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Discrezionalità o obbligatorietà dell’esercizio dei poteri

CAPITOLO 3 I POTERI ISTRUTTORI DELLE COMMISSION

3.5 Discrezionalità o obbligatorietà dell’esercizio dei poteri

Nell'attuale sistema processuale tributario l’esercizio dei poteri di acquisizione probatoria è facoltativo e il suo mancato esercizio non è censurabile.

Sembra, infatti, ormai consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'esercizio dei poteri istruttori del giudice tributario, di cui all'art. 7, costituisce una facoltà discrezionale, in quanto meramente integrativa dell'onere probatorio delle parti, le quali fra l'altro non possono dolersi dell'uso che di essi il giudice abbia fatto.

L’esercizio degli ampi poteri istruttori è una scelta discrezionale del giudice e, di conseguenza, la sentenza che pronunci la soccombenza dell’una o dell’altra parte per mancato assolvimento dell’onere probatorio, senza che la commissione abbia esercitato alcuno dei poteri istruttori previsti dal comma 7, non è, in ogni caso, censurabile in cassazione per violazione di legge, anche se, in ipotesi, le parti avessero offerto un principio di prova.

La Suprema Corte, infatti, ha più volte ribadito che l’esercizio di detti poteri costituisce una facoltà discrezionale della quale va fatto un uso prudente in quanto non ha la funzione di sopperire a deficienze probatorie delle parti. Ritenere, al contrario, che il giudice tributario sia obbligato a sopperire di sua iniziativa alle lacune difensive dei contribuenti, esercitando così i poteri istruttori in funzione sostitutiva dell’attività probatoria di cui sono onerati i contendenti, è incompatibile con la posizione di terzietà del giudice tributario, il quale, data la natura dispositiva del processo, deve esercitare i poteri istruttori solo ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, cioè al solo scopo di eliminare l'incertezza che ancora gravi sui fatti introdotti dalle parti in giudizio.

La sentenza di Cassazione del 28 febbraio 2003 n. 16161, lascia intravedere, tuttavia, un caso in cui le parti potrebbero dolersi del mancato uso di questi poteri, ovvero «quando l’onere probatorio sia impossibile o sommamente

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difficile da assolversi e non possa pronunciarsi una sentenza ragionevolmente motivata». Ciò in quanto il giudice, se fonda la propria pronuncia sul mancato assolvimento dell’onere probatorio, deve motivarne le ragioni e dimostrare di aver esaminato e valutato le prove (articolo 115 e 116 del c.p.c).

Quindi, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, soltanto lo “stallo probatorio” non attribuibile a colpevole negligenza di parte, potrebbe obbligare il giudice ad esercitare i poteri istruttori di cui all’articolo 7 del D.lgs. 546/92, sempreché non sia possibile emettere una pronuncia motivata. Ad esempio, in tema di impugnazione di cartella esattoriale da parte del contribuente, il quale sosteneva di non aver ricevuto l'avviso di accertamento, la Suprema Corte ha sostenuto che la Commissione tributaria debba ordinare l'esibizione dell'avviso di accertamento all'ufficio tributario26, mentre, al contrario, la Cassazione, Sezione tributaria, 9 maggio 2003, n. 7129 ha ritenuto corretto il mancato uso dei poteri istruttori da parte del giudice a fronte della mera allegazione da parte del contribuente di un evento sopravenuto (incendio) che aveva diminuito il valore di un immobile da assumere ai fini dell'imposta di registro.

Sostenere, però, come pure più volte la Suprema Corte ha sostenuto, che i poteri istruttori vanno discrezionalmente utilizzati dal giudice è corretto, non potendo porsi in via normativa a carico delle Commissioni tributarie un obbligo di ricercare tout court le fonti di prova. Se così fosse l'impronta dispositiva del processo tributario verrebbe meno, travolgendo tanto il principio di parità delle armi, quanto quello della terzietà ed imparzialità del giudice27.

Tali poteri istruttori, anche alla luce della riforma dell'art. 111 della Costituzione, non hanno la funzione di sopperire alle lacune probatorie delle parti, ma piuttosto la funzione di garantire la parte il cui onere probatorio sia

26Cass. Sez, trib. 10/11/2000 n. 14624

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impossibile o molto difficile da assolvere ovvero si trova nell'impossibilità di esibire documenti risolutivi in possesso dell'altra parte. Diversamente non può essere pronunciata una sentenza ragionevolmente motivata.

Pertanto le parti, nella maggior parte delle ipotesi, difficilmente possono sindacare il mancato utilizzo dei poteri e non possono sollecitarne l’attivazione al fine di sopperire alle loro carenze probatorie.

A tal proposito è lo stesso giudice di legittimità, soprattutto con le sentenze di Cassazione 11 gennaio 2006 n. 366 e Cassazione 20 gennaio 2006 n. 1134 riguardanti i modi di acquisizione della stima UTE, che insegna che l'art. 7 D.lgs. 546/92 deve essere interpretato come norma eccezionale che non può essere utilizzata quale rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti.

Tali sentenze cercano, inoltre, di individuare i limiti entro cui i poteri dei giudici devono essere esercitati, specificando che tali giudici devono svolgere solo una mera funzione integrativa dell'attività probatoria delle parti in causa. La discrezionalità nell’attuazione dei poteri del giudice trova un limite nelle preclusioni e/o decadenze in cui sono incorse le parti. Questo perché il processo tributario è sostanzialmente un processo di natura dispositiva, affidato quindi alla disponibilità delle parti28. Infatti, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire di ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dal citato art.7, trattandosi di poteri meramente integrativi dell’onere probatorio principale che vanno esercitati al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo (art. 111 Cost.). Numerose altre sentenze di legittimità seguono questo filone interpretativo. Le più rilevanti ed esaustive appaiono le sentenze della Corte di Cassazione del 16 maggio 2005 n. 10267 e del 7 ottobre 2005 n. 19607, che così riportano:«In

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ordine allo stesso, invero, in carenza di qualsivoglia convincente contraria argomentazione , va ribadito il principio, reiteratamente affermato da questa sezione (fra cui anche la sentenza 9 maggio 2003 n. 7129), secondo il quale a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall'art. 7 del D.lgs. n. 546 del 1992 perché tali poteri sono meramente integrativi, e non esonerativi, dell'onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle armi nel processo, soltanto per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte.»

Una diversa interpretazione porterebbe ad un inammissibile tentativo di demandare al giudice la ricerca degli elementi più utili alla tesi sostenuta, venendo così lesa la funzione di terzietà del giudice.

Nell’esaminare la natura obbligatoria o discrezionale dell’esercizio dei poteri istruttori si deve tenere conto anche della natura del processo tributario.

Essendo ormai pacifico in dottrina coma in giurisprudenza che il processo tributario è un processo prettamente dispositivo, si ritiene quindi sia applicabile l’art. 115 del codice di procedura civile innanzi le Commissioni tributarie, secondo cui “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisone le prove proposte dalle parti”.

Si ritiene che tale disposizione sia stata ricostruita dal legislatore secondo il rapporto di regola ed eccezione: la regola è che i mezzi di prova sono nella esclusiva disponibilità delle parti, mentre l’eccezione è rappresentata dalla possibilità riconosciuta al giudice di disporre d’ufficio di alcuni mezzi di prova29.Cioè, in mancanza di particolari condizioni (eccezione), il giudice

29PAVERINI L., Poteri istruttori delle Commissioni tributarie, in Rassegna Tributaria 2004, pag. 692

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dovrà limitarsi, nel decidere, alla valutazione del materiale probatorio prodotto dalle parti (regola).

L’art. 115 c.p.c., nel configurare come eccezionale il ricorso ai poteri istruttori, impone di giustificare l’acquisizione d’ufficio delle prove in forza di regole diverse da quelle dettate dal codice di rito. L’art. 115 c.p.c. afferma che si debba trattare di ipotesi eccezionali, ma saranno altre norme a consentire di individuare quali siano in concreto le ipotesi idonee a giustificare l’utilizzo dei poteri officiosi.

Sembrano essere due i casi eccezionali in cui il giudice potrà disporre d’ufficio dei mezzi di prova indicati dall’art. 7 del D.lgs. 546/92: il primo caso si avrà quando sia necessario verificare la validità delle prove proposte dalle parti nei casi in cui, pur avendo le stesse tentato di provare, rimangono comunque ancora dei dubbi; il secondo caso si verificherà quando una parte non sia in grado di offrire la prova di un fatto perché la prova stessa non è nella sua disponibilità.

In tutti gli altri casi, in particolare quando si sia in presenza di un comportamento negligente di una parte, il giudice dovrà astenersi dall’intervenire.

In conclusione, sebbene la migliore soluzione auspicabile sia un intervento legislativo che dirima ogni ragionevole dubbio, l'intervento officioso del giudice deve aversi in tutti quei casi in cui non vi siano lacune istruttorie dovute a negligenze delle parti in causa.

Per fare questo il giudice deve avere la facoltà di avvalersi di tutti quei poteri istruttori che ritiene più opportuni alla ricerca della verità, in via del tutto discrezionale e, quindi, mai sindacabile, perché tali poteri sono meramente integrativi, e non esonerativi, dell'onere probatorio principale.

Tale discrezionalità dovrà quindi essere garantita dall'assoluta assenza di sollecitazione esterna, tanto dalla parte privata quanto dalla parte pubblica.

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La terzietà del giudice, che si vuole garantita dall'art. 111 Cost., sarà così assicurata.

Il giudice tributario, ad ogni modo, non deve correre il rischio di trasformarsi in organo attivo dell'Amministrazione finanziaria, ma nemmeno limitarsi a ricercare la verità solo attraverso la documentazione proposta dalle parti se tale documentazione lo allontana dal pronunciarsi in modo corretto.

In entrambi i casi il giudice rischia di perdere irrimediabilmente la sua terzietà nel giudicato, in lesione del diritto costituzionalmente garantito dall'art. 111, che vuole il giusto processo nonché la garanzia di libertà dei giudici nel ricercare la verità in ogni modo possibile.

Abbracciare, tuttavia, la tesi di un’interpretazione estensiva dei poteri istruttori dei giudici tributari porta al rischio, già prospettato in dottrina, che i giudici, anziché limitarsi ad una funzione integratrice dell’attività istruttoria delle parti, ne travalichino i limiti delineati dai fatti dedotti in giudizio, degradando la natura dispositiva del processo tributario.

Ecco perché occorre mettere un paletto a detto potere, ma senza che ciò sia di intralcio all’operato del giudice nel ricercare la verità dei fatti dedotti in giudizio. È qui che è, quindi, auspicabile un intervento legislativo, essendo allo stato attuale non garantita l’opportunità che il giudice proceda in modo officioso al reperimento delle prove per i fatti dedotti in giudizio, vista la divergenza di giudizi che tale vuoto legislativo ha creato a livello sia dottrinario che giurisprudenziale.

 3.5.1 Cassazione, Sezione Tributaria, Sentenza 11 gennaio 2006 n. 366 e Sentenza 20 gennaio 2006 n. 1134

Con le sentenze n. 366 e n. 1134, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice tributario non possa utilizzare gli strumenti di cui all'art. 7 del D.lgs. 546/92 per supplire alle insufficienze probatorie della parte.

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In particolare, con la pronuncia n. 366, la Cassazione ha considerato illegittimo il comportamento del giudice che dispone l'acquisizione della stima UTE non disposta dall'Amministrazione finanziaria.

Nella sentenza in esame il contribuente proponeva ricorso avverso un avviso di accertamento con il quale l'Ufficio delle Entrate di Caserta rettificava il valore finale di immobile compravenduto. La Commissione tributaria provinciale di Napoli rigettava il ricorso con decisione riformata dalla Commissione regionale che, dato atto che l'Ufficio del Registro non aveva ottemperato all'ordinanza istruttoria con la quale la Commissione stessa aveva disposto l'acquisizione di copia della stima UTE e presupponendo che l'Ufficio avesse fatto uso degli indici più elevati senza tener conto degli elementi negativi, riduceva del 30% il valore finale accertato.

Il contribuente ricorre per la cassazione della sentenza con due motivi di gravame.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 366 del 11 gennaio 2006, argomenta come segue: «Con i due motivi di gravame, che possono essere congiuntamente trattati perché consequenziali l'uno all'altro, la ricorrente lamenta la violazione del D.lgs. n. 546 del 1992, art. 7, nonché del D.P.R. n. 634 del 1972, artt. 48 e 49, oltre a vizi di motivazione su punto decisivo della controversia per aver i giudici di appello - nel disporre l'acquisizione agli atti di copia della stima UTE alla quale illegittimamente rinviava per relationem l'avviso di accertamento senza farne allegazione così come prescritto dall'art. 7 dello Statuto del contribuente - di fatto supplito all'inerzia probatoria dell'Ufficio.

Inoltre - posto che l'ordinanza era rimasta inottemperata - essi avevano contravvenuto alla norma che sancisce la soccombenza della parte inadempiente all'onere della prova avendo proceduto a valutare autonomamente il cespite ridotto del 30% nel valore finale con stima

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orientativa ed immotivata senza tener conto dei criteri comparativi fissati dalla legge ed affidandosi ad una propria arbitraria interpretazione.

Ora - a fronte di tale complesso motivo - rileva innanzitutto la Corte che, per l'esistenza e la sufficienza della motivazione dell'avviso di accertamento di valore, basta che tale atto contenga la pretesa tributaria e le circostanze su cui si fonda l'accertamento, quale è la stima diretta dell'UTE, che può esser semplicemente richiamata senza necessità di allegazione30.

Nella specie trattasi, infatti, di avviso notificato prima dell'entrata in vigore della L. n. 212 del 2000 che non doveva necessariamente accompagnarsi all'atto a cui la motivazione faceva riferimento ex art. 7 della legge predetta ovvero riprodurne il contenuto essenziale ex D.lgs. n. 32 del 2001, art. 1, atteso che siffatte prescrizioni sono contenute in disposizioni innovative come tali prive di efficacia retroattiva31.

Pertanto, l'avviso di accertamento motivato per relationem, resta valido nonostante manchi una autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi acquisiti dall'UTE che per economia di scrittura quegli ben può richiamare condividendone le conclusioni32.

Naturalmente l'obbligo di motivazione, ancorché così esaudito, serve solo a delimitare l'ambito delle ragioni adducibili dall'Ufficio nella successiva fase contenziosa restando a tale sede riservato l'onere dell'Ufficio di provare, nel contraddittorio con il contribuente, gli elementi di fatto giustificativi della propria pretesa nel quadro del parametro prescelto, allo stesso modo come resta in facoltà del contribuente dimostrarne l'infondatezza anche in base a criteri non utilizzati per l'accertamento33.

30Cass. n. 11997/2003 31 Cass. n. 4989/2003 32Cass. n. 2527/2002 33Cass. n. 12774/2001

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La prova della pretesa creditoria sul maggior valore accertato non è stata però fornita dalla parte onerata né a tale carenza istruttoria poteva supplire la Commissione.

Invero l’art. 7 del D.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce alle Commissioni Tributarie ampi poteri istruttori di ufficio (tra cui - al comma 3 - la facoltà di ordinare il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia), costituisce una norma eccezionale che non può essere utilizzata come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti dal momento che il giudice tributario non è tenuto ad acquisire di ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio salvo che sia impossibile o sommamente difficile esercitarlo34.

Diversamente risulterebbe violato il principio dispositivo (art. 115 c.p.c.) su cui si regge il processo tributario (D.lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2) che il legislatore delegato del 1992 ha rafforzato (L. n. 413 del 1991, art. 30) ed altresì eluso - stante la facoltà della Commissione di disporre "sempre" le allegazioni mancanti necessarie alla risoluzione della controversia - il rispetto dei termini di deposito documentale stabiliti dal D.lgs. n. 546 del 1992, art. 32, ritenuti perentori proprio per la funzione che adempiono a garanzia dei diritti di difesa35.

Non a caso la recente mini-riforma sul contenzioso approvata con la conversione in legge del D.L. n. 203 del 2005 ha soppresso con l'art. 4 la disposizione in parola eliminando così ogni possibile limitazione al principio di legalità consacrato sul piano probatorio dall'art. 2697 c.c. che impone dimostrazione - da parte di chi esercita lo ius impositionis - dei presupposti di fatto del credito fiscale controverso (in debenza e/o ammontare) e - da parte del soggetto passivo - dell'esistenza di evenienze estintive e/o modificative dell'obbligazione tributaria dedotta in lite.

34Cass. n. 8439/2004 e Cass. n. 7678/2002 35Cass. n. 138/2004 e Cass. n. 1771/2004

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In concreto, poi, non sussisteva alcuna esigenza di acquisizione di ufficio perché il documento rilevante ai fini di causa (stima UTE) non era di impossibile o disagevole produzione avendone l'Amministrazione finanziaria la disponibilità per aver su di esso - appunto - basato la propria pretesa impositiva.

In ogni modo tale prova non è stata fornita perché l'Ufficio del Registro non ha ottemperato all'ordinanza della Commissione che non è stata così messa in grado di controllare gli elementi in base ai quali erano stati rettificati i valori dichiarati dal contribuente.

Peraltro, una volta che veniva accertata - come si dà atto nella motivazione della sentenza - la totale assenza di probante documentazione al riguardo, restava inibito al giudice del merito procedere a determinare il quantum autonomamente supponendo la applicazione di indici massimi di valutazione da parte dell'Ufficio e ritenendo una incidenza riduttiva degli elementi negativi nell'ordine del 30%.

Tale criterio, oltre a rivelarsi ultroneo rispetto al riparto dell'onere della prova, non trova neppure ragionevole appiglio motivazionale nei dati acquisiti al processo come fondatamente eccepito dal ricorrente.

Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata cassata senza rinvio non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto sul punto stante la mancanza di prova sugli elementi che hanno determinato la rettifica fiscale.

La causa può essere di conseguenza decisa nel merito con accoglimento del ricorso introduttivo del contribuente.»

Nel processo tributario, quindi, se la prova della pretesa creditoria non è fornita dalla parte onerata, a tale carenza istruttoria non può supplire la Commissione, perché l'art. 7 del D.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce alle Commissioni tributarie ampi poteri istruttori di ufficio (tra cui - al 3° comma, ora abrogato - la facoltà di ordinare il deposito di documenti ritenuti necessari

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per la decisione della controversia), costituisce una norma eccezionale, che non può essere utilizzata come rimedio ordinario a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio, salvo che sia impossibile o sommamente difficile esercitarlo.

Con la sentenza n. 1134, invece, viene considerata non utilizzabile la stima UTE prodotta dalle parti, fuori dai termini di legge, a seguito della richiesta di acquisizione di documenti effettuata dal giudice ex art. 7, comma 3, del D.lgs. 546/92.

Con distinti ricorsi i contribuenti impugnavano un avviso di accertamento, il quale elevava il valore di un complesso immobiliare, innanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Napoli, deducendone la nullità per difetto di motivazione, per mancanza dell'indicazione dei criteri di valutazione adottati e nel merito la infondatezza e l'incongruenza del valore accertato. All'udienza veniva disposto d'ufficio il rinvio a data successiva allo scopo di chiedere all'Ufficio copia della stima UTE. L'Ufficio si costituiva in giudizio depositando, solo 12 giorni liberi prima della data dell'udienza, il documento richiesto.

Con memoria i contribuenti evidenziavano la mancanza dei criteri di valutazione anche nella stima UTE oltre ad eccepire l'irritualità, per mancato rispetto dei termini previsti dal D.lgs. n. 546 del 1992, art. 32 della produzione dell'atto.

La Commissione tributaria provinciale, riuniti i ricorsi, li accoglieva parzialmente riducendo il valore finale accertato.

Contro tale decisione proponevano distinti appelli i due contribuenti lamentando il rigetto immotivato dell'eccezione di nullità dell'avviso di accertamento, malgrado l'espresso riconoscimento da parte della Commissione della mancanza dei "parametri e criteri adottati per la valutazione dell'immobile", l'omessa pronuncia in relazione alla mancanza di prove a

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sostegno del maggior valore accertato da parte dell'Ufficio, l'assenza di motivazione in merito al valore attribuito all'immobile e l'omessa pronuncia in riferimento alla domanda di rettifica del valore iniziale.

Tuttavia, la Commissione tributaria regionale della Campania rigettava i ricorsi riuniti e confermava la sentenza di primo grado.

Avverso detta decisione i due contribuenti propongono ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi.

Con la sentenza n. 1134, del 20 gennaio 2006, la Corte di Cassazione motiva così la sua decisione: «Con il primo motivo i contribuenti deducono la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52 nonché la nullità dell'avviso di accertamento per difetto di motivazione e per mancanza di qualsiasi elemento specifico di riferimento all'immobile trasferito, limitandosi tale atto ad un generico riferimento ad elementi acquisiti dalla stima UTE, peraltro non allegata, ed, una volta prodotta, a