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Il rapporto tra il diritto al silenzio e il mendacio

3 2 Un possibile attrito con le scelte dell’ordinamento

Capitolo 4: Gli spazi dell’autodifesa nel processo penale italiano

4.3 La garanzia del principio nemo tenetur se detegere

4.3.2 Il rapporto tra il diritto al silenzio e il mendacio

Una parte autorevole della dottrina193, a cui si è affiancata anche

la Corte di Cassazione, ha, da sempre, sostenuto che il principio del nemo tenetur se detegere comprendesse al suo interno sia il diritto al silenzio sia quello che è stato definito diritto di mentire. Altra parte, al contrario, ritiene che, assimilando il mendacio al silenzio, si commetta un’inesattezza; difatti, mentre il primo comportamento è espressamente tutelato, sia a livello costituzionale sia a livello di legislazione ordinaria, il silenzio, come visto, non lo è (esplicitamente). Sicuramente non vi è dubbio che il diritto di mentire sia del tutto ricollegabile all’autodifesa, costituendone uno dei diversi modi di espressione, nel caso in cui sia strettamente funzionale alla discolpa sul fatto proprio.

L’assimilazione del mendacio al silenzio sarebbe contraddetta dalla stessa parte della dottrina che la sostiene, in quanto questa afferma che l’interessato, in sede di interrogatorio, possa mentire fatti salvi i casi

193 Vedere F. Cordero, Procedura Penale, 1987; V. Grevi, Nemo tenetur se

detegere, 1972; D. Barbieri, Interrogatorio nel processo penale, in Dig. disc. pen.,

143 di calunnia e autocalunnia; se, infatti, fosse riconosciuto il diritto di mentire, le accuse mosse nei confronti di una persona, che l’interessato sa essere innocente, o nei propri confronti, dovrebbero essere sempre giustificate dall’esimente di cui all’art. 51 c.p.

Ulteriore caso in cui l’indagato o l’imputato ha l’obbligo di rispondere secondo verità è previsto in ordine alle sue generalità, dall’art. 66 c.p.p., e, in aggiunta, è munito di tutela sostanziale dalle norme incriminatrici di cui agli artt. 495, comma 2 n.2 e 651 c.p. Ecco, “tale regime sarebbe da considerare (anzi, sarebbe dovuto essere considerato) senz'altro incostituzionale, se il diritto al silenzio avesse (o avesse avuto), di per sé, un ambito d'operatività tale da comprendere,

sempre, la facoltà di mentire”194. La Corte Costituzionale si espresse su

tale questione, stabilendo che, in ordine alle domande da rivolgere all’indagato o imputato relativamente ai suoi precedenti penali, la stessa disposizione di cui all’art. 25 disp. att. c.p.p. 1930, pur se coordinata con l’art. 495, comma 2, n.2 c.p., non determinasse alcun obbligo di verità per l’interessato e che, se questo avesse parlato, le sue risposte avrebbero

dovuto essere veritiere195. La distinzione tra silenzio e mendacio risulta,

quindi, ben delineata, in quanto l’imputato può scegliere, anche in questo caso, di non rispondere, avvalendosi del suo diritto al silenzio,

194 P. Moscarini, op. cit., in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 195 Corte Costituzionale, Sentenza n. 108/76.

144 ma dal momento in cui decide di pronunciarsi, egli ha l’obbligo di rispondere la verità.

Tuttavia, se si guarda al concreto, non può sfuggire che tale distinzione risulta sfumata e poco efficace: si pensi al caso in cui l’indagato, pur essendo a conoscenza del suo diritto al silenzio, decida di rispondere alle domande incriminanti dell’autorità giudiziaria per timore che il suo silenzio possa essere interpretato come una tacita confessione; “ove, nella fattispecie, il tacere fosse la sola alternativa ad un'esplicita ammissione di colpevolezza, sarebbe menomata proprio quella libertà d'autodeterminarsi nell'opzione tra il rispondere o non che costituisce il ‘bene’ effettivamente garantito dalle norme pattizie e

costituzionali da cui scaturisce il nemo tenetur se detegere”196. Lo stesso

vale per quelle situazioni in cui la “volontà” di autodifesa implica una smentita, magari falsa, delle accuse provenienti da altri soggetti, tale da configurarsi come una dichiarazione accusatoria contro quest’ultimi.

Dunque, se la menzogna non è in tutto assimilabile al silenzio, è certo, allo stesso tempo, che essa può rappresentare una diversa forma di autodifesa giudiziaria, esercitata in forma attiva, al contrario del comportamento taciturno, e rientrare così nell’ambito di tutela dell’art. 24, comma 2 Cost. Occorre precisare, tuttavia, che il mendacio è senz’altro legittimo e tutelato costituzionalmente nel caso riguardi il fatto proprio dell’imputato, per esempio, nel caso di negazione delle

145 accuse mossegli, con allegazione di un falso alibi, ma non è tale nel caso in cui si riferisca al fatto altrui, e la sua regolamentazione è affidata al legislatore ordinario.

4.4 La confessione

Un’ulteriore espressione del diritto di autodifesa dell’imputato è la confessione, posto che, con essa, l’imputato contribuisce alla ricostruzione dei fatti a favore dell’apporto conoscitivo dell’accusa. Essa è espressione del diritto di autodifesa per il fatto che, con essa, la persona sottoposta alle indagini dichiara all’autorità giudiziaria di aver commesso un reato ovvero asseconda le accuse avanzate nei suoi confronti, attraverso una scelta che deve essere libera. La confessione, difatti, deve essere definita come “la volontaria dichiarazione, o

ammissione, (…) circa la commissione di un reato”197.

Attraverso tale dichiarazione, l’imputato contribuisce attivamente alla ricostruzione dei fatti, collaborando, quindi, con l’autorità giudiziaria. Tuttavia, tale volontà deve essere frutto di una scelta libera dell’imputato, non essendo previsto, a suo carico, nessun obbligo di testimonianza, né, tantomeno, di collaborazione con i suoi accusatori.

146 Da sempre, la dottrina ha ritenuto che la confessione, per essere ritenuta effettiva, debba avere tre requisiti: verosimiglianza, possibilità o probabilità e validità; i presupposti di validità riguardano la figura del soggetto (maggiore età, consapevolezza degli effetti del proprio agire, possibilità di manifestare la propria volontà in maniera comprensibile ed inequivoca), il locus, in quanto deve essere resa durante il procedimento, ed, infine, la spontaneità, dal momento che l’interessato deve averla resa in assenza di qualsiasi coartazione fisica e/o psichica.

È bene precisare, sin da subito, che nel nostro sistema processuale, la confessione assume rilevanza in riferimento al giudizio direttissimo, essendo condizione per l’instaurazione del rito speciale, come previsto dall’art. 449, comma 5 c.p.p.; in tutti gli altri casi, l’ordinamento guarda alla confessione come un indizio, avendo questa perso il carattere di “prova regina”, che aveva all’interno del precedente sistema inquisitorio, e nel “processo di parti rimane neutrale rispetto alla confessione, che non possiede efficacia se disgiunta nella sua

valutazione da ulteriori elementi di riscontro”198. Il giudice, ai fini

dell’accertamento dei fatti, non può basarsi esclusivamente sulle indicazioni fornite dall’imputato dal momento che questo, per esempio, potrebbe non aver detto la verità essendo prevista la facoltà di mentire, potrebbe aver avuto una percezione dei fatti difforme dalla realtà delle cose o potrebbe dire la verità, tralasciando, però, elementi rilevanti. Il

147 giudice deve, perciò, fondare la sua decisione su quel quid pluris emergente dalle indagini svolte, che potrebbe confermare o rinnegare le dichiarazioni dell’accusato.

Il legislatore, nella stesura del codice dell’88, oltre a dare piena attuazione della garanzia costituzionale dell’art. 24, comma 2, ha consacrato il principio secondo cui l‘imputato non può costituire una fonte di prova contra se, “espressione di una fondamentale esigenza di civiltà giuridica, prima ancora che un canone irrinunciabile in un processo di parti”199.

All’interno del giudizio direttissimo, le dichiarazioni confessorie assumono rilevanza per il fatto che rendono evidente la prova e devono, perciò, possedere tutti i requisiti che assicurino la loro attendibilità; devono essere spontanee, complete, intrinsecamente ed estrinsecamente attendibili, apparentemente strumentali e non depistanti, non contrastate da altri atti di indagine. In questo caso risultano superflui sia ulteriori atti di indagine, sia il controllo della fondatezza dell’imputazione in udienza preliminare.

Una parte minoritaria della dottrina200 ha ritenuto la confessione

assimilabile alla testimonianza, incorrendo, tuttavia, in un errore; la

199 M. Ceresa Gastaldo, Diritto al silenzio, aspettative di "collaborazione"

dell'imputato e controlli sull'impiego della custodia cautelare, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1993, pag. 1161

200 Secondo Carnelutti, la confessione andrebbe assunta come “testimonianza della

148 testimonianza presuppone il testimone, su cui incombe l’obbligo di pronunciarsi secondo verità, mentre la confessione si connette all’imputato, nei confronti di cui, come precedentemente visto, è prevista la facoltà di mentire, al di fuori delle cause previste dalla legge.