CAPITOLO 5 LE PROVE ESCLUSE
5.2 Le dichiarazioni di terzi
L’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non comporta, secondo la giurisprudenza, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di terzi
riprodotte nei processi verbali della Guardia di finanza o
dell’Amministrazione finanziaria.
Il giudice tributario non può, infatti, escutere testimoni, ma può valutare i documenti che contengano dichiarazioni di terzi.
50 Cass. n. 5182/2011
51Art. 2724, n. 3, c.c. “La prova per testimoni è ammessa in ogni caso: 3) quando il contraente ha
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La prova per testimoni, vietata nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributaria, quale incombente da assumere nel processo, si distingue dalle informazioni testimoniali desunte da dichiarazioni precostituite, quali dichiarazioni di scienza provenienti da terzi, che invece le stesse Commissioni possono utilizzare52.
Tali dichiarazioni, rese fuori e prima del processo, sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito di iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento di testi e riveste, di conseguenza, un particolare valore probatorio. Con giurisprudenza prevalente, è stato ritenuto legittimo che i giudici formassero il proprio convincimento tenendo conto anche delle dichiarazioni di terzi contenute nei processi verbali degli uffici tributari e/o della Guardia di Finanza nell’ambito della loro attività ispettiva.
Nel caso in cui un contribuente, nell’esercizio del suo diritto di difesa, contesti la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dalla Amministrazione, il giudice tributario potrà e dovrà fare uso degli ampi poteri istruttori riconosciutigli dal 1° comma dell’art. 7 D.lgs. 546/92, rinnovando e eventualmente integrando, secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità, l’attività istruttoria svolta dall’ufficio. Il mancato esercizio di tale potere-dovere, in presenza di una istanza di parte, resta soggetto al generale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione proprio delle decisioni giurisdizionali.
L’art. 51, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972 sancisce che, in corso di verifica, l’Ufficio può invitare qualsiasi soggetto a fornire ogni informazione relativa alle operazioni di accertamento. L’art. 32, comma 8-bis, del D.P.R. n. 600/1973 pone in capo all’Ufficio il potere di invitare ogni altro soggetto a
52CONSOLO C. - GLENDI C., Commentario breve alle leggi del processo tributario, op. cit., Padova,
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fornire chiarimenti concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente.
L’Agenzia delle entrate, spesso, nell’emettere l’avviso di accertamento, riporta nella motivazione del provvedimento le conclusioni dell’attività d’indagine oppure richiama integralmente il processo verbale.
Da tali norme, quindi, emerge un forte divario tra la fase della verifica e quella del giudizio. Infatti, i verificatori, durante le verifiche, hanno la possibilità di raccogliere dichiarazioni e informazioni da soggetti terzi, dichiarazioni e informazioni che siano utili all’Amministrazione finanziaria per condurre le proprie indagini tributarie; mentre, durante l’eventuale giudizio, a meno che le dichiarazioni introdotte dall’Amministrazione finanziaria non siano messe in discussione dal contribuente, il giudice non può verificare quanto dichiarato dai soggetti terzi in questione, non essendo ammessa la prova testimoniale nel processo tributario.
Le dichiarazioni di terzi, quindi, sono sempre entrate, seppur indirettamente, nel processo tributario, ma in maniera asimmetrica, cioè sempre a supporto delle tesi dell’Ente impositore.
L’apparente disparità processuale non è stata, però, ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 18 del 2000, ha asserito che tale divieto non contrasta con la Costituzione e, in particolare, con gli articoli 3, 24 e 53.
Adesso la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7707/2013, ha riequilibrato i rapporti tra Ente impositore e contribuente, prevedendo che il giudice tributario possa valutare i documenti che contengono dichiarazione dei terzi anche a favore del contribuente.
Nel caso sottoposto alla valutazione della Suprema Corte, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso un avviso di accertamento sul presupposto che il contribuente avesse effettuato un investimento eccessivo rispetto al reddito
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dichiarato. Il contribuente ha, allora, depositato la documentazione relativa ad un finanziamento bancario e, soprattutto, la dichiarazione del padre che
attestava come quest’ultimo avesse partecipato finanziariamente
all’investimento. La Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile la dichiarazione del terzo e convincente la difesa del contribuente, perché supportata da un riscontro obiettivo, nella fattispecie la certificazione bancaria. Al contribuente, quindi, è riconosciuto lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale. La giurisprudenza ha ritenuto che possa essere ammessa nel processo tributario, con valore di prova liberamente valutabile dal giudice, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà rilasciata da un terzo e prodotta dal ricorrente a sostegno delle proprie argomentazioni.
La Suprema Corte ha, quindi, posto sullo stesso piano le deposizioni trascritte nei processi verbali con le dichiarazioni di terzi introdotte nel processo mediante un documento che le contiene. Gli ermellini hanno, così, inteso assicurare i principi del giusto processo (art. 111 della Costituzione), garantendo parità delle armi processuali tra le parti e l’effettività del diritto di difesa.
5.2.1 Valore probatorio delle dichiarazioni di terzi
La Corte Costituzionale, distinguendo tra testimonianze raccolte nel processo e dichiarazioni di terzi, ha affermato che il divieto delle prime non impedisce al giudice tributario di prendere in considerazione le seconde, ma solo come semplici indizi. Sicché la decisione non può essere fondata soltanto su di esse, ma sono necessari anche altri elementi di prova.
La Corte Costituzionale, sempre con la sentenza n. 18/2000, ha statuito che «il divieto della prova testimoniale non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale», e che tali attestazioni
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rappresentano «elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il libero convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione».
Perciò, sulla base di queste argomentazioni, si riconosce alle dichiarazioni, raccolte dall’Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento, il valore proprio degli elementi indiziari. Anche per il contribuente tali dichiarazioni raccolte in sede extraprocessuale non potranno avere valore di prova, ma dovranno avere il valore degli elementi indiziari, che necessitano di essere valutati assieme ad altri elementi, non potendo da soli costituire il fondamento della decisione. Questo perché tali dichiarazioni, acquisiste fuori dal processo, sono raccolte senza contraddittorio e senza le dovute garanzie. Anche la Cassazione ammette l’utilizzo di dichiarazioni assunte in sede amministrativa come semplici indizi, riconoscendo alle parti private, per il principio di parità delle armi, la facoltà di produrre in giudizio dichiarazioni scritte di terzi, al fine di contrastare l’efficacia probatoria delle dichiarazioni prodotte dall’ufficio.
Le dichiarazioni fatte da terzi hanno, quindi, soltanto il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, e qualora siano dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza danno luogo a presunzioni. Infatti il comma 2 dell’art. 2729 c.c., che impedisce il ricorso a presunzioni nel caso in cui la legge vieta l’utilizzo della prova testimoniale, non è applicabile al contenzioso tributario.
Rispetto a queste dichiarazioni spetta poi alle Commissioni valutarne con prudente apprezzamento l’attendibilità. Il giudice non potrà basarsi esclusivamente sulle dichiarazioni extraprocessuali, ma dovrà valutarle in maniera coordinata con le altre prove tipiche del processo tributario.
Qualora, invece, le dichiarazioni provengano da soggetti che operano all’interno della società accertata, ad esempio dagli amministratori, esse
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secondo la giurisprudenza di Cassazione, si ergono a rango di prova e non di mero indizio.
Alla stessa conclusione la giurisprudenza è giunta con riferimento a dichiarazioni provenienti da dipendenti di una società intrattenente rapporti con quella accertata, e da fornitori del contribuente.
5.2.2 Le dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica
La posizione fiscale del contribuente può essere accertata sulla base di dichiarazioni dallo stesso rese nel corso della verifica.
L’opinione maggioritaria ritiene che tali attestazioni abbiano valore di confessione stragiudiziale. Ai sensi dell’art. 2753 c.c. la confessione è una prova legale, quindi idonea a limitare il convincimento del giudice.
Invece è controverso se, in diritto tributario, alle dichiarazioni confessorie vada attribuita efficacia di prova legale o se, stante la peculiarità della materia fiscale, debbano considerarsi semplici elementi probatori
La giurisprudenza ha più volte affermato che le dichiarazioni in esame sono da considerarsi una confessione stragiudiziale e, pertanto, costituiscono una prova diretta e non indiziaria, che non necessità di ulteriori riscontri. Si differenziano dalle attestazioni di terzi in quanto queste ultime possono essere contestate e necessitano di riscontri, mentre le altre possono essere assunte senza riscontri critici se sfavorevoli a chi le rende.
Per contro, è stato, altresì, sostenuto che tali dichiarazioni, vertendo su fatti relativi a diritti indisponibili, non formano piena prova contro colui che le ha rese, ma vanno liberamente apprezzate dal giudice, il quale, però, dato il loro particolare valore, deve adeguatamente motivare l’eventuale mancata utilizzazione53.
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