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3 2 Un possibile attrito con le scelte dell’ordinamento

Capitolo 4: Gli spazi dell’autodifesa nel processo penale italiano

4.3 La garanzia del principio nemo tenetur se detegere

4.3.1 Il diritto al silenzio

All’imputato o indagato interrogato l’ordinamento riconosce la facoltà di non rispondere ad alcune o a tutte le domande postegli dall’autorità inquirente, esercitando il suo diritto di rimanere in silenzio, come corollario del principio nemo tenetur se detegere.

Pur non essendo presente una norma che tuteli esplicitamente il diritto al silenzio, non vi è dubbio da parte della giurisprudenza,

costituzionale175 ed ordinaria176, e della dottrina sul fatto che questo sia

comunque garantito a livello costituzionale. In primo luogo, si può fare riferimento all’art. 2 della Carta Fondamentale, il quale ricomprende la libertà morale tra i diritti inviolabili; tra questi si potrebbe far rientrare il diritto dell’individuo di autodeterminarsi restando immune da ogni

175 Il rango costituzionale del diritto al silenzio è stato ribadito dalla Corte

Costituzionale nelle Sentenze n. 34/1973, n. 236/1975, n. 290/1983, n. 267/1994, n. 361/1998 e nell’Ordinanza n. 291/1992.

176 Corte di Cassazione penale, sez. IV, Sentenza n. 3241/1996 e sez. I, Sentenza

130 coazione, fisica o psichica. In tale contesto potrebbe rientrare “anche la più specifica estrinsecazione costituita dal silenzio e dalla non collaborazione del prevenuto alle iniziative dell'autorità inquirente, corrispondente ad un ‘valore’ destinato a prevalere, in quanto inviolabile”177.

Il diritto al silenzio viene, inoltre, tutelato dall’art. 24, comma 2 Cost., in quanto questo garantisce la difesa, tecnica o materiale, in ogni stato e grado del procedimento; tale situazione comporta l’intervento come persona consapevole della propria posizione e la libertà di autodeterminarsi nelle proprie opzioni difensive, “cosicché possa decidere il rifiuto preliminare di tacere di fronte a qualsiasi domanda o, anche, di non rispondere ad una od a più di una delle domande

rivoltegli”178. Ulteriore rafforzamento alla tutela del diritto in questione

è desumibile dalla presunzione d’innocenza dell’art. 27, comma 2 Cost., dal momento che lo ius tacendi risponde all’esigenza di non capovolgere l’onere probatorio in capo al P.M., non volendo costringere l’interrogato a deporre né a discolparsi per evitare la condanna.

Infine, una clausola di salvaguardia può essere rinvenuta, inoltre, all’art. 111, commi 1 e 2 Cost., considerati evocatori “d'una procedura in cui l'accusato non sia coartato ad edere contra se (poiché una diversa soluzione determinerebbe il rischio d'errori giudiziari) e possa

177 P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato, in Enc. Dir, Annali III, 2010. 178 P. Moscarini, op. cit.

131

intervenire, appunto, come contraddittore libero e consapevole”179.

Questione più delicata è se la clausola “per libera scelta”, contenuta al comma 4 dell’articolo, debba o no far ritenere sancito, a livello primario nella gerarchia delle fonti, il diritto dell'imputato-accusatore di non sottostare alle domande della difesa; la dottrina maggioritaria, favorevole alla seconda interpretazione, ritiene che “la locuzione ‘libera scelta’ è stata dettata solo come condizione per l'inutilizzabilità in malam partem delle dichiarazioni ‘etero-accusatorie’ non rese nel ‘contraddittorio per la prova penale’ da colui il quale, successivamente,

si sia sottratto al ‘contro-interrogatorio’ difensivo”180.

La mancanza di una norma costituzionale che tuteli espressamente il diritto al silenzio è di semplice constatazione; tuttavia, a tale pensiero si potrebbe replicare agevolmente che questa la si potrebbe ritrovare nell’art. 14, comma 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici e che tale norma, in virtù dell’art. 117 Cost., funge da parametro per un eventuale giudizio di incostituzionalità, come ha dichiarato lo stesso giudice costituzionale.

Inoltre, secondo l’opinione della Corte Costituzionale, “il principio nemo tenetur se detegere è un corollario essenziale dell'inviolabilità della difesa, destinato a prevalere anche ove esso

179 O. Mazza, op.cit.

180 P. Moscarini, Il silenzio dell’imputato sul fatto proprio secondo la Corte di

Strasburgo e nell’esperienza italiana, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2006, fasc. 2,

132 dovesse in concreto comportare l'impossibilità di acquisire una prova, nella peculiare situazione di reati commessi da più persone in danno

reciproco le une delle altre”181 e, in questo senso, può essere considerato

un principio cardine del nostro sistema processuale182.

Secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il riconoscimento del diritto al silenzio è ricavabile dal concetto di “processo equo” delineato dall’art. 6, comma 1 C.e.d.u., che esclude l’applicazione di qualsiasi misura coercitiva sull’imputato diretta ad acquisirne le dichiarazioni, e dal comma 2 del medesimo articolo, il quale sancisce la presunzione d’innocenza. La Corte di Strasburgo da tali premesse ha tratto il principio secondo cui “nessun accusato può essere condannato per il solo fatto di esser rimasto silente, durante tutta la procedura, di fronte alla contestazione dei fatti

addebitatigli”183. Tuttavia, i giudici europei hanno stabilito che il diritto

in questione non ha carattere assoluto, in quanto sono rilevabili situazioni in cui può causare pregiudizi allo stesso accusato, come, ad esempio, quando lo svolgimento del processo abbia evidenziato un quadro sfavorevole all’imputato, tale da rendersi necessario un

181 Corte Costituzionale, Ordinanza n. 291/2002, in conformità alla Sentenza n.

361/1998, in cui aveva dichiarato che il diritto al silenzio è un’”irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa”.

182 Corte Costituzionale, Sentenza n. 267/1994.

133 intervento a sua discolpa, che, se non attuato, ben potrà costituire un

elemento apprezzabile come elemento di ‘riscontro’ a suo carico184.

È opportuno precisare che tale massima vale solo nel caso in cui l’imputato si sia sempre rifiutato di rispondere durante l’intero corso del procedimento. In ogni caso, la Corte Europea “ha mirato non ad una difesa ‘massimalistica’ del nemo tenetur se detegere, bensì alla effettiva salvaguardia dell'imputato nei confronti di coercizioni tali da determinare errori giudiziari e da invertire, in nocumento del prevenuto, l'onere istruttorio”185.

Il diritto al silenzio deve essere considerato sotto un duplice punto di vista: da una parte, risulta strettamente connesso al diritto di autodifesa, dall’altra “si delinea come il segnale indiretto, ma ugualmente significativo, della scelta fatta a monte dal sistema di ripudiare qualunque forma di contrattazione e di scambio tra le parti o

tra il giudice e l'imputato”186.

184 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Murray c. Regno Unito, 25 gennaio

2001, dove si legge "Da una parte, è manifestamente incompatibile con [il diritto dell'accusato a tacere] fondare una condanna solo od essenzialmente sul [suo] silenzio o sul suo rifiuto di rispondere ad alcune domande oppure di deporre. D'altra parte, è anche evidente per la Corte che questi divieti non possono e non potrebbero impedire di prendere in considerazione il silenzio dell'interessato, in situazioni che richiedono certamente una spiegazione da parte sua, per apprezzare la forza persuasiva degli elementi a carico".

185 P. Moscarini, op.cit., in Riv. It. Dir. Proc. Pen.

186 R. Lopez, Le attenuanti generiche e il silenzio dell’imputato, in Riv. It. Dir.

134 L’imputato può esercitare il suo diritto al silenzio in riferimento al fatto proprio o al fatto altrui. Ai fini della nostra trattazione, riteniamo che sia rilevante analizzare la sola esplicazione personale del diritto in questione.

Secondo i lineamenti generali della disciplina, l’imputato può avvalersi del suo diritto al silenzio in tre forme distinte: durante le

indagini preliminari, nell’esercizio delle facoltà derivanti

dall’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p.; nella fase investigativa, se accetta l’interrogatorio nel merito, oppure nell’udienza preliminare facendo richiesta di essere sottoposto al medesimo; infine, nel dibattimento, evitando di chiedere la sottoposizione all’esame ovvero rifiutandosi di essere esaminato su richiesta delle altre parti.

Analizzando l’interrogatorio durante la fase investigativa, si rileva che l’autorità procedente è tenuta a comunicare all’interrogando, a pena di inutilizzabilità delle eventuali dichiarazioni successive, l’avviso della sua facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, come stabilito dall’art. 64 del codice di rito. Tale avviso deve essere esteso anche al caso di interrogatorio del P.M. nelle indagini preliminari, in caso di comparizione spontanea del soggetto (art. 374 c.p.p.), in caso di invito a presentarsi (art. 375 c.p.p.), di arresto o fermo (art. 388, comma 2) ovvero su richiesta dell’indagato (art. 415 bis); all’ipotesi di interrogatorio da parte del G.I.P. dell’indagato sottoposto a misura cautelare o pre-cautelare (artt. 294, 289, comma 2, 299, comma 3 ter,

135 391, comma 3); nel caso di acquisizione di sommarie informazioni dall’indagato libero (art. 350, commi 1 e 4) e in caso di interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria (art. 370, comma 1); nell’ipotesi di interrogatorio su richiesta dell’imputato in udienza preliminare (art. 421, comma 2) o in sede di integrazione probatoria (art. 422, comma 4); ed infine, nell’interrogatorio del prevenuto durante il giudizio abbreviato (art. 441, comma 6). Permane un dubbio in riferimento all’ipotesi di dichiarazioni spontanee o di notizie ed indicazioni utili ai fini delle indagini ricevute dalla polizia giudiziaria, dal momento che non sussiste un obbligo di avviso esplicito; tuttavia, è opportuna, in questi casi, una sua applicazione analogica per garantire l’autodifesa giudiziaria.

Lo ius tacendi riceve una tutela anticipata rispetto all’acquisizione della qualità di indagato o imputato, grazie al privilegio contro l’autoincriminazione, previsto nei confronti del testimone all’art. 198, comma 2 c.p.p.: se il soggetto non ha ancora acquisito tale qualità ed è sentito ad altro titolo e rende dichiarazioni da cui possono emergere indizi di reità a suo carico, il funzionario procedente deve interromperne l’audizione, avvertirlo delle eventuali indagini che potranno svolgersi nei suoi confronti ed invitarlo a nominare un difensore. Inoltre, le “dichiarazioni auto-incriminanti”, pronunciate prima di tale avviso, non potranno essere utilizzate né contro il dichiarante, né contra alios.

Passando alla fase dibattimentale, l’imputato può autodifendersi attraverso il rilascio di dichiarazioni spontanee o richiedendo di essere

136 sottoposto all’esame; in riferimento a quest’ultimo atto, può esercitare lo ius tacendi evitando la propria sottoposizione all’esame e, quindi, non facendone richiesta ovvero rifiutandosi di soggiacervi, se la richiesta è avanzata da un’altra parte. La Corte Costituzionale ha stabilito, nell’ordinanza n. 191/2003, che l’autorità procedente sia, anche in questo caso, obbligata ad avvisare l’imputato della sua facoltà di rimanere in silenzio, tuttavia, parte della dottrina ha ritenuto tale orientamento incongruo, poiché “sembra paradossale che un imputato, il quale abbia accettato la ‘sfida’ in cui si risolve l'esame, vada subito dopo avvisato della facoltà di restarvi silente; tanto più, poi, quando si considerino le conseguenze che, sul piano probatorio, il giudice può

trarre dalla sua reticenza in tale sede medesima”187. Piuttosto nei fatti,

un limite concreto potrebbe essere individuato nella lettura dei verbali delle dichiarazioni precedenti, nel caso di rifiuto a sottoporsi all’esame, come previsto dall’art. 513, comma 1.

Parte della dottrina si è chiesta se la condotta “silenziosa” dell’imputato sia suscettibile di una valutazione da parte del giudice, come elemento probatorio o, comunque, indiziario. In base alla legislazione ordinaria e alla Costituzione, appaiono inaccettabili sia la proposta di imporre al prevenuto un obbligo de veritate sia la tesi secondo cui l’imputato interrogato avrebbe un onere di rispondere in modo veritiero. La dottrina ha mantenuto, in ogni caso, un

137 atteggiamento rigoroso: se rimanere in silenzio nei confronti delle accuse mossegli rimane un diritto dell’imputato sancito a livello costituzionale, questo deve necessariamente essere considerato dal giudice come un comportamento “neutro”. La Corte di Cassazione non si è presentata altrettanto rigorosa, aderendo, a volte, a tale dottrina e, altre, pervenendo ad una soluzione meno drastica; pur negando il valore probatorio diretto del silenzio, ne ha attribuito uno indiretto, ad esempio, ritenendo che, se la mancata risposta ad una o più domande si risolve nella mancanza di spiegazioni ad un quadro probatorio sfavorevole per l’imputato, tale contegno costituisse un “tacito riscontro”. Questa posizione assunta dalla Cassazione è in tutto simile a quella della Corte Europea, “cosicché sembra essersi consolidata una ‘giurisprudenza europea’ secondo cui, in determinate fattispecie concrete, ‘rompere il silenzio’ può diventare un onere gravante sull'accusato che voglia

ottenere un esito processuale favorevole (o meno sfavorevole)”188.

Occorre rilevare che l’art. 133, comma 2 c.p. stabilisce che il giudice, nella determinazione della pena, debba tener conto “della condotta contemporanea o susseguente al reato”; una parte minoritaria

della dottrina e lo stesso giudice di legittimità189 hanno ritenuto che, nel

valutare il comportamento successivo al reato, si dovesse tener conto anche dell’eventuale esercizio del diritto al silenzio da parte

188 P. Moscarini, op. cit., in Enc. Dir.

138 dell’imputato. Se si guarda all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, come nel caso in cui si è pronunciata la Corte di Cassazione, è indubbio che il giudice debba sì valutare il comportamento dell’imputato, ma ciò deve essere fatto con estrema cautela, dal momento che tale modo di procedere può rappresentare “un indiretto ma

pericoloso condizionamento del diritto di difesa”190; la Corte di

Cassazione ha dichiarato, infatti, che “anche il silenzio dell'imputato può dunque essere valutato - sul piano del comportamento processuale - ai fini del disconoscimento delle attenuanti di cui all'art. 62 bis c.p.: ed infatti l'ordinamento penale, nel garantire all'imputato il diritto al silenzio ed alla menzogna, che non sconfini nella calunnia, nonché alla reticenza sul proprio operato, attribuisce al giudice la facoltà di valutare il comportamento da questi tenuto durante lo svolgimento del processo, sicché è legittimo il diniego delle attenuanti predette ovvero della declaratoria di prevalenza delle medesime motivato sulla negativa personalità dell'imputato stesso o sulla capacità a delinquere desunta dal

descritto comportamento processuale”191. Per risolvere il problema,

bisognerebbe delineare con precisione il comportamento dell’imputato, che ha esercitato il suo diritto al silenzio, valutabile dal giudice.

Ciò nonostante, resta fermo che, durante la fase istruttoria, l’imputato o indagato debba esercitare il suo diritto al silenzio “a

190 R. Lopez, op. cit.

139 monte”, evitando lo svolgimento dell’interrogatorio, restando, quindi, in silenzio, o non prestando il suo consenso: qui il diritto al silenzio viene ad identificarsi con il “right to not be questioned”. La scelta astensionistica non potrà costituire alcun oggetto di valutazione probatoria e sarà, del resto, considerata come un dato processualmente neutro.

Nella fase dibattimentale, al contrario, il rifiuto a sottoporsi all’esame comporta la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese al P.M. o alla polizia giudiziaria delegata o al giudice. A diversa soluzione si giunge se l’imputato ha avanzato richiesta di esame ovvero ha acconsentito alla richiesta di un’altra parte, e durante l’esame si rifiuti di rispondere ad una o più domande: l’art. 209, comma 2, c.p.p. stabilisce che “se la parte rifiuta di rispondere ad una domanda, ne è fatta menzione nel verbale”. In questo caso, quindi, il comportamento dell’imputato diventa suscettibile di un apprezzamento da parte del giudice. È bene precisare che, data l’accettazione o la richiesta d’esame, l’imputato rinuncia al suo diritto al silenzio e, con ciò, potrà sempre rifiutarsi di rispondere, ma il suo comportamento dovrà essere valutato dal giudice.

Una parte minoritaria della dottrina sostiene, al contrario, che lo ius tacendi non sia dotato di rilevanza probatoria, per quattro motivi: il diritto al silenzio risulterebbe aggirato se il rifiuto di rispondere fosse in un qualche modo utilizzato contro l’interessato; non ha senso una

140 disparità di trattamento in relazione all’esercizio del diritto considerato in sede di interrogatorio ed esame dibattimentale, dal momento che tali istituti sono identici; considerando argomento di prova il silenzio si avrebbe un’ingiustificata equiparazione tra indagato o imputato e testimone; infine, il silenzio come argomentum probatorio si presterebbe ai più disparati modi di utilizzo.

Tali argomentazioni sono poco condivisibili e facilmente contestabili, soprattutto quella in cui si ritiene che interrogatorio ed esame siano istituti sostanzialmente identici. Difatti, l’interrogatorio deve essere considerato un mezzo difensivo, contrariamente all’esame, che rimane un procedimento istruttorio; inoltre, l’interessato non può sottrarsi all’interrogatorio, in virtù di quanto previsto dall’art. 376 c.p.p., mentre può rifiutarsi di essere sottoposto all’esame, come stabilito dall’art. 503, comma 1 c.p.p. Gli istituti hanno, quindi, un diverso regime giuridico.

Relativamente al procedimento di cui all’artt. 208 e 209 c.p.p., la parte può giovarsi del diritto al silenzio, evitando l’espletamento dell’atto. Dal momento in cui lo accetta, invero, non può poi eludere le domande né pretendere il suo silenzio; nessuna delle condotte la esporrà ad incriminazione, ma con ciò non si può escludere che il suo comportamento sarà valutato, anche negativamente, per fini probatori, poiché è lo stesso interessato che si è esposto a questo rischio accettando o richiedendo l’esame.

141 Tuttavia, in sede di interrogatorio investigativo, l’art. 65, comma 3 c.p.p. prevede la trascrizione nel verbale del rifiuto di rispondere ad una o più domande da parte dell’interessato. Ci si chiede, quindi, se si può concludere per un apprezzamento in malam partem del silenzio anche in questa sede; a tale quesito si deve rispondere negativamente. Innanzitutto, si deve precisare che in sede di interrogatorio, l’esercizio dello ius tacendi non evita al pervenuto la sottoposizione all’atto, essendo previsto l’accompagnamento coattivo; il soggetto, inoltre, prima dello svolgimento, riceve l’avviso della facoltà di esercitare il suo diritto, in virtù di cui può scegliere se avanzare un rifiuto totale a prescindere dalle domande postegli ovvero se non rispondere successivamente all’ascolto della domanda. In aggiunta, si può sostenere che le modalità di svolgimento dell’interrogatorio sono regolate in funzione della sua natura come mezzo di difesa, dimostrata inoltre dalla collocazione sistematica all’interno del codice di rito. In conclusione, quindi, si sostiene che “un'eventuale ‘valorizzazione’ a fini probatori (o anche, soltanto, procedimentali) del silenzio, totale o parziale, mantenuto in sede d'interrogatorio sarebbe incongrua non solo rispetto alla regolamentazione ed alla collocazione sistematica di tale istituto nel codice di rito penale, ma altresì con riferimento alla ratio in

vista della quale il medesimo istituto è stato ‘pensato’”192.

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