CAPITOLO 4 IL GIUSTO PROCESSO TRIBUTARIO
4.2 Giusto processo tributario e poteri istruttori
I poteri istruttori delle Commissioni tributarie, come già detto, sono previsti e regolati dall’art. 7, D.lgs. 546/1992 e sono modellati in base a quelli conferiti agli Uffici finanziari per gli accertamenti delle imposte, ma da tempo in dottrina sono state sollevate varie perplessità per le obiettive incertezze sul giusto utilizzo di tali strumenti probatori nel processo tributario e sui margini di valutazione da parte dei giudici tributari, che derivano dalla genericità delle disposizioni normative in materia istruttoria e probatoria.
L’art. 7, pur indicando al comma 4 le prove che non sono ammesse, nulla dice su quelle ammesse, limitandosi ad un richiamo a quelle documentali attraverso l’esplicito riferimento alle consulenze ed alle relazioni tecniche acquisibili da parte delle Commissioni tributarie nell’esercizio dei poteri istruttori assegnati. Quelle altre poche norme sulle prove riguardano i termini per il deposito dei documenti alle commissioni, come l’art. 32, o le nuove prove in appello, art. 58, che possono qualificarsi come mere norme di tipo procedimentale.
In tale contesto deve essere opportunamente preso in considerazione il riformato articolo 111 della Costituzione, il quale dispone nei primi 2 commi, introdotti dalla Legge Costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, che: “La
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giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.”
L’art. 111 della Costituzione deve essere applicato ad ogni processo, dunque anche a quello tributario. Tuttavia, alcuni interventi della dottrina hanno rilevato di come l’attuale processo tributario, proprio con particolare riferimento all’esercizio dei poteri istruttori assegnati alle Commissioni tributarie, non sia conforme ai nuovi canoni che devono caratterizzare il giusto processo.
Il giudice tributario può esercitare ampi poteri nella fase istruttoria, sicché la dottrina si è interrogata in che misura l’esercizio di suddetti poteri possa ritenersi non collidere con i canoni del giusto processo.
Un primo orientamento giustifica la ratio di tali poteri nell’esigenza di sopperire ad eventuali carenze probatorie dell’avviso di accertamento emesso dall’ufficio finanziario. Posizione da ritenersi di ispirazione inquisitoria poiché non pone il giudice nella giusta collocazione di soggetto terzo, imparziale ed al di sopra delle parti, così come prevede il novellato art. 111 della costituzione, onde permettergli un equo e distaccato giudizio in ordine agli elementi di doglianza posti alla sua attenzione.
Mediante l’esercizio di attività istruttorie adottabili anche d’ufficio si conferirebbero al giudice tributario strumenti tecnico-giuridici attraverso i quali la Pubblica Amministrazione realizzerebbe esaustivamente il “confezionamento” dell’atto impositivo che così sarebbe esente da vizi, aggirando l’ostacolo dell’eventuale carenza del materiale probatorio attraverso il rimedio dei poteri devoluti al giudice tributario.
Tale sostituzione del giudice al Fisco risponde all’assunto giurisprudenziale secondo cui le commissioni tributarie sarebbero legittimate a compiere una valutazione autonoma rispetto alla conclusione dell’ufficio competente,
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potendo acquisire aliunde gli elementi ritenuti utili e necessari per la decisione. I giudici tributari potrebbero, astrattamente, non considerare e superare gli stessi elementi probatori forniti dal Fisco.
A tale orientamento si è contrapposto quello di altra dottrina che, criticandolo, lo ritiene in evidente distonia con il disposto dell’art. 7 del D.lgs. 546/92. Questa dottrina ha sempre riaffermato quell’interpretazione prevalente della norma tesa a dotare il giudice tributario di opportuni e necessari poteri istruttori, ma al fine di svolgere una piena funzione cognitiva attenendosi esclusivamente ai fatti dedotti dalle parti. Ne discende che il giudice tributario, nel decidere, deve emarginare tutto ciò che, con riferimento al materiale probatorio offerto dalla parte pubblica, è estraneo all’avviso di accertamento. Naturalmente deve tenere il medesimo comportamento in relazione ad eventuali elementi non dedotti dal contribuente, che quindi non potrà utilizzare in giudizio.
È stato, tuttavia, rilevato che è compatibile con i principi del giusto processo l’intervento istruttorio del giudice tributario teso ad integrare la fase istruttoria esclusivamente nelle limitate ipotesi in cui la parte onerata dimostri che sia impossibile o sommamente difficile fornire gli elementi di prova necessari per l’esaustivo esito del giudizio. Diversamente il giudice, sostituendosi ad incombenze che la legge fa ricadere esclusivamente sulle parti, agirebbe in aperta e palese violazione della natura dispositiva del processo tributario, ed ancor più in violazione dei principi del giusto processo tributario, costituzionalmente garantiti.
In particolare, la Corte di Cassazione ha osservato come le Commissioni tributarie non possano utilizzare i poteri istruttori ex art. 7 per «sostituire integralmente l'onere probatorio incombente in via principale sull'Amministrazione di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale, o acquisire d'ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del contribuente, salvo il caso in cui l'onere probatorio
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sia impossibile o sommamente difficile da esercitarsi», poiché altrimenti, ove i poteri istruttori fossero liberamente esercitati dalle Commissioni «in forma di supplenza dell'attività dell'Amministrazione, supportando, con quei poteri, fatti che di per se sono sforniti di prova, il giudice tributario rischierebbe di trasformarsi in organo attivo dell'Amministrazione finanziaria, perdendo irrimediabilmente la sua terzietà47».
Dalla puntuale applicazione del principio dispositivo ex art. 115 c.p.c. e dalla regola in materia di ripartizione dell'onere della prova emerge, dunque, una connotazione del processo tributario in linea con quanto prescritto dall'art. 111 della Costituzione in tema di "giusto processo".
Le parti, infatti, si trovano in posizione di assoluta parità, dal momento che ciascuna di esse dovrà provare i fatti che costituiscono il fondamento del proprio diritto e il giudice non potrà che considerare, ai fini decisori, i fatti rilevanti che le stesse parti abbiano proposto secondo i dettami delle regole processuali, collaborando ma non sostituendosi alle stesse nel rispetto del principio di terzietà ed imparzialità48.
Altra corrente di pensiero diverge dall’opinione secondo cui l’esercizio dei poteri delle Commissioni tributarie violerebbe i principi del giusto processo per l’attribuzione di poteri inquisitori al giudice tributario, che opererebbe pro fisco nel caso di un avviso di accertamento probatoriamente carente. Si sostiene che tali poteri siano comunque finalizzati a ripristinare un equilibro tra le parti ancorché il giudice, come deve essere, ne faccia un uso ponderato. Il riconoscimento di tali poteri di iniziativa istruttoria da parte del giudice tributario in funzione correttiva ed integrativa della carenza probatoria dell’ufficio impositore, realizzano comunque una funzione probatoria che viola il rapporto paritetico che deve necessariamente sussistere fra le parti processuali e si colloca in violazione dei canoni del giusto processo.
47Cass. 30/05/2005, n. 11485
48FANNI M., I poteri istruttori delle Commissioni tributarie dopo l'abrogazione del potere di
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Il giudice tributario non necessariamente ne sfrutterà la portata per favorire il Fisco, in quanto tali poteri devono comunque costituire lo strumento per un rapporto paritetico, quindi, all’occorrenza, anche per finalità dirette a soddisfare interessi del contribuente.
In definitiva, il giudice tributario, nell’ambito di quei poteri di istruzione che gli vengono conferiti dall’art. 7 del D.lgs. n. 546/92 unicamente ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, può dirsi veramente terzo ed imparziale soltanto se:
▪ dispone di intervenire ex officio unicamente dopo l’avvenuto esaurimento delle attività istruttorie esperite su iniziativa di ciascuna delle parti, nell’esercizio dei rispettivi diritti ed oneri probatori, cioè unicamente quando egli abbia potuto constatare che residuano dubbi ontologici ed oggettivi, sulla sussistenza dei fatti da accertare, o sono comunque insufficienti le prove all’uopo raccolte, ma che le parti non siano in grado di porvi rimedio da sole;
▪ si astiene, quindi, dal promuovere alcuna delle attività istruttorie, a lui consentite dall’art. 7, al dichiarato fine di supplire o di ovviare ad una carenza di prova, soggettivamente imputabile all’una o all’altra delle parti gravate dai rispettivi oneri probatori o, peggio ancora, al fine di neutralizzare gli effetti preclusivi di una decadenza, da cui l’una o l’altra possa essere stata precedentemente colpita;
▪ si cura di dare conto in una motivazione congrua ed immune da vizi logico-giuridici delle ragioni che lo abbiano indotto ad esercitare i suoi poteri integrativi ovvero a non farne uso, o a rifiutarne l’esercizio, pur in presenza di un’istanza o di una sollecitazione di parte.
In questi termini, dunque, le garanzie del giusto processo rendono ormai ineludibile il pieno soddisfacimento di una duplice esigenza: da un lato, la discrezionalità del giudice deve sempre configurarsi come tecnicamente limitata, con riferimento ai fini istruttori ed al limite derivante dalle allegazioni
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di fatto delle parti; dall’altro, il rispetto di quei limiti, generali o speciali, cui essa è sottoposta, deve sempre essere suscettibile di un controllo o di un sindacato impugnatorio.
In conclusione, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione, riconoscendo l’esistenza di una disparità di poteri fra le parti in causa, con varie sentenze che si sono susseguite in questi ultimi anni, stanno cercando di dare attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’articolo 111 della Costituzione, per garantire l’effettivo principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa.
Si può affermare che nella pratica non si riscontra una piena attuazione di questi principi per cui il contribuente viene a trovarsi spesso in una condizione di debolezza processuale rispetto all’Amministrazione finanziaria. Questo soprattutto con riferimento agli ampi poteri istruttori offerti all’Ente impositore e perché raramente i poteri istruttori delle Commissioni Tributarie vengono esercitati su richiesta del contribuente.
È stato infatti criticamente rilevato di come nel processo tributario permane uno sbilanciamento della posizione processuale delle parti, dove la parte pubblica è favorita in giudizio rispetto al contribuente, potendo utilizzare ampi poteri istruttori e, non da ultimo, utilizzare dichiarazioni testimoniali rese da terzi in sede di controlli e verifiche, in quanto recepiti nei processi verbali di constatazione ed ai quali l’ufficio rinvia per relationem ai fini motivazionali dell’atto accertativo, mentre rimane preclusa al contribuente la possibilità dell’utilizzo delle prove orali espressamente vietate nel processo tributario, con la conseguente violazione del principio di difesa e della parità delle armi processuali.
In questo contesto, il contribuente risulta essere la parte più debole del processo tributario, proprio per i minori poteri istruttori che esso ha, in quanto il giudice tributario non cerca la verità ma si basa solo su ciò che le parti hanno proposto per supportare le loro tesi.
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