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Disciplina giuridica delle commesse di ricerca

IL CONTRATTO DI RICERCA

2.  Tipologia dei contratti di ricerca

2.1.  Le commesse di ricerca

2.1.1.  Disciplina giuridica delle commesse di ricerca

2.1.1. Disciplina giuridica delle commesse di ricerca    La dottrina qualifica le commesse di ricerca talvolta come contratti d’opera ex art.  2222 c.c., argomentando dall’autonomia riconosciuta al ricercatore nell’esecuzione del  contratto nonché facendo leva sulla circostanza in base alla quale egli, secondo quanto         21  G. Aghina, op. cit., 299. 

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normalmente stabilito nella prassi contrattuale, non risponde della produzione dei suoi  risultati,  talaltra  come  appalto  ex  art.  1655  c.c.,  partendo  dalla  constatazione  che  normalmente la ricerca è affidata a imprese o Istituti pubblici i quali, per definizione,  posseggono  un’organizzazione  di  mezzi  e  uomini  tale  da  far  sì  che  sia  il  ricercatore  stesso ad accollarsi i rischi dell’impresa. 

Il  contratto  d’appalto  e  il  contratto  d’opera  nel  codice  previgente  venivano  ricondotti nella categoria unitaria della locatio; nella legislazione attuale, invece, le due  figure  giuridiche  hanno  assunto  un’autonoma  configurazione  formando,  altresì,  oggetto di una distinta disciplina. Tuttavia, i due negozi presentano ancora elementi in  comune  dovuti  alla  comune  matrice  da  cui  hanno  avuto  origine:  innanzitutto  la  corrispettività delle prestazioni, in secondo luogo l’indipendenza del debitore, e infine  la correlativa assunzione del rischio economico. Ciò che secondo la giurisprudenza e la  dottrina maggioritarie contraddistingue il contratto d’appalto dal contratto d’opera è  l’entità  dei  mezzi  utilizzata  per  conseguire  il  risultato  promesso:  l’appalto,  infatti,  presuppone l’esistenza di un’organizzazione a carattere imprenditoriale con prevalente  impegno  di  lavoro  subordinato;  il  contratto  d’opera  si  svolge  mediante  il  lavoro  prevalentemente proprio dell’assuntore e dei membri della sua famiglia.22 

Al  criterio  distintivo  descritto  fa  eccezione  il  contratto  d’opera  intellettuale  di  cui  all’art.  2230  c.c.  il  quale,  anche  se  la  prestazione  viene  eseguita  mediante  un’organizzazione  di  impresa,  non  può  mai  configurarsi  come  un  appalto  in  ragione  della peculiarità della natura e  della prestazione in esso dedotta23

Per quanto riguarda l’appalto, in particolare, la nozione di tale tipo contrattuale è  fornita dall’art. 1655 c.c., che lo definisce “contratto col quale una parte assume, con  organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di  un’opera  o  di  un  servizio  verso  un  corrispettivo  in  denaro”.  Si  tratta,  dunque,  di  un  contratto a prestazioni corrispettive con il quale l’assunzione da parte dell’appaltatore  dell’obbligo  di  compiere  un’opera  o  un  servizio  a  favore  del  committente,  viene  compensata con un corrispettivo in denaro.  

Ma l’elemento caratterizzante il  tipo  è costituito dall’obbligazione di compimento  di  un’opera  o  di  un  servizio  con  assunzione  del  rischio  del  risultato,  il  che  configurerebbe  l’impegno  negoziale  dell’assuntore  come  obbligazione  di  risultato.        

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  G.  Iudica,  D.  Rubino,  Appalto,  in  Commentario  del  codice  civile  Scialoja‐Branca,  art.  1655‐1677,  Bologna‐Roma 2007, 27‐28. Precisa l’autore che in realtà anche i prestatori d’opera di cui all’art. 2222  c.c., quando si tratta di opere o servizi materiali, sono piccoli imprenditori ai sensi dell’art. 2083, per cui  quando si parla di organizzazione imprenditoriale, al fine di segnare il confine sostanziale fra appalto e  contratto  d’opera,  occorre  specificare  che  l’espressione  allude  esclusivamente  alla  media  e  grande  impresa. 

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Altro  elemento  caratterizzante  è  quello  dell’organizzazione  dei  mezzi  occorrenti  per  l’adempimento di detta obbligazione24

In  relazione  alle  gestione  a  proprio  rischio,  c’è  subito  da  precisare  che  il  rischio  insito nell’appalto è un rischio economico, inerente al normale rischio d’impresa, che  non ha nulla a che vedere con il rischio giuridico che caratterizza il contratto aleatorio.  Il rischio dell’appaltatore, infatti, è il rischio del lavoro, cioè il costo effettivo dell’opera  o del servizio rispetto al costo originariamente previsto e calcolato nel prezzo. Dunque,  la gestione a proprio rischio implica e sottintende che, normalmente, l’appaltatore non  ha  diritto  ad  aumenti  del  corrispettivo  pattuito,  anche  se  il  costo  effettivo  dell’opera  supera quello previsto e calcolato25

L’organizzazione  dei  mezzi  necessari,  invece,  va  intesa  nel  senso  che  le  scelte  relative ai fattori della produzione ‐ dunque a persone, capitali, beni e diritti ‐ ed allo  loro  modularità  all’interno  dell’impresa,  fanno  totalmente  carico  all’appaltatore,  il  quale  ha  il  diritto‐dovere  di  organizzarli  autonomamente.  È  proprio  in  relazione  a  questo aspetto che l’appalto si definisce un “contratto d’impresa”26 . 

Una  parte  della  dottrina,  adduce  l’impossibilità  di  equiparare  sotto  il  profilo  giuridico la ricerca scientifica alla prestazione dovuta dall’appaltatore assumendo che  la  prima,  in  quanto  attività  intellettuale,  sarebbe  strettamente  personale,  mentre  la  seconda, in quanto attività d’impresa, avrebbe carattere impersonale; e ancora che la  ricerca  scientifica,  per  la  sua  natura  essenzialmente  aleatoria,  si  esaurisce  nella  prestazione  di  una  condotta,  mentre  la  prestazione  dovuta  dall’appaltatore  comprende  anche  il  conseguimento  di  un  certo  risultato.  Ma  allo  stesso  tempo,  osserva  come  nessuno  dei  suddetti  rilievi  sarebbe  decisivo  contro  la  fondatezza  del  richiamo all’appalto27.         24  L.V. Moscarini, Il contratto di appalto e le figure affini, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno‐ E. Gabrielli, I, contratti di appalto privato, Milano 2011, 9‐10.  25  M.C. Cervale, La struttura dell’appalto, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno‐E. Gabrielli, I,  contratti  di  appalto  privato,  Milano  2011,  105‐106.  Il  contratto  di  appalto  rientra  nella  categoria  dei  contratti  commutativi  in  cui  i  contraenti  sin  dal  momento  della  conclusione  del  contratto  sanno,  o  almeno prevedono, l’entità obiettiva dell’altrui prestazione ma non il valore economico della stessa. Nel  senso  che  l’entità  obiettiva  delle  prestazioni  delle  due  parti  è  sempre  determinata  o  almeno  determinabile  in  base  a  criteri  obiettivi  prestabiliti  e  non  in  funzione  di  fatti  futuri  e  incerti.  Si  differenziano dai contratti aleatori perché in questi ultimi il guadagno o la perdita di  una delle parti è  rimessa al caso, all’alea, a qualcosa di oggettivamente imprevedibile. Nel contratto aleatorio, è incerta  l’entità obiettiva della prestazione che, per una delle due parti, può addirittura essere inesistente. 

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  M.C.  Cervale,  op.  cit.,  103‐104.  L’appaltatore  deve  necessariamente  essere  un  imprenditore  la  cui  attività  si  esplica  nel  dirigere  e  coordinare  i  lavori  e  quindi  nel  procurarsi  i  capitali  necessari  ed  i  materiali, nell’assumere gli operai o nell’utilizzare il proprio personale, nel sorvegliare i lavori e curare i  rapporti con i terzi. 

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Nel dimostrare come il carattere intellettuale dell’attività oggetto del contratto e la  sua  natura  tipicamente  aleatoria  non  valgano  ad  escludere  la  riconducibilità  delle  commesse di ricerca all’appalto, questa dottrina fa leva su un duplice ordine di ragioni. 

Riguardo alla personalità/impersonalità delle prestazioni dovute, muove dal rilievo  che  il  particolare  impegno  mentale  che  esige  l’attività  di  ricerca  non  impedisce  alla  ricerca  scientifica  di  divenire  oggetto  di  un  appalto  ma,  tuttalpiù,  giustifica  qualche  adattamento  della  disciplina  dettata  per  la  prestazione  dell’appaltatore  alla  specifica  natura dell’attività investigativa. D’altronde, lo stesso art. 2238, co. 1, c.c. ammette che  una  prestazione  intellettuale  divenga  elemento  di  un’attività  organizzata  in  forma  d’impresa28.  

Riguardo  invece  al  secondo  assunto,  quello  a  tenore  del  quale  le  commesse  non  sarebbero  riconducibili  all’appalto  in  quanto  la  prestazione  del  ricercatore  si  esaurirebbe in una condotta, mentre quella dell’appaltatore comprenderebbe anche il  conseguimento  di  un  certo  risultato,  questi  stessi  autori  rilevano  come  in  realtà  il  contenuto di un obbligo, così come quello di ogni altra situazione giuridica soggettiva,  consiste sempre in una condotta umana; quel che nei diversi contratti varia, dal punto  di vista del debitore, è la natura e l’ampiezza della condotta vincolata, non l’esistenza o  meno  di  un  obbligo  in  ordine  all’effettivo  conseguimento  da  parte  del  creditore  dell’utilità  cui  egli  aspira.  Questo  significa  che  quel  determinato  risultato  che  costituisce  il  fine  pratico  del  rapporto  obbligatorio,  è  giuridicamente  protetto  solo  nella  misura  in  cui  è  vincolabile  e  vincolata  la  condotta  del  debitore  e,  per  conseguenza,  sono  privi  di  tutela  quegli  interessi  in  funzione  del  cui  soddisfacimento  non  viene  vincolata  alcuna  condotta.  Con  quanto  detto,  la  tesi  dottrinaria  in  commento non intende escludere che sul debitore possa gravare il rischio del mancato  conseguimento  di  un  certo  risultato  da  parte  del  creditore,  ma  vuole  piuttosto  evidenziare che la garanzia di tale evento da parte del debitore costituisce un effetto  giuridico  ulteriore  rispetto  all’obbligo  di  prestazione,  e  che  sussiste  solo  se  ed  in  quanto sia specificamente prevista dalla legge o dal contratto29

      

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  M.  Basile,  op.  cit.,  440.  Il  carattere  intellettuale  di  un’iniziativa  non  esclude  che  essa,  se  ha  valore  economico, prenda forma di impresa; d’altronde, è la legge stessa che prevede vere e proprie società di  ricerca 

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  M.  Basile,  op.  cit.,  440‐441.  L’assunto  secondo  il  quale  le  commesse  non  sarebbero  riconducibili  all’appalto  perché  la  prestazione  del  ricercatore  si  esaurirebbe  in  una  condotta  mentre  quella  dell’appaltatore  comprenderebbe  anche  il  conseguimento  di  un  certo  risultato,  fa  leva  su  presupposti  teorici che attingono all’esperienza culturale di altri Paesi, e in particolare dalla Germania. L’assunto, in  particolare, presuppone che si debbano distinguere i contratti aventi ad oggetto la prestazione di una  certa condotta da quelli aventi ad oggetto il conseguimento di un certo risultato: ovvero, che si debbano  distinguere  delle  obbligazioni  di  mezzi,  in  cui  il  debitore  risponderebbe  verso  il  creditore  solo  dell’esecuzione  del  proprio  comportamento,  e  delle  obbligazioni  di  risultato,  in  cui  invece  il  debitore  risponderebbe anche del verificarsi dei risultati del proprio comportamento. Ed è su questi presupposti 

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Secondo  la  suesposta  ricostruzione,  dunque,  il  carattere  aleatorio  proprio  delle  attività  previste  nel  programma  di  ricerca  oggetto  del  contratto  non  impedirebbe  di  ricondurre  le  commesse  all’appalto,  per  un  duplice  ordine  di  ragioni:  in  primo  luogo,  anche  nelle  commesse  il  raggiungimento  dei  risultati  della  prestazione  costituisce  il  fine del rapporto obbligatorio; inoltre, nulla esclude che il ricercatore garantisca anche  il  raggiungimento  di  certi  risultati,  specialmente  quando  il  tasso  di  aleatorietà  delle  indagini sia relativamente basso30.  

Il  contratto  d’opera,  invece,  è  definito  dall’art.  2222  c.c.  come  quel  contratto  col  quale una persona si obbliga a compiere un’opera o un servizio verso un corrispettivo,  con  lavoro  prevalentemente  proprio  e  senza  vincolo  di  subordinazione,  nei  confronti  del  committente.  La  prestazione  del  ricercatore,  più  precisamente,  viene  qualificata  dalla dottrina maggioritaria come prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 c.c., la  cui  disciplina  ricalca  sostanzialmente  quella  prevista  per  il  contratto  d’opera,  eccetto  talune disposizioni che si ricollegano al necessario obbligo di iscrizione in appositi albi o  elenchi,  nonché  per  quanto  riguarda  la  diligenza  richiesta  nell’operato  del  buon  professionista.  

In  ordine  alla  prima  eccezione,  un’attenta  dottrina  ha  ritenuto  di  precisare  che  ai  fini della qualificazione data è ininfluente l’iscrizione del ricercatore esercente attività  intellettuale in un albo professionale. Secondo la prevalente dottrina, invero, le norme  di  cui  agli  artt.  2230  e  ss.  c.c.,  si  applicano  ad  ogni  contratto  d’opera  intellettuale  indipendentemente  dall’esistenza  della  c.d.  “protezione”  delle  professioni.  Se  è  vero  che spesso il ricercatore è iscritto in un albo professionale, il che costituisce prova della  specifica  capacità  e  qualifica  professionale,  ciò  non  vale  infatti  per  tutti  i  settori:  si  pensi ad esempio ai fisici, che addirittura non hanno albi professionali31.  

Il  contratto  d’opera  intellettuale  si  distingue  nettamente  dal  contratto  d’opera  manuale,  in  quanto  le  obbligazioni  inerenti  l’esercizio  di  un’attività  professionale,  di  regola,  sono  obbligazioni  di  mezzi  e  non  di  risultati,  in  quanto  il  professionista,  assumendo  l’incarico,  si  impegna  a  prestare  la  propria  opera  per  raggiungere  il  risultato desiderato ma non anche a conseguirlo, mentre l’obbligazione del prestatore  d’opera manuale è un obbligazione di risultato32

       che  si  ritiene  che  la  ricerca  scientifica  possa  rientrare  solo  in  un  “contratto  di  attività”  ovvero  in  un  contratto dal quale derivi un’obbligazione di mezzi.  30  M. Basile, op. cit., 442.  31  A. Nuzzo, op. cit., 546.  32

  F.  Gazzoni,  Manuale  di  diritto  privato,  Napoli  2011,  1169.  Quando  la  prestazione  professionale  si  risolve in un’opera, tuttavia, l’obbligazione è di risultato, come nel caso di un progetto architettonico o  una protesi dentaria. 

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Ed  è  proprio  facendo  leva  sulla  modalità  con  la  quale  si  configura  la  prestazione  oggetto del contratto che una parte della dottrina ha tentato di superare le difficoltà di  inquadramento  sistematico  delle  commesse  di  ricerca,  rilevando  che,  soprattutto  quando si tratti di ricerca applicata e di ricerca fondamentale, la prestazione consiste  in  un  obbligazione  di  mezzi  in  quanto  il  risultato  inventivo  non  costituisce  elemento  essenziale del contratto; è più frequente invece nei contratti di ricerca e sviluppo che il  ricercatore  accetti  che  il  contratto  preveda  un  obbligo  anche  di  risultato.  In  tali  casi,  infatti, in base al tipo di attività da svolgere è ben possibile che il risultato possa essere  ragionevolmente conseguito con adeguato impiego di mezzi, di materiali e di tempo. 

La  soluzione  proposta  da  questa  dottrina  al  riguardo,  è  quella  di  ricondurre  i  contratti di ricerca con obbligo di mezzi ai contratti d’opera intellettuale e i contratti di  ricerca con obbligo di risultato ai contratti di appalto o di opera33

Altra dottrina, invece, propone quale criterio discretivo per l’applicazione dell’una o  dell’altra  disciplina  la  complessità  dell’opera  o  del  servizio  da  compiere,  e  quindi  dell’impegno  che  esige  la  loro  esecuzione.  Se  ne  desume  che,  quando  il  bene  cui  il  committente  aspira  può  essere  compiuto  con  mezzi  materiali  e  personali  relativamente  semplici,  si  farà  ricorso  al  contratto  d’opera  ed  alla  relativa  disciplina;  quando  il  bene  cui  si  tende  può  essere  compiuto  solo  mediante  una  consistente  organizzazione  di  mezzi  e  di  persone,  allora  si  applicherà  la  disciplina  relativa  al  contratto d’appalto, qualificandosi la fattispecie nell’ambito di tale tipo contrattuale.  

Occorre  notare,  tuttavia,  che  nella  pratica  la  linea  di  confine  tra  i  due  contratti  è  molto  sfuggente,  e  soprattutto  che,  come  abbiamo  visto,  sussistono  alcune  non  trascurabili  differenze  tra  le  stesse  commesse  di  ricerca,  dunque,  a  prescindere  dall’adesione all’una o all’altra delle suesposte tesi, sembra ragionevole non ricondurre  tutte le commesse di ricerca all’appalto o al contratto d’opera, bensì valutare di volta  in  volta  l’opportunità  di  un  accostamento  all’uno  o  all’altro  schema  a  seconda  della  prestazione  di  ricerca  programmata  e  della  qualità  del  soggetto  investito  della  sua  esecuzione34

Il  problema,  semmai,  potrebbe  porsi  in  quelle  ipotesi  in  cui  il  regolamento  negoziale sia incompleto. La dottrina, in proposito, ha fornito alcuni indici mediante i  quali risalire alla presumibile volontà delle parti e da qui al tipo negoziale nominato più  affine dal quale trarre le regole mancanti. Ad esempio, se l’obbligo di porre in essere la  prestazione di ricerca viene adempiuto dal ricercatore per il tramite del proprio lavoro         33  G. Aghina, op. cit., 290‐291.  34

  M.  Basile,  op.  cit.,  439‐440,  fa  notare  che  nella  pratica  la  tendenza  alla  “spersonalizzazione”  e  alla  multidisciplinarietà  della  ricerca,  così  come  il  continuo  aumento  dei  suoi  costi,  hanno  portato  alla  progressiva  riduzione  delle  ipotesi  in  cui  le  commesse  abbiano  i  connotati  del  contratto  d’opera  intellettuale, e l’aumento delle ipotesi in cui esse si presentano come appalti. 

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autonomo  con  l’utilizzo  di  mezzi  materiali  semplici,  dovrà  essere  richiamata  la  disciplina  del  contratto  d’opera;  laddove  la  ricerca,  per  la  sua  intrinseca  complessità,  richieda un’organizzazione imprenditoriale di mezzi e di uomini,  si verterà in tema di  contratto d’appalto, sempre che dal regolamento negoziale sia possibile evincere che  la gestione dell’attività di ricerca sia a rischio del ricercatore35

A  noi  sembra  che  le  commesse  di  ricerca  presentino  maggiori  affinità  con  il  contratto d’opera intellettuale piuttosto che con l’appalto, e ci sentiamo di dissentire  da  quella  dottrina  che  vorrebbe  sussumere  le  commesse  e  la  relativa  disciplina  giuridica all’interno di tale tipo negoziale.  

Infatti, se è vero che normalmente il ricercatore è un Ente pubblico di ricerca che  dispone  di  personale  altamente  specializzato,  di  strutture  ed  apparecchiature  sofisticate per svolgere le attività di ricerca commissionate ‐ e dunque ben si potrebbe  sostenere  che  l’Ente  in  questione  organizza  autonomamente  i  mezzi  necessari  per  svolgere  l’attività  di  ricerca  ‐  non  è  raro  che  alle  attività  di  ricerca  partecipi  anche  personale dell’impresa committente, la quale spesso mette a disposizione delle attività  i  propri  macchinari  ed  i  propri  laboratori.  Le  commesse  di  ricerca,  infatti,  spesso  assumono la forma di una vera e propria collaborazione caratterizzata da un reciproco  apporto  delle  parti,  seppure  non  paritetico,  di  personale,  strumenti,  locali  e  attrezzature,  senza  necessariamente  sfociare  in  quelle  che  vengono  chiamate  “collaborazioni  di  ricerca”.  Abbiamo  visto,  infatti,  come  il  confine  fra  la  ricerca  commissionata e la ricerca in collaborazione sia incerto e non ben delimitato, tanto che  risulta  spesso  difficile  dalla  lettura  del  testo  contrattuale  inquadrare  la  fattispecie  nell’una o nell’altra figura negoziale. 

Si vede subito, allora, come le commesse di ricerca siano un contratto a prestazioni  corrispettive  caratterizzate  dal  fatto  che,  per  quanto  riguarda  il  committente,  la  corrispettività non è dovuta solo dal pagamento del prezzo pattuito ma, altresì, dalla  messa a disposizione del ricercatore di una determinata quantità di beni e persone, e,  più  in  generale,  delle  conoscenze  e  delle  competenze  specifiche  di  cui  anche  il  committente stesso dispone.  

Ma  ciò  che  sicuramente  allontana  la  fattispecie  delle  commesse  di  ricerca  dal  contratto di appalto è la prestazione dedotta in oggetto. Il contratto di ricerca, come  abbiamo  visto,  è  un  contratto  caratterizzato  dal  fatto  di  avere  ad  oggetto  una  prestazione  consistente  nel  compimento  di  una  determinata  attività  di  studio  e  di  ricerca che prescinde dai risultati che ne potrebbero derivare. 

      

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L’attività di ricerca, infatti, è per sua natura un’attività imprevedibile, che presenta  dunque  un  certo  grado  di  aleatorietà:  se  è  sicuramente  vero  che  il  committente  è  spinto  a  commissionare  una  certa  attività  di  ricerca  nella  speranza  di  conseguire  un  qualche risultato positivo dall’attività stessa, d’altra parte, al momento dell’assunzione  delle  obbligazioni,  le  parti  sono  ben  consapevoli  del  fatto  che  il  risultato  sperato  potrebbe  non  essere  raggiunto,  tanto  che  un  simile  inciso  è  sempre  presente  nei  contratti  di  ricerca  utilizzati  nella  prassi  degli  Enti  pubblici  di  ricerca.  In  particolare,  negli schemi contrattuali adoperati si rileva con una certa frequenza l’uso di clausole  che  richiamano  l’attenzione  del  committente  sulla  natura  tipicamente  sperimentale  delle  attività  oggetto  della  ricerca,  le  quali,  pertanto,  vengono  eseguite  senza  alcuna  garanzia esplicita o implicita in ordine al conseguimento di un certo risultato. 

Il  committente,  dunque,  si  impegna  a  pagare  un  determinato  corrispettivo  per  la  sola  attività  di  ricerca  e  di  studio  commissionata  in  un  determinato  campo  di  suo  interesse, e non anche per i possibili ed eventuali risultati positivi che ne potrebbero  derivare.  Tant’è  che  i  contratti  prevedono  espressamente,  qualora  dalle  attività  di  ricerca  dovessero  derivare  risultati  suscettibili  di  brevettazione  o  di  sfruttamento  economico, il rinvio ad un apposito atto scritto che ne definisca le modalità di gestione,  di sfruttamento e la definizione dei costi ad essi relativi. In tal senso, possiamo dunque  sostenere  che  l’obbligazione  dedotta  in  prestazione  è  senz’altro  un’obbligazione  di  mezzi e non di risultato. 

Le  argomentazioni  che,  a  nostro  avviso,  giustificano  la  parziale  applicazione  della  normativa  dettata  per  il  contratto  d’opera  intellettuale  in  ragione  dell’affinità  fra  le  due  fattispecie,  sono  incentrate  sull’obbligazione  dedotta  in  prestazione.  Se  questa,  infatti,  consiste  nell’esecuzione  di  un  programma  di  ricerca  prestabilito  dal  committente in comune accordo con il ricercatore, ma non anche nel conseguimento  del  risultato  auspicato,  allora  il  ricercatore  che  non  raggiunge  tale  risultato  non  può  essere considerato inadempiente.  

Ora,  se  l’inadempimento  del  professionista  non  può  essere  desunto  dal  mancato  raggiungimento  del  risultato  sperato  dal  committente,  ne  discende  che  deve  essere  valutato  alla  stregua  dei  doveri  inerenti  lo  svolgimento  dell’attività  professionale,  proprio come accade per il contratto d’opera intellettuale. Ci riferiamo, in particolare,  al dovere di  diligenza c.d. professionale di cui all’art.  1176,  comma 2, c.c.,  per cui, in  luogo del criterio del buon padre di famiglia, a trovare applicazione è il parametro della  diligenza  professionale,  diligenza  che  nell’adempimento  delle  obbligazioni  inerenti  l’esercizio  di  un’attività  professionale  va  valutata  anche  con  riguardo  alla  natura 

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dell’attività espletata, tenuto conto della perizia, dell’abilità e delle conoscenze che un  professionista medio deve possedere in quel determinato campo36.  

L’inadempimento  del  professionista,  altresì,  deve  essere  valutato  alla  stregua  del