IL CONTRATTO DI RICERCA
2. Tipologia dei contratti di ricerca
2.1. Le commesse di ricerca
2.1.1. Disciplina giuridica delle commesse di ricerca
2.1.1. Disciplina giuridica delle commesse di ricerca La dottrina qualifica le commesse di ricerca talvolta come contratti d’opera ex art. 2222 c.c., argomentando dall’autonomia riconosciuta al ricercatore nell’esecuzione del contratto nonché facendo leva sulla circostanza in base alla quale egli, secondo quanto 21 G. Aghina, op. cit., 299.
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normalmente stabilito nella prassi contrattuale, non risponde della produzione dei suoi risultati, talaltra come appalto ex art. 1655 c.c., partendo dalla constatazione che normalmente la ricerca è affidata a imprese o Istituti pubblici i quali, per definizione, posseggono un’organizzazione di mezzi e uomini tale da far sì che sia il ricercatore stesso ad accollarsi i rischi dell’impresa.
Il contratto d’appalto e il contratto d’opera nel codice previgente venivano ricondotti nella categoria unitaria della locatio; nella legislazione attuale, invece, le due figure giuridiche hanno assunto un’autonoma configurazione formando, altresì, oggetto di una distinta disciplina. Tuttavia, i due negozi presentano ancora elementi in comune dovuti alla comune matrice da cui hanno avuto origine: innanzitutto la corrispettività delle prestazioni, in secondo luogo l’indipendenza del debitore, e infine la correlativa assunzione del rischio economico. Ciò che secondo la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie contraddistingue il contratto d’appalto dal contratto d’opera è l’entità dei mezzi utilizzata per conseguire il risultato promesso: l’appalto, infatti, presuppone l’esistenza di un’organizzazione a carattere imprenditoriale con prevalente impegno di lavoro subordinato; il contratto d’opera si svolge mediante il lavoro prevalentemente proprio dell’assuntore e dei membri della sua famiglia.22
Al criterio distintivo descritto fa eccezione il contratto d’opera intellettuale di cui all’art. 2230 c.c. il quale, anche se la prestazione viene eseguita mediante un’organizzazione di impresa, non può mai configurarsi come un appalto in ragione della peculiarità della natura e della prestazione in esso dedotta23.
Per quanto riguarda l’appalto, in particolare, la nozione di tale tipo contrattuale è fornita dall’art. 1655 c.c., che lo definisce “contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”. Si tratta, dunque, di un contratto a prestazioni corrispettive con il quale l’assunzione da parte dell’appaltatore dell’obbligo di compiere un’opera o un servizio a favore del committente, viene compensata con un corrispettivo in denaro.
Ma l’elemento caratterizzante il tipo è costituito dall’obbligazione di compimento di un’opera o di un servizio con assunzione del rischio del risultato, il che configurerebbe l’impegno negoziale dell’assuntore come obbligazione di risultato.
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G. Iudica, D. Rubino, Appalto, in Commentario del codice civile Scialoja‐Branca, art. 1655‐1677, Bologna‐Roma 2007, 27‐28. Precisa l’autore che in realtà anche i prestatori d’opera di cui all’art. 2222 c.c., quando si tratta di opere o servizi materiali, sono piccoli imprenditori ai sensi dell’art. 2083, per cui quando si parla di organizzazione imprenditoriale, al fine di segnare il confine sostanziale fra appalto e contratto d’opera, occorre specificare che l’espressione allude esclusivamente alla media e grande impresa.
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Altro elemento caratterizzante è quello dell’organizzazione dei mezzi occorrenti per l’adempimento di detta obbligazione24.
In relazione alle gestione a proprio rischio, c’è subito da precisare che il rischio insito nell’appalto è un rischio economico, inerente al normale rischio d’impresa, che non ha nulla a che vedere con il rischio giuridico che caratterizza il contratto aleatorio. Il rischio dell’appaltatore, infatti, è il rischio del lavoro, cioè il costo effettivo dell’opera o del servizio rispetto al costo originariamente previsto e calcolato nel prezzo. Dunque, la gestione a proprio rischio implica e sottintende che, normalmente, l’appaltatore non ha diritto ad aumenti del corrispettivo pattuito, anche se il costo effettivo dell’opera supera quello previsto e calcolato25.
L’organizzazione dei mezzi necessari, invece, va intesa nel senso che le scelte relative ai fattori della produzione ‐ dunque a persone, capitali, beni e diritti ‐ ed allo loro modularità all’interno dell’impresa, fanno totalmente carico all’appaltatore, il quale ha il diritto‐dovere di organizzarli autonomamente. È proprio in relazione a questo aspetto che l’appalto si definisce un “contratto d’impresa”26 .
Una parte della dottrina, adduce l’impossibilità di equiparare sotto il profilo giuridico la ricerca scientifica alla prestazione dovuta dall’appaltatore assumendo che la prima, in quanto attività intellettuale, sarebbe strettamente personale, mentre la seconda, in quanto attività d’impresa, avrebbe carattere impersonale; e ancora che la ricerca scientifica, per la sua natura essenzialmente aleatoria, si esaurisce nella prestazione di una condotta, mentre la prestazione dovuta dall’appaltatore comprende anche il conseguimento di un certo risultato. Ma allo stesso tempo, osserva come nessuno dei suddetti rilievi sarebbe decisivo contro la fondatezza del richiamo all’appalto27. 24 L.V. Moscarini, Il contratto di appalto e le figure affini, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno‐ E. Gabrielli, I, contratti di appalto privato, Milano 2011, 9‐10. 25 M.C. Cervale, La struttura dell’appalto, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno‐E. Gabrielli, I, contratti di appalto privato, Milano 2011, 105‐106. Il contratto di appalto rientra nella categoria dei contratti commutativi in cui i contraenti sin dal momento della conclusione del contratto sanno, o almeno prevedono, l’entità obiettiva dell’altrui prestazione ma non il valore economico della stessa. Nel senso che l’entità obiettiva delle prestazioni delle due parti è sempre determinata o almeno determinabile in base a criteri obiettivi prestabiliti e non in funzione di fatti futuri e incerti. Si differenziano dai contratti aleatori perché in questi ultimi il guadagno o la perdita di una delle parti è rimessa al caso, all’alea, a qualcosa di oggettivamente imprevedibile. Nel contratto aleatorio, è incerta l’entità obiettiva della prestazione che, per una delle due parti, può addirittura essere inesistente.
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M.C. Cervale, op. cit., 103‐104. L’appaltatore deve necessariamente essere un imprenditore la cui attività si esplica nel dirigere e coordinare i lavori e quindi nel procurarsi i capitali necessari ed i materiali, nell’assumere gli operai o nell’utilizzare il proprio personale, nel sorvegliare i lavori e curare i rapporti con i terzi.
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Nel dimostrare come il carattere intellettuale dell’attività oggetto del contratto e la sua natura tipicamente aleatoria non valgano ad escludere la riconducibilità delle commesse di ricerca all’appalto, questa dottrina fa leva su un duplice ordine di ragioni.
Riguardo alla personalità/impersonalità delle prestazioni dovute, muove dal rilievo che il particolare impegno mentale che esige l’attività di ricerca non impedisce alla ricerca scientifica di divenire oggetto di un appalto ma, tuttalpiù, giustifica qualche adattamento della disciplina dettata per la prestazione dell’appaltatore alla specifica natura dell’attività investigativa. D’altronde, lo stesso art. 2238, co. 1, c.c. ammette che una prestazione intellettuale divenga elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa28.
Riguardo invece al secondo assunto, quello a tenore del quale le commesse non sarebbero riconducibili all’appalto in quanto la prestazione del ricercatore si esaurirebbe in una condotta, mentre quella dell’appaltatore comprenderebbe anche il conseguimento di un certo risultato, questi stessi autori rilevano come in realtà il contenuto di un obbligo, così come quello di ogni altra situazione giuridica soggettiva, consiste sempre in una condotta umana; quel che nei diversi contratti varia, dal punto di vista del debitore, è la natura e l’ampiezza della condotta vincolata, non l’esistenza o meno di un obbligo in ordine all’effettivo conseguimento da parte del creditore dell’utilità cui egli aspira. Questo significa che quel determinato risultato che costituisce il fine pratico del rapporto obbligatorio, è giuridicamente protetto solo nella misura in cui è vincolabile e vincolata la condotta del debitore e, per conseguenza, sono privi di tutela quegli interessi in funzione del cui soddisfacimento non viene vincolata alcuna condotta. Con quanto detto, la tesi dottrinaria in commento non intende escludere che sul debitore possa gravare il rischio del mancato conseguimento di un certo risultato da parte del creditore, ma vuole piuttosto evidenziare che la garanzia di tale evento da parte del debitore costituisce un effetto giuridico ulteriore rispetto all’obbligo di prestazione, e che sussiste solo se ed in quanto sia specificamente prevista dalla legge o dal contratto29.
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M. Basile, op. cit., 440. Il carattere intellettuale di un’iniziativa non esclude che essa, se ha valore economico, prenda forma di impresa; d’altronde, è la legge stessa che prevede vere e proprie società di ricerca
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M. Basile, op. cit., 440‐441. L’assunto secondo il quale le commesse non sarebbero riconducibili all’appalto perché la prestazione del ricercatore si esaurirebbe in una condotta mentre quella dell’appaltatore comprenderebbe anche il conseguimento di un certo risultato, fa leva su presupposti teorici che attingono all’esperienza culturale di altri Paesi, e in particolare dalla Germania. L’assunto, in particolare, presuppone che si debbano distinguere i contratti aventi ad oggetto la prestazione di una certa condotta da quelli aventi ad oggetto il conseguimento di un certo risultato: ovvero, che si debbano distinguere delle obbligazioni di mezzi, in cui il debitore risponderebbe verso il creditore solo dell’esecuzione del proprio comportamento, e delle obbligazioni di risultato, in cui invece il debitore risponderebbe anche del verificarsi dei risultati del proprio comportamento. Ed è su questi presupposti
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Secondo la suesposta ricostruzione, dunque, il carattere aleatorio proprio delle attività previste nel programma di ricerca oggetto del contratto non impedirebbe di ricondurre le commesse all’appalto, per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, anche nelle commesse il raggiungimento dei risultati della prestazione costituisce il fine del rapporto obbligatorio; inoltre, nulla esclude che il ricercatore garantisca anche il raggiungimento di certi risultati, specialmente quando il tasso di aleatorietà delle indagini sia relativamente basso30.
Il contratto d’opera, invece, è definito dall’art. 2222 c.c. come quel contratto col quale una persona si obbliga a compiere un’opera o un servizio verso un corrispettivo, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione, nei confronti del committente. La prestazione del ricercatore, più precisamente, viene qualificata dalla dottrina maggioritaria come prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 c.c., la cui disciplina ricalca sostanzialmente quella prevista per il contratto d’opera, eccetto talune disposizioni che si ricollegano al necessario obbligo di iscrizione in appositi albi o elenchi, nonché per quanto riguarda la diligenza richiesta nell’operato del buon professionista.
In ordine alla prima eccezione, un’attenta dottrina ha ritenuto di precisare che ai fini della qualificazione data è ininfluente l’iscrizione del ricercatore esercente attività intellettuale in un albo professionale. Secondo la prevalente dottrina, invero, le norme di cui agli artt. 2230 e ss. c.c., si applicano ad ogni contratto d’opera intellettuale indipendentemente dall’esistenza della c.d. “protezione” delle professioni. Se è vero che spesso il ricercatore è iscritto in un albo professionale, il che costituisce prova della specifica capacità e qualifica professionale, ciò non vale infatti per tutti i settori: si pensi ad esempio ai fisici, che addirittura non hanno albi professionali31.
Il contratto d’opera intellettuale si distingue nettamente dal contratto d’opera manuale, in quanto le obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale, di regola, sono obbligazioni di mezzi e non di risultati, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non anche a conseguirlo, mentre l’obbligazione del prestatore d’opera manuale è un obbligazione di risultato32.
che si ritiene che la ricerca scientifica possa rientrare solo in un “contratto di attività” ovvero in un contratto dal quale derivi un’obbligazione di mezzi. 30 M. Basile, op. cit., 442. 31 A. Nuzzo, op. cit., 546. 32
F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2011, 1169. Quando la prestazione professionale si risolve in un’opera, tuttavia, l’obbligazione è di risultato, come nel caso di un progetto architettonico o una protesi dentaria.
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Ed è proprio facendo leva sulla modalità con la quale si configura la prestazione oggetto del contratto che una parte della dottrina ha tentato di superare le difficoltà di inquadramento sistematico delle commesse di ricerca, rilevando che, soprattutto quando si tratti di ricerca applicata e di ricerca fondamentale, la prestazione consiste in un obbligazione di mezzi in quanto il risultato inventivo non costituisce elemento essenziale del contratto; è più frequente invece nei contratti di ricerca e sviluppo che il ricercatore accetti che il contratto preveda un obbligo anche di risultato. In tali casi, infatti, in base al tipo di attività da svolgere è ben possibile che il risultato possa essere ragionevolmente conseguito con adeguato impiego di mezzi, di materiali e di tempo.
La soluzione proposta da questa dottrina al riguardo, è quella di ricondurre i contratti di ricerca con obbligo di mezzi ai contratti d’opera intellettuale e i contratti di ricerca con obbligo di risultato ai contratti di appalto o di opera33.
Altra dottrina, invece, propone quale criterio discretivo per l’applicazione dell’una o dell’altra disciplina la complessità dell’opera o del servizio da compiere, e quindi dell’impegno che esige la loro esecuzione. Se ne desume che, quando il bene cui il committente aspira può essere compiuto con mezzi materiali e personali relativamente semplici, si farà ricorso al contratto d’opera ed alla relativa disciplina; quando il bene cui si tende può essere compiuto solo mediante una consistente organizzazione di mezzi e di persone, allora si applicherà la disciplina relativa al contratto d’appalto, qualificandosi la fattispecie nell’ambito di tale tipo contrattuale.
Occorre notare, tuttavia, che nella pratica la linea di confine tra i due contratti è molto sfuggente, e soprattutto che, come abbiamo visto, sussistono alcune non trascurabili differenze tra le stesse commesse di ricerca, dunque, a prescindere dall’adesione all’una o all’altra delle suesposte tesi, sembra ragionevole non ricondurre tutte le commesse di ricerca all’appalto o al contratto d’opera, bensì valutare di volta in volta l’opportunità di un accostamento all’uno o all’altro schema a seconda della prestazione di ricerca programmata e della qualità del soggetto investito della sua esecuzione34.
Il problema, semmai, potrebbe porsi in quelle ipotesi in cui il regolamento negoziale sia incompleto. La dottrina, in proposito, ha fornito alcuni indici mediante i quali risalire alla presumibile volontà delle parti e da qui al tipo negoziale nominato più affine dal quale trarre le regole mancanti. Ad esempio, se l’obbligo di porre in essere la prestazione di ricerca viene adempiuto dal ricercatore per il tramite del proprio lavoro 33 G. Aghina, op. cit., 290‐291. 34
M. Basile, op. cit., 439‐440, fa notare che nella pratica la tendenza alla “spersonalizzazione” e alla multidisciplinarietà della ricerca, così come il continuo aumento dei suoi costi, hanno portato alla progressiva riduzione delle ipotesi in cui le commesse abbiano i connotati del contratto d’opera intellettuale, e l’aumento delle ipotesi in cui esse si presentano come appalti.
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autonomo con l’utilizzo di mezzi materiali semplici, dovrà essere richiamata la disciplina del contratto d’opera; laddove la ricerca, per la sua intrinseca complessità, richieda un’organizzazione imprenditoriale di mezzi e di uomini, si verterà in tema di contratto d’appalto, sempre che dal regolamento negoziale sia possibile evincere che la gestione dell’attività di ricerca sia a rischio del ricercatore35.
A noi sembra che le commesse di ricerca presentino maggiori affinità con il contratto d’opera intellettuale piuttosto che con l’appalto, e ci sentiamo di dissentire da quella dottrina che vorrebbe sussumere le commesse e la relativa disciplina giuridica all’interno di tale tipo negoziale.
Infatti, se è vero che normalmente il ricercatore è un Ente pubblico di ricerca che dispone di personale altamente specializzato, di strutture ed apparecchiature sofisticate per svolgere le attività di ricerca commissionate ‐ e dunque ben si potrebbe sostenere che l’Ente in questione organizza autonomamente i mezzi necessari per svolgere l’attività di ricerca ‐ non è raro che alle attività di ricerca partecipi anche personale dell’impresa committente, la quale spesso mette a disposizione delle attività i propri macchinari ed i propri laboratori. Le commesse di ricerca, infatti, spesso assumono la forma di una vera e propria collaborazione caratterizzata da un reciproco apporto delle parti, seppure non paritetico, di personale, strumenti, locali e attrezzature, senza necessariamente sfociare in quelle che vengono chiamate “collaborazioni di ricerca”. Abbiamo visto, infatti, come il confine fra la ricerca commissionata e la ricerca in collaborazione sia incerto e non ben delimitato, tanto che risulta spesso difficile dalla lettura del testo contrattuale inquadrare la fattispecie nell’una o nell’altra figura negoziale.
Si vede subito, allora, come le commesse di ricerca siano un contratto a prestazioni corrispettive caratterizzate dal fatto che, per quanto riguarda il committente, la corrispettività non è dovuta solo dal pagamento del prezzo pattuito ma, altresì, dalla messa a disposizione del ricercatore di una determinata quantità di beni e persone, e, più in generale, delle conoscenze e delle competenze specifiche di cui anche il committente stesso dispone.
Ma ciò che sicuramente allontana la fattispecie delle commesse di ricerca dal contratto di appalto è la prestazione dedotta in oggetto. Il contratto di ricerca, come abbiamo visto, è un contratto caratterizzato dal fatto di avere ad oggetto una prestazione consistente nel compimento di una determinata attività di studio e di ricerca che prescinde dai risultati che ne potrebbero derivare.
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L’attività di ricerca, infatti, è per sua natura un’attività imprevedibile, che presenta dunque un certo grado di aleatorietà: se è sicuramente vero che il committente è spinto a commissionare una certa attività di ricerca nella speranza di conseguire un qualche risultato positivo dall’attività stessa, d’altra parte, al momento dell’assunzione delle obbligazioni, le parti sono ben consapevoli del fatto che il risultato sperato potrebbe non essere raggiunto, tanto che un simile inciso è sempre presente nei contratti di ricerca utilizzati nella prassi degli Enti pubblici di ricerca. In particolare, negli schemi contrattuali adoperati si rileva con una certa frequenza l’uso di clausole che richiamano l’attenzione del committente sulla natura tipicamente sperimentale delle attività oggetto della ricerca, le quali, pertanto, vengono eseguite senza alcuna garanzia esplicita o implicita in ordine al conseguimento di un certo risultato.
Il committente, dunque, si impegna a pagare un determinato corrispettivo per la sola attività di ricerca e di studio commissionata in un determinato campo di suo interesse, e non anche per i possibili ed eventuali risultati positivi che ne potrebbero derivare. Tant’è che i contratti prevedono espressamente, qualora dalle attività di ricerca dovessero derivare risultati suscettibili di brevettazione o di sfruttamento economico, il rinvio ad un apposito atto scritto che ne definisca le modalità di gestione, di sfruttamento e la definizione dei costi ad essi relativi. In tal senso, possiamo dunque sostenere che l’obbligazione dedotta in prestazione è senz’altro un’obbligazione di mezzi e non di risultato.
Le argomentazioni che, a nostro avviso, giustificano la parziale applicazione della normativa dettata per il contratto d’opera intellettuale in ragione dell’affinità fra le due fattispecie, sono incentrate sull’obbligazione dedotta in prestazione. Se questa, infatti, consiste nell’esecuzione di un programma di ricerca prestabilito dal committente in comune accordo con il ricercatore, ma non anche nel conseguimento del risultato auspicato, allora il ricercatore che non raggiunge tale risultato non può essere considerato inadempiente.
Ora, se l’inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato sperato dal committente, ne discende che deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale, proprio come accade per il contratto d’opera intellettuale. Ci riferiamo, in particolare, al dovere di diligenza c.d. professionale di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., per cui, in luogo del criterio del buon padre di famiglia, a trovare applicazione è il parametro della diligenza professionale, diligenza che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale va valutata anche con riguardo alla natura
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dell’attività espletata, tenuto conto della perizia, dell’abilità e delle conoscenze che un professionista medio deve possedere in quel determinato campo36.
L’inadempimento del professionista, altresì, deve essere valutato alla stregua del