di istigazione108.

Infine occorre segnalare il dibattito, tutt’ora aperto in dottrina, circa la configurabilità della condotta omissiva: se sia difficile ipotizzare una condotta omissiva che integri gli estremi della determinazione-istigazione ex art. 580 c.p., più probabile è la configurabilità della condotta di agevolazione al suicidio mediante omissione. In tal caso deve essere richiamato l’art. 40 comma 2 c.p. con seguente applicazione della fattispecie in capo al soggetto che ha il dovere giuridico di impedire l’evento109.

Diversa è l’ipotesi in cui il medico sia chiamato a rispondere del diverso reato di “omicidio del consensiente” di cui all’art. 579 c.p 110 qualora non si limiti ad un atteggiamento passivo, ma ponga in essere una qualsiasi condotta attiva finalizzata a produrre o accelerare la morte del soggetto che ne abbia fatto richiesta111.

L’art. 579 c.p. è stato inserito nel codice del 1930 come autonoma figura di reato112, ulteriore rispetto all’omicidio semplice, per la necessità di adeguare la disciplina penalistica all’atteggiamento assunto dai giudici anche con riguardo alle fattispecie di eutanasia113.

Si tratta , dunque, di autonoma autonoma fattispecie caratterizzata da un elemento specializzante (e non circostanza attenuante) rispetto all’ipotesi di cui

108

V. SEMINARA, Riflessioni sulla condotta istigatoria come forma di partecipazione al reato, in Riv.

It. Proc. Pen., 1983, p. 1125 ss.

109 M. BERTOLINO, Suicidio (istigazione o aiuto al), cit., p. 117 ss. 110

Art. 579. Omicidio del consenziente. Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è

punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell'articolo 61.

Si applicano le disposizioni relative all'omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.

111 Con riguardo all’art. 579 c.p. è stata da taluno prospettata l’ipotesi della sua incostituzionalità,

attesa la disparità di trattamento che esso creerebbe tra chi sia in grado di darsi la morte da solo e chi dovesse invece necessariamente ricorrere all’opera altrui. In tal senso C. TRIPODINA, voce

Eutanasia, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, 2006, p. 2370 ss

112 Il codice Zanardelli prevedeva la sola fattispecie dell’istigazione od aiuto al suicidio 113

La giurisprudenza, infatti, pur di legittimare o comunque di attenuare il rigore sanzionatorio derivante dall’applicazione dell’omicidio volontario, giungeva ad inesatte interpretazioni estensive o analogiche della norma sull’istigazione o aiuto al suicidio fino ad assolvere i medici che avessero praticato l’eutanasia mossi da sentimenti di pietà, in aperto contrasto con la normativa vigente. Cfr. M. ROMANO, Danno a sé stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in Riv. Dir. it. Proc.

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all’art. 575 c.p.114 dato dal “consenso del soggetto passivo”. Tale consenso deve permanere fino al momento del compimento del fatto poiché: <<il delitto previsto

dall’art. 579 c.p. presuppone un consenso non solo serio, esplicito e non equivoco, ma perdurante anche sino al momento in cui il colpevole commette il fatto>>115

Il reato è infatti considerato “delitto di relazione”, in cui la vittima si configura come vittima “volontaria”, “partecipante”, “provocatrice”, incidendo in maniera significativa sull’elemento psicologico116.

Da ciò deriva che l’assenza del consenso, rende inapplicabile la fattispecie di cui all’art. 579 c.p. con applicazione dell’omicidio volontario ex art. 575 c.p.117; si parla in tal caso di eutanasia attiva non consensuale, ma sui profili più strettamente legati all’eutanasia, ed alle sue forme e tipologie, ci intratterremo più avanti nel corso di questo lavoro.

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Art. 575. Omicidio. Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non

inferiore ad anni ventuno.

115 Cass. 13 novembre 1970, n. 334, in Cass. Pen. Mass. 1972, p. 173 116

B. PANNAIN,M. PANNAIN, F. SCLAFANI, L’omicidio del consensiente e la questione eutanasia, Napoli, 1998, p. 36 ss.

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Capitolo II

L’evoluzione del consenso informato tra diritto e dovere di

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