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INDICE
INTRODUZIONE ...4
CAPITOLO 1 - NATURA DEL PROCESSO TRIBUTARIO...10
1.1 Il Principio dispositivo ...10
 1.1.1 Principio di non contestazione e fatto notorio ... 17
1.2 Processo di impugnazione-merito ... 18
CAPITOLO 2 - LE PROVE NEL PROCESSO TRIBUTARIO ... 23
2.1 Mezzi di prova nel processo tributario ... 23
 2.1.1 Le presunzioni ... 25
 2.1.2 La confessione ... 27
 2.1.3 Le prove atipiche ... 28
2.2 L’acquisizione al processo delle prove ... 29
2.3 Valutazione delle prove ... 30
2.4 Onere della prova ... 31
CAPITOLO 3 - I POTERI ISTRUTTORI DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE ... 36
3.1 L'attività istruttoria delle Commissioni tributarie ... 36
 3.1.1 Natura dell'istruzione probatoria svolta dalle Commissioni ... 39
3.2 Poteri di accesso, richiesta dati e informazioni ... 43
 3.2.1 Accessi ... 44
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3.3 Richiesta di relazioni e consulenze tecniche ... 46
 3.3.1 Le relazioni tecniche... 50
 3.3.2 La consulenza tecnica d’ufficio ... 50
3.4 L’esercizio dei poteri istruttori ... 53
 3.4.1 L'acquisizione delle prove ... 56
 3.4.2 Modalità di esercizio dei poteri istruttori ... 60
3.5 Discrezionalità o obbligatorietà dell’esercizio dei poteri ... 61
 3.5.1 Cassazione, Sezione Tributaria, Sentenza 11 gennaio 2006 n. 366 e Sentenza 20 gennaio 2006 n. 1134 ... 66
 3.5.2 La regola di giudizio fondata sull'onere della prova ... 75
 3.5.3 Cassazione, Sezione Tributaria, Sentenza 15 novembre 2002, depositata il 9 maggio 2003, n. 7129 ... 80
3.6 Abrogazione 3° comma ... 84
CAPITOLO 4 - IL GIUSTO PROCESSO TRIBUTARIO ... 90
4.1 Il nuovo articolo 111 della Costituzione ... 90
4.2 Giusto processo tributario e poteri istruttori ... 97
CAPITOLO 5 - LE PROVE ESCLUSE ... 103
5.1 Il giuramento e la prova testimoniale ... 103
5.2 Le dichiarazioni di terzi ... 107
 5.2.1 Valore probatorio delle dichiarazioni di terzi ... 110
 5.2.2 Le dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica ... 112
5.3 Il caso Jussila ... 113
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5.5 I mezzi di prova acquisiti irritualmente ... 115
CAPITOLO 6 - POTERE DI DISAPPLICAZIONE DEI REGOLAMENTI E DEGLI ATTI GENERALI ... 119
6.1 Il potere di disapplicazione ... 119
6.2 Disapplicazione dei regolamenti e degli atti amministrativi ... 120
6.3 Disapplicazione delle sanzioni per obiettiva incertezza normativa ... 121
6.4 Disapplicazione delle leggi per contrasto con il diritto comunitario .... 123
CAPITOLO 7 - POTERI DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE IN GRADO DI APPELLO ... 124
7.1 Mezzi istruttori nel processo di appello ... 124
7.2 L'attività istruttoria delle Commissioni tributarie in appello ... 126
CONCLUSIONI...130
Bibliografia...133
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INTRODUZIONE
Il processo tributario è un processo di impronta processual-civilistica, che si contraddistingue per l'impulso di parte e per la disponibilità dell'oggetto della materia del contendere, nel senso che la materia del contendere è delineata dalle parti e non può essere ampliata dal giudice.
Le disposizioni che regolano le parti e lo svolgimento del processo tributario sono contenute nel Decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, emanato in attuazione della delega espressa nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413.
Secondo il primo articolo del D.lgs. 546/1992, al comma 2, i giudici tributari applicano le norme del suddetto decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile.
Il legislatore delegato, con la previsione di questo comma, ha confermato la volontà di improntare il processo tributario ai caratteri propri del processo civile, fatte salve alcune soluzioni peculiari imposte dalla specificità della materia e dall'avvio del processo ancorato all'impugnazione di un atto.
Il rinvio alle norme del codice di procedura civile disposto dall’art. 1 del D.lgs. 546/92, unitamente alla scarna disciplina dei mezzi istruttori contenuta nell’art. 7 dello stesso decreto, rendono quanto mai imponente e necessario il richiamo delle norme processuali civilistiche nel processo tributario, con il solo limite della compatibilità. Ciò fa assumere all’art. 115 c.p.c. il ruolo di norma cardine anche nel processo tributario, per cui il giudice tributario dovrà porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge nei quali può raccogliere prove di sua iniziativa.
Importantissimi, per una ricostruzione del principio dispositivo nel processo tributario, sono l’art. 7, comma 1, D.lgs. 546/92: “Le commissioni tributarie ai
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fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti esercitano...”; e l'art. 58 dello stesso decreto: “Il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile”.
Il principio per il quale il giudice tributario esercita i suoi poteri “nel limite dei fatti dedotti dalle parti”, espressamente previsto per il processo tributario, costituisce il nucleo essenziale del sistema dispositivo.
Il tema d’indagine deve essere determinato nei suoi elementi concreti delle parti e non dal giudice, il quale non può, di sua iniziativa, indicare fatti rilevanti per la soluzione della controversia, e ricercarne le prove.
Ancora più pregnante è la previsione dell’art. 58, che ammette le prove nuove in appello, nell’ipotesi in cui “la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile”. Ergo, la parte ha l’onere di fornire le prove nel processo di primo grado e se dimostra di non averle fornite per causa ad essa non imputabile, può ammettersi, in appello, una sostanziale rimessione in termini.
Queste due norme, unitamente all’art.1, comma 2, D.lgs. 546/1992, inconfutabilmente confermano la natura dispositiva del processo tributario. Tuttavia al giudice tributario sono attribuiti notevoli poteri istruttori da esercitare, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, solo eccezionalmente ed a fini integrativi e non sostitutivi dell'onere probatorio delle parti; egli è tenuto ad acquisire d’ufficio le eventuali ulteriori prove ritenute necessarie per pervenire ad una decisione motivata.
I poteri istruttori delle commissioni tributarie sono assolutamente residuali rispetto alle allegazioni delle parti e, anche se sono più numerosi e vasti di quelli riconosciuti nel processo civile, sono pur sempre in numero chiuso. I poteri delle Commissioni tributarie, disciplinati dall’art. 7 del D.lgs. 546/92, vanno esercitati per raccogliere le prove necessarie a decidere la controversia,
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ciò presuppone una valutazione di insufficienza del materiale probatorio già disponibile
Il carattere dispositivo del processo tributario comporta che il giudice non può utilizzare i propri poteri istruttori a fini esplorativi, sostituendosi alle parti. Ciò premesso, il rito tributario è contraddistinto da una forte disparità, sia sostanziale sia processuale, tra le parti. La supremazia dell'ufficio non sussiste nella sola fase di verifica, ma molti sono i privilegi accordati all'Amministrazione nella fase contenziosa.
È importante, quindi, che il giudice possa utilizzare le proprie potestà a fini integrativi, per colmare, quantomeno in parte, la disparità processuale tra le parti, in attuazione del canone costituzionale del "giusto processo", sancito dal riformato articolo 111 della Costituzione.
In tale contesto, l'art. 7 del D.lgs. 546/92 riassume, nella sua estrema sinteticità, i poteri istruttori conferiti alle Commissioni tributarie, le quali possono: esercitare tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e di chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all'ente locale da ciascuna legge d'imposta; richiedere ad organi tecnici dello Stato o di altri enti pubblici apposite relazioni tecniche e disporre consulenza tecnica; ordinare alle parti l'esibizione di documenti, sino alle modifiche apportate dal D.L. 203/2005.
Per quanto riguarda il potere di accesso delle Commissioni tributarie, esso va considerato e interpretato nel quadro di una diversa realtà giuridica rispetto a quello conferito, dalle stesse leggi, agli uffici tributari ed all’ente locale. Questo significa che, mentre in sede amministrativa questo potere serve ad accertare prove di violazioni, le Commissioni tributarie, in quanto giudici speciali, eserciteranno lo stesso potere principalmente per verificare i risultati dell’istruttoria amministrativa.
La sollecitazione di tali potestà difficilmente può provenire dall’ente impositore, in quanto gli stessi poteri sono attribuiti dalla legge a quest’ultimo
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e che l’accoglimento della richiesta si concretizzerebbe in una integrazione dell’attività di verifica.
Il secondo comma dell’art. 7 consente al giudice di richiedere d’ufficio relazioni ad organi tecnici dello Stato, o disporre in alternativa consulenza tecnica, quando occorra acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità. La norma estende sotto questo profilo i poteri delle Commissioni, dal momento che la consulenza tecnica era in precedenza esperibile solo su istanza di parte.
Le potestà delle Commissioni tributarie hanno carattere discrezionale e il loro mancato esercizio non è censurabile dalle parti. Il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio, salvo che sia impossibile o sommamente difficile esercitarlo.
La Suprema Corte ha più volte correttamente sostenuto che i poteri istruttori vanno utilizzati discrezionalmente dal giudice, non potendo porsi in via normativa a carico delle Commissioni tributarie un obbligo di ricercare tout court le fonti di prova. Se così fosse, l'impronta dispositiva del processo tributario verrebbe meno, travolgendo i principi di parità delle armi e della terzietà ed imparzialità del giudice, sanciti dal riformato articolo 111 della Costituzione. Tali poteri istruttori, infatti, non hanno la funzione di sopperire alle lacune probatorie delle parti, ma piuttosto la funzione di garantire la parte il cui onere probatorio sia impossibile o molto difficile da assolvere, ovvero che si trova nell'impossibilità di esibire documenti risolutivi in possesso dell'altra parte.
L’uso che le Commissioni fanno di tali poteri è, quindi, discrezionale, tuttavia, quando la situazione probatoria è tale che non possa pronunciarsi una sentenza ragionevolmente motivata senza acquisire d’ufficio alcune prove, l’esercizio dei poteri si configura come un dovere, il cui mancato assolvimento, se non motivato, deve considerarsi illegittimo.
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Il riconoscimento dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie, esercitabili discrezionalmente, ha fatto sorgere alcune perplessità sul carattere dispositivo del processo tributario. La tesi che riconosceva il carattere inquisitorio al processo tributario è stata attenuata, in conseguenza del disposto del comma 5 dell'art. 3-bis del D.L. n. 203/2005 che ha abrogato il comma 3 dell'art. 7 D.lgs. n. 546/1992, che riconosceva alla Commissione la facoltà di ordinare ex officio alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia. La ratio della modifica va individuata nella volontà del legislatore di rimettere all'iniziativa delle parti l'andamento del processo e limitare la discrezionalità del giudice dalla quale potevano conseguire diversi effetti.
Resta salva in ogni caso la facoltà, per ciascuna delle parti, di chiedere al giudice di ordinare il deposito di documenti non conosciuti in possesso della controparte.
Nell'analisi dell'art. 7 del D.lgs. 546/92 è importante soffermarci su quanto previsto dal quarto comma, il quale esclude dal processo tributario il giuramento e la testimonianza, in quanto il processo tributario è un processo essenzialmente scritto e documentale.
L’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non comporta, secondo la giurisprudenza, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di terzi
riprodotte nei processi verbali della Guardia di finanza o
dell’Amministrazione finanziaria, quindi rese fuori dal processo.
Al fine di garantire l'effettività del diritto alla difesa, anche al contribuente, oltre ad avere la facoltà di contestare le affermazioni in questione, è riconosciuto lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale.
Il giudice tributario, infine, secondo il quinto comma dell'art. 7 può disapplicare, se li ritiene illegittimi, i regolamenti e gli atti amministrativi generali. Disapplicare significa "non applicare, cioè decidere come se l'atto
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non vi fosse, pertanto la declaratoria di disapplicazione di un regolamento o di un atto non toglie validità allo stesso.
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CAPITOLO 1
NATURA DEL PROCESSO TRIBUTARIO
1.1 Il Principio dispositivo
Come è noto, nel processo civile vigono i fondamentali principi fissati dagli articoli 112 e 115 del codice di procedura civile, cosiddetti "della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato" e della "disponibilità delle prove". Secondo questi principi il giudice non può esaminare e risolvere questioni che esulano dalla domanda proposta dalle parti e, salvi i casi previsti dalla legge, deve porre a fondamento della sua decisione solo le prove proposte dalle parti.
Tali principi valgono anche per il processo tributario, ai sensi di quanto previsto dal secondo comma dell'art. 1 del Decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 5461, sul contenzioso tributario.
Secondo tale norma, i giudici tributari applicano le norme del codice di procedura civile se il caso loro sottoposto non trova disciplina nel medesimo decreto e se le norme di rito civile sono compatibili con le norme del processo tributario medesimo.
Il processo tributario è annoverabile, quindi, nello schema rituale dispositivo: infatti, l'onere di provare i fatti costitutivi della domanda spetta alle parti, così come la delineazione dell'oggetto del contendere.
Tuttavia, al giudice tributario sono attribuiti notevoli poteri, sia sul versante della tipologia della sentenza che può emanare, sia sul versante istruttorio. In particolare, alle Commissioni tributarie è attribuito un potere di indagine da esercitare nei limiti dei fatti dedotti dalle parti.
Nell’attuale ordinamento processuale i poteri istruttori del giudice tributario trovano enunciazione nell’articolo 7 del D.lgs. 546/92, il quale dispone che:
1Art. 1, comma 2, D.lgs. 546/92:"I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per
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“Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta.
Le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica. I compensi spettanti ai consulenti tecnici non possono eccedere quelli previsti dalla legge 8 luglio 1980, n. 319 e successive modificazioni e integrazioni. È sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia (abrogato).
Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.
Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente.”
L’incipit dell’art. 7 sottolinea soprattutto la natura tendenzialmente dispositiva del processo tributario laddove stabilisce che i poteri istruttori attribuiti alle Commissioni tributarie sono attivabili solo nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, che fissano i confini della controversia e dell’attività giurisdizionale. Il processo tributario, dunque, è un processo affidato alla disponibilità delle parti, in quanto sussiste il limite dei fatti dedotti dalle stesse, tuttavia è possibile anche di ufficio la ricerca di eventuali ulteriori elementi necessari per pervenire ad una decisione motivata.
La riforma del 1992 è intervenuta sul vecchio impianto normativo, che delineava un processo tributario fortemente inquisitorio, caratterizzato da
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penetranti poteri di ricerca della prova dei fatti rilevanti per la decisione, limitando i poteri istruttori in relazione ai soli fatti dedotti dalle parti.
L’accentuazione del carattere dispositivo trova maggior riscontro con la successiva abrogazione del 3° comma dell’art. 7 secondo cui “è sempre data alle Commissioni tributarie la facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, e che consentiva un vero e proprio potere di ufficio in supplenza della parte probatoriamente inerte.
Il legislatore ha abrogato il citato comma 3, in quanto ha ritenuto di limitare i poteri istruttori del giudice tributario, considerato che il comma 1 dell’art. 7 gli consente comunque di richiedere alle parti informazioni e chiarimenti.
Negli ordinamenti giuridici moderni non esistono modelli di processo solo dispositivi, caratterizzati da poteri di iniziativa e di parte delle parti, o solo inquisitori, per la presenza di un giudice dotato di ampi poteri officiosi di indagine; esistono invece modelli misti in cui può prevalere l'una o l’altra componente.
Nel processo tributario tale natura è mutata ciclicamente nel tempo a seguito delle riforme poste in essere dal legislatore.
I poteri istruttori del giudice tributario erano originariamente contenuti nell’articolo 25, primo comma, del R.D. n. 1516 del 1937 che disponeva sul punto “Le Commissioni distrettuali hanno tutte le facoltà di indagine, di accesso, di ispezione, di controllo, di richiesta di dati, di informazione e di chiarimenti, conferite dalle singole leggi di imposta ai funzionari delle imposte dirette e del registro.”
Dalla lettura della norma si evince la forte impronta inquisitoria del processo, mancando limiti al potere istruttorio del giudice.
Con la riforma del 1971 l’articolo 25 venne sostituito dall’articolo 35 del D.P.R. 636 del 1972 che al primo comma sanciva: “Le Commissioni di primo
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e secondo grado, al fine di conoscere i fatti dedotti in causa dalle parti, hanno tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e di chiarimenti conferite agli uffici dalle singole leggi d’imposta.”
Nonostante l’intervento del legislatore, nel processo riformato erano sempre presenti caratteristiche inquisitorie che continuavano ad alimentare dibattiti in dottrina e in giurisprudenza sulla natura del processo tributario.
Quest’ultima disposizione venne nuovamente modificata nel 1981 dall’articolo 23 del D.P.R. 739 che riconoscendo alle commissioni tributarie, al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione, tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti, conferite agli uffici tributari dalle singole leggi d’imposta, legittimava le stesse ad individuare, anche autonomamente e a prescindere dall’impulso di parte, i fatti rilevanti per la decisione. Le commissioni tributarie in tale modo potevano svolgere indagini e ricercare prove, accentuando la natura inquisitoria del processo.
Con l’articolo 7 del D.lgs. 546/92 il legislatore, pur non mutando nella sostanza i poteri conferiti ai giudici tributari, ha modificato i fini entro cui tali poteri potessero essere esercitati aggiungendo l’espressione “ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti.”
La limitazione dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie ai fatti dedotti dalle parti fu una delle più importanti innovazioni del D.lgs. 546 del 1992 rispetto al D.P.R. n. 636 del 19722.
Da tale momento, il processo tributario ha sposato espressamente il principio secondo il quale il giudice, nella ricerca della verità, è limitato dalle allegazioni delle parti, alla stregua di quanto previsto nell’art. 115 del codice di procedura civile3.
2 PODDIGHE A., La limitazione dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie, in Rass. Trib.
2007, pag. 867 ss.;
3Art. 115, co.1, c.p.c.: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.”
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In tale contesto spetta all’Amministrazione la deduzione di fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria, mentre il contribuente ha l’onere di introdurre, quali motivi del ricorso, i fatti impeditivi, modificativi o estintivi dell’obbligazione stessa.
La riforma del processo tributario non ha posto termine al problema della natura inquisitoria o dispositiva del processo, nonostante la lettera della Relazione ministeriale di accompagnamento al D.lgs. 546/1992 chiaramente afferma che “L’art. 7 attenua la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario, in relazione al maggior spazio lasciato all’impulso di parte, e soprattutto al venire meno della funzione assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari ora soppiantata dall’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”.
Ciò significa che non si è ancora ad un processo puramente di parti, ma che, comunque, i poteri di ufficio delle commissioni hanno natura residuale rispetto alle allegazioni probatorie delle parti.
Per risolvere il problema della natura del processo tributario è utile analizzare quale sia la posizione delle parti e del giudice nel processo stesso rispetto: all’oggetto del processo; alla determinazione dei fatti sui quali deve essere fondata la decisione; ed infine, ai poteri di impulso.
Per quanto riguarda l’oggetto del processo, la sua determinazione spetta alla parte ricorrente, poiché questo era ed è rimasto un processo di parti. Opera infatti il principio della domanda, che nel Codice di Procedura Civile è contenuto all’art. 99 a mente del quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre la domanda al giudice competente”. In base a questo principio il processo non è attivabile d’ufficio e l’oggetto del processo è determinato dalla domanda del ricorrente.
Per quanto riguarda la determinazione dei fatti sui quali deve essere fondata la decisione, il 1° comma dell’art. 7 D.lgs. 546/92 prevede che le facoltà di
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accesso, di richiesta di dati, di informazioni e di chiarimenti esercitate dalle commissioni tributarie, siano esercitate ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti. Si evince, quindi, che l’allegazione dei fatti spetta alle parti e ciò limita l’esercizio ai fini istruttori dei poteri assegnati alle Commissioni tributarie. Infatti l’Amministrazione finanziaria, dal momento in cui pone in essere un atto impositivo, dovrà chiarire i fatti costitutivi delle pretese avanzate con il proprio provvedimento in modo da delimitare il thema decidendum, rimanendo esclusa la possibilità per la stessa di integrare in un secondo momento il medesimo provvedimento. Se l’amministrazione finanziaria non ha alcun potere di integrazione dei fatti che stanno a fondamento della propria pretesa, a maggior ragione questa possibilità dovrà essere negata al giudice tributario, perché finirebbe con il sostituirsi ad esso realizzando una surroga del giudice all’amministrazione finanziaria nella individuazione e specificazione della pretesa erariale.
Al fine di non pregiudicare il principio di uguaglianza delle parti nel processo, se il giudice tributario non può modificare i fatti addotti dall’ufficio finanziario, si esclude anche ogni utilizzabilità ad opera di esso di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi non allegati dal ricorrente.
Pertanto si può affermare che sotto il profilo della determinazione dei fatti e dei temi di prova, non essendo consentito al giudice di estendere le sue facoltà istruttorie al di là dei fatti che siano stati dedotti dalle parti, il processo tributario si caratterizza sotto questo profilo in senso marcatamente dispositivo.
Ultimo aspetto da analizzare è quello di verificare se l’impulso di parte possa condizionare i poteri istruttori del giudice. Dall’analisi dell’art. 7 si evincono una serie di poteri che eccedono la normale capacità istruttoria riconosciuta al giudice ordinario, in quanto al giudice tributario è consentito di attivare mezzi istruttori nuovi, fermo restando l’impossibilità di ricercare, ai fini istruttori, nuovi fatti oltre quelli dedotti dalle parti.
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Pertanto si può affermare che se il giudice tributario deve fondare la propria decisione sui fatti che siano stati allegati dalle parti al processo, egli non è in alcun modo condizionato dall’impulso di parte nell’attivare i mezzi istruttori che sono normativamente previsti.
Possiamo concludere che il processo tributario resta un processo inquisitorio per quanto concerne la disponibilità d’ufficio di tutti i mezzi istruttori che siano ritenuti necessari dal giudice entro i limiti dei fatti da provare dedotti dalle parti, mentre non è inquisitorio sotto il profilo del necessario condizionamento dei poteri del giudice ai fatti che siano stati dedotti dalle parti.
Il processo tributario ha, quindi, natura dispositiva sotto tre profili:
▪ spetta al ricorrente fissare l’oggetto del processo, cioè oggetto e motivi della domanda;
▪ è potere esclusivo delle parti fissare i fatti, che il giudice può conoscere, in quanto anche il giudice tributario, oltre che il giudice civile, “salvi i casi previsti dalla legge, deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti”, come disciplinato dall’articolo 115 c.p.c.; ▪ i poteri di acquisizione probatoria sono poteri circoscritti, non dissimili
da quelli conferiti dal codice di procedura civile al giudice ordinario. Essendo ormai pacifico in dottrina come in giurisprudenza che il processo tributario è un processo prettamente dispositivo, vale dunque anche per il giudice tributario il principio enunciato dall’art. 115 del c.p.c. secondo cui il giudice, salvi i casi previsti dalla legge, deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti. Pertanto il giudice è tenuto a porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e solo eccezionalmente acquisire d’ufficio le prove ritenute necessarie per la pronuncia. La raccolta delle prove, quindi, dipende primariamente dall’attività delle parti.
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Poiché il processo tributario è un processo di impugnazione di provvedimenti amministrativi, emessi a conclusione dell’istruttoria amministrativa, compito del giudice è anzitutto quello di vagliare, nei limiti dell’oggetto e dei motivi del ricorso, le prove poste a base del provvedimento.
In definitiva, in dottrina si assiste ad un vasto dibattito dove prevalente è la posizione che ritiene che i poteri istruttori delle Commissioni tributarie siano assolutamente residuali nel contesto di un processo ispirato al principio dispositivo. Da ciò consegue che le Commissioni tributarie non potrebbero svolgere alcuna attività di indagine volta ad eseguire accertamenti che avrebbe dovuto svolgere l’Amministrazione finanziaria per rafforzare i fatti posti a fondamento dell’avviso di accertamento, e neanche per rafforzare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi allegati dal contribuente.
 1.1.1 Principio di non contestazione e fatto notorio
La dispositività del processo porta a sostenere che ogni fatto debba essere oggetto di contestazione. Difatti l’art. 115 c.p.c. prevede che il giudice pone a fondamento della decisione, oltre che le prove proposte dalle parti, i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
L’applicazione dell’art. 115 al processo tributario è stata sostenuta dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 31.3.2010 n. 17: “la norma impone agli Uffici di contestare punto per punto, nei propri atti difensivi, i fatti enunciati nel ricorso dal contribuente, evitando formule generiche.”
Quindi è importante che anche il contribuente censuri ogni eccezione dell’ufficio, in quanto il fatto non contestato è ritenuto non abbisognevole di prova.
I fatti allegati devono essere dimostrati dalle parti, tuttavia il 2° comma dell’art. 115 c.p.c. prevede che: “Il giudice può, senza bisogno di prova, porre
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a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.”
Questo comma disciplina il fatto notorio, il quale comporta una deroga alla dispositività del processo ed al principio del contraddittorio, dando luogo a dimostrazioni non fornite dalle parti e relative a fatti e circostanze non valutate né controllate dalle stesse, per cui deve essere inteso come fatto acquisito alle conoscenze della collettività, nei suoi elementi rilevanti per il giudizio, con un grado di certezza da apparire incontestabile4.
I fatti notori quindi sono circoscritti a situazioni limitate, che si verificano raramente nella pratica.
1.2 Processo di impugnazione-merito
Se i limiti alla attività istruttoria di ufficio delle Commissioni sono costituiti dai fatti dedotti dalle parti si delinea un processo tributario come giudizio di impugnazione-merito, dove oggetto dell’indagine non è solo la legittimità dell’atto di accertamento impugnato, ma anche la fondatezza nel merito dei fatti estintivi, modificativi e impeditivi, cioè le eccezioni poste dal ricorrente. «Qualora il provvedimento impugnato risulti viziato da carenza di motivazione, il giudice tributario deve limitarsi ad una pronuncia di annullamento, senza proseguire ulteriormente l’indagine sull’effettiva sussistenza del debito d’imposta e sostituirsi quindi all’Amministrazione Finanziaria nell’attività di accertamento5».
Pertanto, in presenza di una attività istruttoria pre-processuale compiuta necessariamente dall’Amministrazione finanziaria, i poteri sono conferiti alle Commissioni tributarie solo per verificare l’esistenza dei fatti allegati dall’Amministrazione nell’atto di accertamento e contestati dal contribuente o
4Cass. 25/11/2005 n. 24959
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dei nuovi fatti allegati dall’Amministrazione finanziaria necessari ad impedire l’efficacia dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi della pretesa tributaria addotti dal contribuente ricorrente.
L’impugnazione degli atti impositivi darebbe vita, secondo la giurisprudenza, ad un processo di “impugnazione-merito”. Questa formula viene richiamata per definire sia i poteri istruttori, sia i poteri decisori del giudice tributario. In materia istruttoria vi è un orientamento giurisprudenziale, di ispirazione inquisitoria, che vede nell’intervento del giudice un rimedio al difetto probatorio dell’atto impugnato.
Nella giurisprudenza della Cassazione si incontrano massime in cui la definizione del processo tributario come processo di impugnazione-merito viene adoperata per giustificare l’affermazione che il giudice tributario dovrebbe sostituirsi all’Amministrazione ed esercitare i suoi poteri istruttori per dotare di supporto probatorio la pretesa fiscale. Le massime da ascrivere a questo filone sono numerose.
Questi, però, sono orientamenti non conformi all’art. 7 del D.lgs. 546/92, che vincola il giudice ai fatti indicati dalle parti, per cui la decisione non può essere fondata su elementi estranei all’avviso di accertamento.
Sono inoltre orientamenti che contraddicono le regole di terzietà e imparzialità del giudice, sancite dall’articolo 111 della Costituzione.
È compatibile con le regole del giusto processo solo il diverso giudizio giurisprudenziale secondo cui il giudice può esercitare i suoi poteri istruttori solo qualora sia impossibile o sommamente difficile fornire, da parte di chi vi è tenuto, le prove necessarie. In definitiva, è la concezione del processo tributario come processo dispositivo, nel quale il giudice non può esercitare i suoi poteri istruttori sostituendosi ad una delle parti, quella che si accorda con i canoni del giusto processo6.
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L’orientamento inquisitorio visto sopra in tema di poteri istruttori si salda con l’omologo orientamento che riferisce ai poteri decisori la definizione del processo tributario come processo di impugnazione-merito.
In questo contesto la formula “impugnazione-merito” viene usata per indicare
decisioni sostitutive del provvedimento impositivo, ossia come
“impugnazione-riforma”, in contrapposizione alla tesi secondo cui le decisioni delle Commissioni sono decisioni di mero annullamento, totale o parziale, o di mero accertamento.
Anche riguardo ai poteri decisori delle Commissioni, però, questo orientamento inquisitorio non è accettabile, in quanto è in contrasto con le regole costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice. Non è accettabile l’idea che la decisione della Commissione sostituisca l’atto amministrativo. In dottrina si è osservato che la cosiddetta formula “impugnazione-merito” sarebbe accettabile, e sarebbe conforme al modello del giusto processo, se essa non fosse usata in contrapposizione alla formula “impugnazione-annullamento”, ma significasse esclusivamente che il processo tributario, nei limiti della causa petendi e del petitium, è diretto a accertare sia i vizi formali, sia i vizi sostanziali dell’atto. Cioè il giudice deve accertare la legittimità o la illegittimità dell’atto, e, di conseguenza, annullarlo se illegittimo, in tutto o in parte.
Impugnazione-merito, in questo significato, non sarebbe formula contrapposta ad impugnazione-annullamento, ma impugnazione rivolta all’annullamento dell’atto in ragione di motivi, oltre che di forma, anche di contenuto.
Non vi è dubbio, infatti, che giudice tributario possa pronunciare sia sentenze che annullano in toto l’atto impositivo, sia sentenze che lo annullano in parte, ad esempio perché riducono la base imponibile determinata nell’avviso di accertamento.
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La giurisprudenza riconosce che il giudice tributario può annullare gli atti impositivi che riconosce illegittimi e non deve limitarsi solo ad accertarne e dichiararne i vizi.
La stessa giurisprudenza distingue tra casi in cui il giudice annulla l’atto impugnato e casi in cui elimina e sostituisce, Distingue, quindi, tra “mero annullamento” e “annullamento-riforma”.
«La pronuncia deve necessariamente arrestarsi all’annullamento dell’atto impugnato se i vizi formali che lo inficiano incidono sulla sostanza del rapporto precludendo l’indagine sul merito dello stesso, come nei casi di incompetenza assoluta dell’organo o di mancanza di motivazione»7.
Se, invece, non sono accertati vizi che implicano il mero annullamento, il giudice non deve limitarsi a rimuovere l’atto impugnato, ma deve emettere una decisione cosiddetta di merito, cioè sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento. Ad esempio, se la motivazione non è mancate, il giudice deve andare oltre, e determinare il quantum dovuto.
Giudizio di “impugnazione-merito” non significa dunque mero accertamento, ma “annullamento-riforma” dell’atto impugnato, ossia determinazione ex novo della base imponibile del tributo, anche sulla base di prove e criteri diversi da quelli posti dall’Amministrazione a fondamento dell’atto impugnato.
Ciò significa, in pratica, che la formula “impugnazione-merito” viene applicata a decisioni che sono in realtà decisioni di annullamento parziale. Ad esempio, la sentenza che riduce il valore di un immobile, o la misura del reddito accertato, è una sentenza di annullamento parziale, che il giudice tributario può legittimamente assumere.
Non è accettabile, invece, l’idea che la decisione della Commissione sostituisca l’atto amministrativo. Non è accettabile, insomma, il concetto secondo cui il giudice, avvalendosi dei suoi poteri istruttori, potrebbe svolgere
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una indagine che prescinde dai fatti sui quali si fonda l’atto impositivo, e, in base ai risultati cosi acquisiti, non si limiterebbe ad annullare in parte l’atto impositivo, ma sostituisca l’atto impugnato. Ciò significa connotare in senso inquisitorio i poteri del giudice tributario8.
Sia il riconoscimento al giudice tributario di poteri istruttori di tipo inquisitorio, sia il riconoscimento di poteri decisori sostitutivi dell’atto impugnato, configgono con le regole costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice.
In definitiva si sostiene che il processo tributario non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, bensì tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto esso non mira alla mera eliminazione dell’atto impugnato ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva, sia della
dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento
dell’amministrazione finanziaria.
Dunque il giudice tributario, che ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’amministrazione, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare l’esatta pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum delle parti, e ricondurla alla corretta misura.
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CAPITOLO 2
LE PROVE NEL PROCESSO TRIBUTARIO
2.1 Mezzi di prova nel processo tributario
Nel processo tributario i fatti delineanti la materia del contendere devono essere allegati dalle parti, dato che al giudice non è in alcun modo consentito ampliare il thema decidendum.
La descrizione del fatto costituente la maggiore pretesa vantata dall’ente impositore deve essere contenuta nell’atto impositivo, in quanto quest’ultimo deve essere sempre sorretto da un adeguato asseto motivazionale.
Nella fase processuale i fatti che sono stati descritti dall’ente nel provvedimento devono essere anche dimostrati.
Con la riforma del processo tributario introdotta dal D.lgs. 546/92, pur stante un apprezzabile riordino della materia, non sono mancate le critiche per le incertezze circa l’utilizzo degli strumenti probatori nel processo tributario e sui margini e limiti nella valutazione delle prove da parte del giudice tributario, che derivano dall’insufficienza e dalla genericità delle disposizioni normative in materia istruttoria e probatoria.
Questi limiti emergono da una attenta lettura dell’art. 7, D.lgs. 546/92, il quale, pur indicando al comma 4 le prove che non sono ammesse, nulla dice su quelle ammesse, limitandosi ad un richiamo a quelle documentali attraverso l’esplicito riferimento alle consulenze ed alle relazioni tecniche acquisibili dalle Commissioni tributarie nell’esercizio dei poteri istruttori assegnati. Il processo tributario, quindi, è fondamentalmente e quasi esclusivamente un processo documentale, in quanto il 4° comma dell’art. 7 vieta, appunto, il giuramento e la prova testimoniale.
Dunque non troverebbero ingresso nel processo tributario le cosiddette prove orali, tuttavia in dottrina non si manca di osservare di come queste prove dovrebbero ormai essere formalmente ammissibili.
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In sostanza, le prove che possono essere utilizzate nel processo tributario sono: i documenti, intendendosi per tali gli atti pubblici, le scritture private autenticate, le scritture private, le copie fotostatiche e i supporti informatici; gli scritti riportanti dichiarazioni di terzi; gli scritti riportanti dichiarazioni del contribuente; le presunzioni.
Fra i mezzi di prova si suole distinguere fra prove precostituite, formatesi fuori e prima del processo, e prove costituende, che invece si formano nel corso del processo.
La prova precostituita regina è la prova documentale, che può essere fornita a mezzo di atto pubblico, di scrittura privata autenticata o semplice, e da altri atti diversi (comunicazioni e-mail, fax, telegrammi, ecc.). Le prove precostituite sono le prove che non necessitano di alcuna valutazione da parte del giudice se non riguardo alla loro validità. La prova documentale necessita appunto di essere soltanto apprezzata in quanto prodotta dalla parte nel processo.
Le prove costituende sono quelle prove dedotte per effetto dei poteri istruttori accordati alle Commissioni. Esse necessitano di una doppia valutazione da parte della Commissione, devono cioè essere ammesse nel processo nel quale si formano ed in seguito devono essere valutate dal giudicante per la loro validità.
Poiché la prova nasce con il processo e nel processo, la Commissione è chiamata a prestare in prima persona la sua opera di assunzione. Alla fase di assunzione si farà luogo ogni qual volta sia positivamente risolto dalla Commissione il quesito relativo alla legalità formale ed all’utilità ed influenza sostanziale, ai fini del giudizio, del mezzo di prova proposto.
Nel processo tributario le principali prove costituende ammesse ed esperibili sono le ispezioni, la richiesta di informazioni alle Pubblica Amministrazione e le consulenze tecniche.
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La prova cosiddetta documentale costituisce il mezzo istruttorio privilegiato per l’accertamento dei fatti in causa, specie in un giudizio squisitamente tecnico quale quello tributario dove è attualmente preclusa la prova orale. I documenti possono rivestire sia la forma della scrittura privata, sia la forma dell’atto pubblico.
L’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da alto pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, e fa piena prova fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. La scrittura privata è qualunque documento che non proviene da un pubblico ufficiale. Requisito essenziale della scrittura privata è la sottoscrizione, che fa acquistare al documento la particolare efficacia probatoria prevista dall’art. 2707 c.c.: “La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta”.
La scrittura privata autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale si ha per riconosciuta.
 2.1.1 Le presunzioni
Lo stato attuale del complesso sistema normativo sull’accertamento dei tributi prevede ampiamente l’utilizzo di presunzioni, sia legali, sia semplici a mero valore indiziario se non gravi, precise e concordanti.
Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato. La presunzione è il mezzo di prova più frequente insieme alla prova documentale.
Gli elementi che la caratterizzano sono il fatto certo, quello ignoto, ed il nesso di casualità tra i due. Quando il nesso di casualità è ritenuto dalla legge si ha
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una presunzione legale, quando invece è ritenuto dal giudice si ha una presunzione semplice.
Le presunzioni legali possono essere assolute, in quanto non ammettono la prova contraria, o relative, che ammettono la prova contraria. Nell’ordinamento tributario si utilizzano ormai ampiamente e diffusamente disposizioni che costituiscono presunzioni legali assolute o relative per agevolare l’ente impositore nello svolgimento delle proprie funzioni accertative, ed un tipico esempio è rappresentato dalle attuali norme che regolano e consentono il procedimento accertativo del reddito imponibile che si basa sugli studi di settore e sullo strumento del redditometro.
Le presunzioni semplici sono lasciate alla prudenza del giudice e scaturiscono da elementi gravi, precisi e concordanti.
Le presunzioni, quindi, più che nel processo hanno rilevanza nella fase di accertamento, posto che gli uffici possono determinare il reddito del contribuente tramite elementi indiziari. Tuttavia possono essere utilizzate anche dalle Commissioni tributarie, in quanto, secondo il 1° comma dell’art. 7 del D.lgs. 546/92, esse esercitano tutte le facoltà conferite agli uffici tributari e all’ente locale da ciascuna legge d’imposta.
Nel diritto tributario non si applica il 2° comma dell’art. 2729 c.c. secondo cui le presunzioni semplici sono escluse nei casi in cui non è ammessa la prova testimoniale. Se questa norma avesse valore le presunzioni semplici sarebbero del tutto escluse dal processo tributario, in quanto in questo processo la prova testimoniale non è ammessa.
Tale assunto è privo di pregio in quanto la prova presuntiva è espressamente ammessa dal legislatore nella fase di verifica, di conseguenza è destinata a riflettersi in sede processuale.
Il diritto tributario ammette anche le cosiddette presunzioni “semplicissime”. Nella disciplina dell’accertamento induttivo sono ammesse presunzioni per le
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quali non si richiede che siano basate sopra elementi gravi, precisi e concordanti. Si ritiene che tali presunzioni siano ammesse nei casi in cui non vi è da determinare un fatto ma vi è da determinare un valore.
 2.1.2 La confessione
L’articolo 7 del D.lgs. 546/92 riassume nella sua estrema sinteticità sia le regole sull’istruzione probatoria, circoscrivendo i limiti dell’autonoma iniziativa del giudice tributario, che la disciplina delle prove.
Nessun altro articolo è dedicato alle prove o all’istruzione probatoria e, perciò, sono applicabili, per quanto non disposto, e purché compatibili, le norme del codice di procedura civile, per effetto del rinvio espresso contenuto nel comma 2 dell’articolo 1 del D.lgs. 546/92.
Anche le norme sull’efficacia dei mezzi di prova presenti nel codice civile valgono, in linea di massima, anche nel diritto tributario. L’applicabilità del codice civile non è prevista da una norma di rinvio, ma discende dall’essere, quelle norme, norme di diritto comune, applicabili anche al diritto pubblico. Non sono però applicabili le norme la cui ratio è strettamente privatistica. In tale contesto è, quindi, applicabile al processo tributario anche la confessione. L’articolo 2730 del c.c. definisce la confessione come “la dichiarazione che una parte fa della verità dei fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. La confessione è giudiziale o stragiudiziale”.
Non di rado la legislazione tributaria da rilievo alle ammissioni, da parte del contribuente, di fatti a lui sfavorevoli, come ad esempio nel caso delle risposte ad eventuali questionari, alle risposte verbalizzate ai sensi dell’art. 32, 1° comma, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, delle deduzioni di cui all’art. 16, D.lgs. n. 472/1997, e più in generale del contenuto delle dichiarazioni tributarie9.
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Nei limiti in cui queste dichiarazioni di parte sono riconducibili alla confessione stragiudiziale, di cui all’art. 2735 c.c., esse vengono esattamente configurate come prova a favore dell’Amministrazione finanziaria.
Pertanto, nonostante il silenzio del D.lgs. 546/92, la confessione stragiudiziale penetra nel processo tributario.
La confessione, seppure non espressamente contemplata dall’articolo 7 del D.lgs. 546/92, non è prova esclusa ed è ormai ritenuta prova ammessa nel processo tributario, sia essa contenuta negli atti del medesimo sia in altri processi ed infine in qualsiasi altro atto, quale confessione stragiudiziale. Il problema è invece quello del valore probatorio di tali elementi. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che, nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, la confessione stragiudiziale ha natura di prova liberamente valutabile, soggetta quindi al prudente apprezzamento del giudice ex art. 116, 1° comma, c.p.c.
 2.1.3 Le prove atipiche
Il problema che si pone è se l’elencazione analitica dei mezzi di prova prevista e disciplinata dal codice di procedura civile, stante la formulazione dell’art. 7 del D.lgs. 546/92, implica il divieto di includerne altri, ovvero se la mancanza di una norma di chiusura che esprima formalmente tale divieto consenta di argomentare per l’ammissibilità di prove atipiche, cioè non rientranti nel numerus clausus previsto dalla legge10.
Nell’ambito del diritto processuale civile e analogamente nel diritto processuale tributario è data una tendenziale possibilità di utilizzazione delle prove atipiche.
Sulle prove atipiche manca nell’ordinamento processuale civilistico, e di rimando anche tributario, un articolo che stabilisce che quando è richiesta una
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prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti.
Detto ciò, non è esclusa, in linea di principio, l’acquisizione del dato atipico nel rispetto del principio del giusto processo che deve garantire il diritto alla prova ed il libero convincimento del giudice. Per cui, in funzione dell’accertamento della verità sui fatti controversi, potranno essere utilizzabili come elementi di prova, ad esempio, le sentenze emesse in altri processi e, sempre con valenza indiziaria, le prove aliunde formate, cioè acquisite in altri giudizi (che restano tipiche solo nel processo in cui si sono formate) quali le testimonianze rese nel corso di processi civili e penali (o le relazioni di consulenza depositate) siccome equiparabili alle dichiarazioni di terzi rese in sede extraprocessuale.
2.2 L’acquisizione al processo delle prove
Le prove precostituite, per essere sottoposte alla cognizione del giudice tributario, devono essere disponibili attraverso una attività che viene definita di produzione. La vigente disciplina processuale ammette la produzione dei documenti fino a venti giorni liberi prima della trattazione della causa. Questi vanno elencati negli atti di parte o, se prodotti separatamente, vanno indicati in apposita nota sottoscritta che viene depositata in originale.
I documenti presentati senza il rispetto di tali adempimenti dovranno considerarsi come non presentati e saranno nel caso considerati ininfluenti ai fini probatori, dovendosi escludere che la Commissione tributaria possa d’iniziativa e dunque d’ufficio sopperire al loro mancato deposito ordinandone successivamente l’esibizione, salvo il caso in cui la situazione probatoria sia tale da impedire la pronuncia di una sentenza ragionevolmente motivata senza l’acquisizione d’ufficio di documento. Per cui sarebbe persino illegittimo il
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rifiuto da parte della Commissione tributaria di esercitare per tal fine acquisitivo i propri poteri istruttori.
Le prove nel processo tributario sono quindi introdotte in primo luogo dalle parti e, solo nel caso in cui esse si dovessero rilevare insufficienti rispetto ad un’utile ricostruzione dei fatti, la Commissione può esercitare, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti in causa, i poteri indicati dall’art. 7 del D.lgs. n. 546/92.
2.3 Valutazione delle prove
Nel processo tributario vale il principio del libero convincimento del giudice, per cui la Commissione è libera di valutare le prove nella maniera che ritiene più opportuna. La giurisprudenza ha precisato che la scelta relativa all’individuazione degli elementi probatori rilevanti deve essere esternata o implicitamente ricavabile dalla decisione11.
Tuttavia questo principio è derogato dalle numerose prove legali, come l’atto pubblico e le presunzioni legali, le quali sono idonee a vincolare la decisione del giudice.
La valutazione della Commissione dovrà essere riferita a tutto il materiale di cognizione acquisito, per iniziativa delle parti o di ufficio, e ne dovrà dare conto nella motivazione della sentenza.
Utilizzabili per la decisione sono anche i cosiddetti argomenti di prova, ossia degli elementi utilizzabili per una corretta valutazione dei fatti costituenti le prove. Trattasi in particolare del comportamento processuale delle parti; dell’inerzia dell’Amministrazione Finanziaria nello specificare i criteri di decisione o nel contestare le difese del contribuente; o ancora, delle risposte
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all’interrogatorio non formale; o del rifiuto ingiustificato di adempiere agli ordini d’ispezione o di deposito di documenti.
2.4 Onere della prova
La regola dell’onere della prova indica al giudice in quale modo decidere la controversia quando un fatto non è provato.
Un fatto non provato, nel processo, è un fatto non accaduto. La decisione risulta così sfavorevole alla parte interessata all’avvalersi del fatto non provato, che era onerata alla prova di quel fatto.
L’onere della prova è disciplinato dall’articolo 2697 del Codice Civile: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.”
La distribuzione dell’onere probatorio varia in base alla posizione processuale e sostanziale delle parti, ovvero al diritto fatto valere in connessione all’atto impugnato.
Nei processi di impugnazione, come il processo tributario, il criterio posto da questo articolo non va riferito alla posizione processuale delle parti, ritenendo che l’onere della prova gravi sul contribuente in quanto ricorrente, ma va inteso considerando che è in discussione un atto emesso dalla Pubblica Amministrazione per far valere un suo diritto.
Attore sostanziale è, quindi, la Pubblica Amministrazione, essa è perciò onerata alla prova del presupposto del tributo, e non vale a suo favore alcuna presunzione che non sia espressamente prevista dalla legge.
Nel processo tributario, il contribuente può considerarsi attore solo in senso formale, in quanto la pretesa, sin dalla fase di verifica, è avanzata dall’ente impositore.
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In sede processuale, infatti, sono in discussione, se contestati dal contribuente, i fatti sui quali si fonda l’atto impugnato. L’Amministrazione Finanziaria ha l’onere di provarli ed il giudice deve decidere la controversia considerando non avvenuti i fatti a base del provvedimento se sono sforniti di prova.
Ciò premesso, è importate che il contribuente fornisca sempre la prova dell’infondatezza della pretesa, posto che sarebbe imprudente confidare in una sentenza di accoglimento del ricorso basata sulla sola violazione dell’art. 2697 c.c.
L’onere della prova acquista particolare rilevanza nell’ambito dei ricorsi contro gli accertamenti presuntivi o induttivi, poiché, date le peculiarità di tali rettifiche, è l’ufficio che deve dimostrare adeguatamente la fondatezza della pretesa.
L’incombenza dell’onere della prova sull’Amministrazione finanziaria ha il suo fondamento nel fatto che quello impugnato dal contribuente è un atto emesso dall’Amministrazione finanziaria, atto che deve essere motivato per la sua validità.
La motivazione deve intendersi realizzata, secondo la giurisprudenza e la dottrina relativamente all’avviso di accertamento, senza che l’ufficio debba necessariamente indicare le prove della fondatezza della pretesa erariale. La motivazione infatti, non deve convincere il contribuente della fondatezza della pretesa erariale, ma deve solo consentire ad esso di ricostruire l’iter logico-giuridico seguito dall’ufficio nella determinazione della sua pretesa e la sua legittimità. In tal caso, però, l’ufficio ha l’onere di provare in giudizio la sussistenza dei concreti elementi di fatto che giustificano la pretesa erariale. Spesso la prova della pretesa erariale è contenuta negli stessi avvisi di accertamento o in altri atti nei quali è racchiusa la motivazione per relationem dell’avviso di accertamento, dal momento che la prova nel processo tributario è essenzialmente documentale.
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La concreta ripartizione degli oneri probatori in giudizio risentirà della scelta operata dall’Amministrazione finanziaria nella redazione della motivazione dell’atto di accertamento.
In presenza di avvisi di accertamento contenenti già in motivazione le prove utilizzate dall’ufficio, l’onere della prova viene posto a carico del contribuente, dal momento che l’ufficio ha già adempiuto prima del processo il proprio onere dimostrativo nella motivazione dell’atto.
Più propriamente, incombe sul contribuente l’onere della prova contraria. Nel corso del giudizio l’Amministrazione non può cambiare la motivazione dell’accertamento operato allegando fatti diversi da quelli indicati nell’atto impugnato, poiché la pretesa impositiva si cristallizza con l’emanazione dell’accertamento. Altrettanto non può fare il giudice sostituendosi all’Amministrazione Finanziaria per cercare alternative ragioni giustificative della pretesa erariale.
Ciò comporta che, nel processo, la discussione dovrà concernere la debenza del tributo in relazione alle argomentazioni fornite dall’ufficio in sede di emanazione dell’atto, e non con riferimento ad altre ragioni.
Pertanto, se l’accertamento non risulta motivato, sulla base degli elementi indicati nella stessa motivazione e delle prove prodotte in giudizio dall’ufficio, è illegittimo e va annullato.
Nel sistema giuridico sono frequenti i casi in cui la legge pone a carico di una delle parti la prova di un determinato fatto12.
In diritto tributario ciò è spesso attuato mediante il meccanismo della presunzione legale. Ai sensi dell’art. 2728 c.c. “le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite.” Nelle presunzioni legali relative, l’ente impositore si limita alla dimostrazione del fatto noto del meccanismo presuntivo, e al contribuente spetta fornire la prova contraria. Queste comportano nella sostanza un’inversione dell’onere
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della prova a vantaggio della Amministrazione Finanziaria in favore della quale opera la presunzione, mentre tocca al contribuente l’onere della controprova.
La loro previsione ha lo scopo di favorire la raccolta della prova contro il contribuente in una situazione in cui, altrimenti, sarebbe particolarmente complesso farlo.
Nell’ordinamento tributario sono presenti anche alcune presunzioni legali di tipo assoluto, contro le quali però non è ammessa la prova contraria.
La giurisprudenza ha individuato alcune fattispecie in cui l’onere della prova deve essere assolto dal contribuente.
Si tratta in sostanza di tutti gli elementi che concorrono alla riduzione del carico fiscale quali, ad esempio, l’inerenza o la sussistenza del diritto di detrazione dell’IVA sugli acquisti.
Al riguardo la Corte di Cassazione ha sancito che il criterio dell’onere della prova «impone al giudice di merito di accertare, in primo luogo, se la pretesa tributaria dedotta in giudizio derivi dall’attribuzione al contribuente di maggiori entrate oppure dal disconoscimento di costi od oneri deducibili esposti dallo stesso, perché solo la esatta individuazione della parte tenuta per legge a dare la prova afferente consente al giudice di porre a carico della stessa le conseguenze giuridiche derivanti dall’accertata inosservanza di detto onere»13.
Anche nelle controversie aventi ad oggetto il rimborso di un tributo, nelle quali la posizione processuale dell’attore formale, cioè chi fa la domanda, coincide con quella sostanziale, l’onere probatorio grava sul contribuente che deve provare l’indebito. Il giudizio in questi casi verte sul silenzio-rifiuto dell’Amministrazione Finanziaria e sulla richiesta di rimborso avanzata dal contribuente a seguito dell’avvenuto pagamento dell’imposta non dovuta.
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I principi descritti si collocano nel solco della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, attenta a valutare l’onere della prova in modo da non generare un ingiustificato squilibrio tra le parti, che ha portato all’abbandono della teoria in base alla quale graverebbe solo sull’Amministrazione l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale.
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CAPITOLO 3
I POTERI ISTRUTTORI DELLE COMMISSIONI
TRIBUTARIE
3.1 L'attività istruttoria delle Commissioni tributarie
La natura dispositiva del processo tributario implica che, sebbene nell'istruzione della causa il giudice abbia, per espresso dettato dell'art. 7 del D.lgs. 546/92, il potere di indagine e dunque di andare a ricercare legittimamente la verità, egli possa fare ciò solo "nei limiti dei fatti dedotti dalle parti" a sostegno delle rispettive domande ed eccezioni.
I poteri investigativi delle Commissioni quindi, pur se parametrati a quelli degli uffici tributari, non possono avere finalità esplorative, ma sono vincolati nelle loro finalità. Essi, infatti, possono riguardare solo i fatti e i temi di prova, connessi alla specifica domanda, indicati dalle parti, alle quali appartiene in via esclusiva il potere di indicare e circoscrivere i fatti rilevanti per il giudizio. Solo in tale ambito, dunque, i poteri istruttori della Commissione possono essere legittimamente esercitati.
I poteri delle Commissioni tributarie, disciplinati dall’art. 7 del D.lgs. 546/92, vanno esercitati, su richiesta di una parte o d’ufficio, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, cioè per raccogliere le prove necessarie a decidere la controversia. Ciò presuppone una valutazione di insufficienza del materiale probatorio già disponibile.
Ragionare in questo modo porta alla conclusione che il contenzioso tributario è caratterizzato dal monopolio delle parti di fissare l'oggetto del giudizio, cosicché alle Commissioni tributarie è riconosciuta solo una mera finalità istruttoria, venendo così rispettato il predetto art. 7 D.lgs. 546/92, che vuole il potere delle Commissioni limitato ai fatti dedotti in giudizio.
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Accettare questa interpretazione significa allo stesso tempo giustificare il principio dispositivo che si applica al processo tributario in tema di prova per il richiamo che l'art. 1 del D.lgs. 546/92 effettua all'art. 115 c.p.c.
Di diverso avviso è un'altra nutrita parte sia della giurisprudenza sia della dottrina, che ravvisa una portata di tale norma in modo meno restrittivo. Tale indirizzo, ritenendo il processo amministrativo caratterizzato da un sistema impositivo con metodo acquisitivo delle prove, riconosce al giudice un potere inquisitorio quanto alla ricerca delle prove.
Nel processo tributario le Commissioni tributarie, dotate di ampio potere estimativo, anche sostitutivo, avvalendosi dei larghi poteri istruttori ad esse attribuiti, possono acquisire aliunde gli elementi di decisione, prescindendo dall'accertamento dell'Ufficio e dell'eventuale difetto di prova del sua assunto, con la conseguenza che, una volta esercitato siffatto potere, il contribuente non ha più interesse a dolersi del difetto di motivazione sull'eccezione relativa alla carenza di prova della pretesa impositiva14.
Nella sentenza della Corte di Cassazione 20 gennaio 2006 n. 1135 si legge: «L'art. 7 del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 assegna, infatti, alle Commissioni tributarie ampi poteri istruttori, compresa la possibilità di acquisire elementi conoscitivi mediante la richiesta di apposite relazioni affidate ad organi tecnici dell'Amministrazione, con la sola esclusione, fra le prove ammissibili, del giuramento e dell'assunzione di testimoni, o mediante esame di documentazione comunque prodotta in giudizio dalle parti. Tali poteri sono conferiti proprio in funzione della valutazione, ad esse affidata, della legittimità e della congruità delle pretese dell'uffici; i giudici tributari di merito possono cioè acquisire aliunde, prescindendo dagli accertamenti dell'Ufficio, gli elementi di decisione, di cui compiono una valutazione autonoma, rispetto all'assunto di quest'ultimo».
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Il punto dello scontro in dottrina e giurisprudenza è stabilire quali criteri la Commissione debba seguire per scegliere se esercitare i poteri di cui all’art. 7 per acquisire nuove prove, o decidere subito, ponendo le conseguenze della mancanza o insufficienza di prove dei fatti allegati dalle parti a carico di chi aveva interesse a dimostrare la sussistenza del fatto controverso.
Per stabilire i criteri che le Commissioni devono seguire è necessario risolvere la querelle circa la funzione dell’istruttoria processuale tributaria, se cioè sia solo di integrazione e controllo degli elementi prodotti dalle parti, oppure se sia svincolata da tale limite in quanto indagine diretta a ricostruire la verità storica al pari del processo penale. Il problema va risolto rispondendo alla domanda sulla natura stessa del processo tributario.
I sostenitori dell’idea secondo cui il giudice debba ricercare gli elementi necessari per accertare la verità storica, prescindendo dalle inerzie delle parti, si fondano sulla corrispondenza dei poteri istruttori delle Commissioni a quelli degli uffici tributari, oltre al carattere pubblicistico e alla rilevanza costituzionale degli interessi coinvolti in questa materia.
Talvolta la giurisprudenza ha ritenuto che i giudici possano acquisire autonomamente, a prescindere da quelli addotti dall'ufficio accertatore, gli elementi necessari alla valutazione della pretesa tributaria e dunque funzionali alla decisione, esercitando i poteri istruttori in modo da supportare la pretesa fiscale15.
Tale orientamento, per altro precedente all'abrogazione del 3° comma dell'art. 7, non può essere condiviso.
Secondo l'autorevole opinione dei Giudici Costituzionali, che hanno censurato ogni interpretazione che avalli un ruolo di supplenza probatoria della giurisdizione tributaria e richiamato il basilare principio della terzietà del giudice sancito dal novellato art. 111 della Costituzione con riguardo ad ogni processo, e dunque anche al processo tributario, non è condivisibile