CAPITOLO 3 I POTERI ISTRUTTORI DELLE COMMISSION
3.1 L'attività istruttoria delle Commissioni tributarie
La natura dispositiva del processo tributario implica che, sebbene nell'istruzione della causa il giudice abbia, per espresso dettato dell'art. 7 del D.lgs. 546/92, il potere di indagine e dunque di andare a ricercare legittimamente la verità, egli possa fare ciò solo "nei limiti dei fatti dedotti dalle parti" a sostegno delle rispettive domande ed eccezioni.
I poteri investigativi delle Commissioni quindi, pur se parametrati a quelli degli uffici tributari, non possono avere finalità esplorative, ma sono vincolati nelle loro finalità. Essi, infatti, possono riguardare solo i fatti e i temi di prova, connessi alla specifica domanda, indicati dalle parti, alle quali appartiene in via esclusiva il potere di indicare e circoscrivere i fatti rilevanti per il giudizio. Solo in tale ambito, dunque, i poteri istruttori della Commissione possono essere legittimamente esercitati.
I poteri delle Commissioni tributarie, disciplinati dall’art. 7 del D.lgs. 546/92, vanno esercitati, su richiesta di una parte o d’ufficio, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, cioè per raccogliere le prove necessarie a decidere la controversia. Ciò presuppone una valutazione di insufficienza del materiale probatorio già disponibile.
Ragionare in questo modo porta alla conclusione che il contenzioso tributario è caratterizzato dal monopolio delle parti di fissare l'oggetto del giudizio, cosicché alle Commissioni tributarie è riconosciuta solo una mera finalità istruttoria, venendo così rispettato il predetto art. 7 D.lgs. 546/92, che vuole il potere delle Commissioni limitato ai fatti dedotti in giudizio.
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Accettare questa interpretazione significa allo stesso tempo giustificare il principio dispositivo che si applica al processo tributario in tema di prova per il richiamo che l'art. 1 del D.lgs. 546/92 effettua all'art. 115 c.p.c.
Di diverso avviso è un'altra nutrita parte sia della giurisprudenza sia della dottrina, che ravvisa una portata di tale norma in modo meno restrittivo. Tale indirizzo, ritenendo il processo amministrativo caratterizzato da un sistema impositivo con metodo acquisitivo delle prove, riconosce al giudice un potere inquisitorio quanto alla ricerca delle prove.
Nel processo tributario le Commissioni tributarie, dotate di ampio potere estimativo, anche sostitutivo, avvalendosi dei larghi poteri istruttori ad esse attribuiti, possono acquisire aliunde gli elementi di decisione, prescindendo dall'accertamento dell'Ufficio e dell'eventuale difetto di prova del sua assunto, con la conseguenza che, una volta esercitato siffatto potere, il contribuente non ha più interesse a dolersi del difetto di motivazione sull'eccezione relativa alla carenza di prova della pretesa impositiva14.
Nella sentenza della Corte di Cassazione 20 gennaio 2006 n. 1135 si legge: «L'art. 7 del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 assegna, infatti, alle Commissioni tributarie ampi poteri istruttori, compresa la possibilità di acquisire elementi conoscitivi mediante la richiesta di apposite relazioni affidate ad organi tecnici dell'Amministrazione, con la sola esclusione, fra le prove ammissibili, del giuramento e dell'assunzione di testimoni, o mediante esame di documentazione comunque prodotta in giudizio dalle parti. Tali poteri sono conferiti proprio in funzione della valutazione, ad esse affidata, della legittimità e della congruità delle pretese dell'uffici; i giudici tributari di merito possono cioè acquisire aliunde, prescindendo dagli accertamenti dell'Ufficio, gli elementi di decisione, di cui compiono una valutazione autonoma, rispetto all'assunto di quest'ultimo».
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Il punto dello scontro in dottrina e giurisprudenza è stabilire quali criteri la Commissione debba seguire per scegliere se esercitare i poteri di cui all’art. 7 per acquisire nuove prove, o decidere subito, ponendo le conseguenze della mancanza o insufficienza di prove dei fatti allegati dalle parti a carico di chi aveva interesse a dimostrare la sussistenza del fatto controverso.
Per stabilire i criteri che le Commissioni devono seguire è necessario risolvere la querelle circa la funzione dell’istruttoria processuale tributaria, se cioè sia solo di integrazione e controllo degli elementi prodotti dalle parti, oppure se sia svincolata da tale limite in quanto indagine diretta a ricostruire la verità storica al pari del processo penale. Il problema va risolto rispondendo alla domanda sulla natura stessa del processo tributario.
I sostenitori dell’idea secondo cui il giudice debba ricercare gli elementi necessari per accertare la verità storica, prescindendo dalle inerzie delle parti, si fondano sulla corrispondenza dei poteri istruttori delle Commissioni a quelli degli uffici tributari, oltre al carattere pubblicistico e alla rilevanza costituzionale degli interessi coinvolti in questa materia.
Talvolta la giurisprudenza ha ritenuto che i giudici possano acquisire autonomamente, a prescindere da quelli addotti dall'ufficio accertatore, gli elementi necessari alla valutazione della pretesa tributaria e dunque funzionali alla decisione, esercitando i poteri istruttori in modo da supportare la pretesa fiscale15.
Tale orientamento, per altro precedente all'abrogazione del 3° comma dell'art. 7, non può essere condiviso.
Secondo l'autorevole opinione dei Giudici Costituzionali, che hanno censurato ogni interpretazione che avalli un ruolo di supplenza probatoria della giurisdizione tributaria e richiamato il basilare principio della terzietà del giudice sancito dal novellato art. 111 della Costituzione con riguardo ad ogni processo, e dunque anche al processo tributario, non è condivisibile
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l'interpretazione secondo cui la Commissione tributaria possa esercitare i propri poteri istruttori in funzione suppletiva.
La tesi contraria e, quindi, preferibile ritiene, invece, l’attività istruttoria delle Commissioni residuale e, comunque, vincolata alle allegazioni delle parti. La stessa relazione di accompagnamento all’art. 7 afferma che era intenzione del legislatore attenuare il carattere inquisitorio dell’accertamento probatorio svolto dalle Commissioni tributarie.
In sede processuale si potrà realizzare una ricostruzione della fattispecie tributaria delimitata dai motivi del provvedimento e dall’arricchimento del contraddittorio che dovesse realizzarsi nella dialettica probatoria fra le parti. Ciò presuppone che l’ufficio abbia raccolto in sede procedimentale un materiale probatorio sufficiente a giustificare l’emanazione dell’atto impugnato.
Di conseguenza, l’intervento del giudice può avere solo la funzione di controllare gli elementi introdotti dalle parti, e solo nel caso in cui sia impossibile o molto difficile per l'onerato fornire il supporto probatorio della propria pretesa, il giudice tributario, nel perdurare dell'incertezza sui fatti non interamente imputabile al mancato assolvimento dell'onere della prova da parte dei protagonisti del giudizio, potrà fare ricorso agli strumenti tecnici conoscitivi previsti dai primi due commi dell'art. 7, esercitando i propri poteri istruttori. Al più, la Commissione potrà tener conto delle circostanze comunque risultanti dagli atti del processo per formulare ragionamenti presuntivi in ordine alla sussistenza o meno di tali fatti.
3.1.1 Natura dell'istruzione probatoria svolta dalle Commissioni
Nella giurisprudenza formatasi sul D.P.R. n. 636, prevale l’affermazione del carattere inquisitorio del processo e della discrezionalità della Commissione nelle decisioni sull’istruzione, senza essere vincolata dalle richieste delle parti o dalla carenza della loro attività difensiva. L’istanza di parte non avrebbe
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obbligato il giudice, consentendogli di valutare discrezionalmente l’opportunità di ammettere le prove indicate. Le richieste delle parti, quindi, non costituivano esercizio di loro diritti, ma mere sollecitazioni del potere di indagine del giudice.
Tuttavia, tale completa discrezionalità è stata censurata, da parte della dottrina, sul profilo della legittimità costituzionale in relazione agli articoli 24 della Costituzione e 115 del c.p.c., in base ai quali il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e che, comunque, rendono inviolabile il diritto di difesa nel processo.
Soltanto il successivo intervento legislativo del 1992 ha portato ad un cambiamento di rotta, attenuando la natura inquisitoria e accentuando le caratteristiche dispositive del processo tributario.
In sostanza, il Decreto legislativo 546 del 1992, secondo una buona parte della dottrina, ha dato poteri inquisitori suppletivi e del tutto eccezionali al giudice per l'assunzione delle prove. In termini di prova vige la regola secondo cui il giudice è tenuto, salvi i casi previsti dalla legge, a porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, potendo acquisire d'ufficio le sole prove ritenute necessarie ai fini della decisione.
L'art. 7, D.lgs. 546/92, così come è formulato, attribuisce al giudice tributario poteri istruttori la cui portata è considerata ben più ampia di quella attribuita al giudice civile dall'art. 115, comma 1, c.p.c., infatti parte della dottrina ha osservato come il giudizio tributario sia disciplinato dal principio dispositivo in ordine alla allegazione dei fatti, in quanto spetta esclusivamente alle parti la delimitazione del thema decidendum della controversia, ma governato dal principio inquisitorio in merito alla prova degli stessi, in quanto il giudice tributario ha la possibilità di disporre d'ufficio di tutti i mezzi istruttori che ritiene necessari per una piena comprensione della materia del contendere.
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Il principio inquisitorio in senso processuale indica l'abolizione del potere monopolistico delle parti rispetto alle sole iniziative probatorie, permanendo, invece, il vincolo del giudice alle allegazioni operate dalle parti.
Il rischio è, comunque, che le Commissioni tributarie, data l'ampiezza dei poteri istruttori a esse spettanti, non si limitino a svolgere una funzione integratrice dell'attività istruttoria delle parti, ma si sostituiscano a esse, con una travalicazione dei limiti delineati dai allegati dalle parti, snaturando la natura dispositiva del processo tributario.
Anche per quanto riguarda il principio dell'onere della prova, riferito all'art. 2697 c.c., visto precedentemente, esso non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo, poiché nel vigente ordinamento processuale vige il principio di acquisizione secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice16.
La mancanza di idonee prove non può costituire per il giudice un impedimento assoluto, insuperabile per emettere una pronuncia di merito, atteso che esso può essere rimosso mediante l'uso del potere discrezionale di cui all'art. 7, comma 1, del D.lgs. 546/92, finalizzato esclusivamente alla realizzazione concreta di una pronuncia adeguatamente motivata.
Un limite al mancato esercizio discrezionale del potere istruttorio si ha ogni volta che tale accertamento supplementare sarebbe stato necessario per accertare i fatti oggetto di controversia tributaria17.
In definitiva, il carattere prevalentemente dispositivo del processo tributario, nel quale le parti fissano i confini della controversia e della conseguente
16 Cass. 28/09/2005 n. 19077
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attività giurisdizionale ed offrono al giudicante, secondo un onere variamente ripartito, le prove su cui si dovrà fondare la decisione, comporta che il giudice non può utilizzare i propri poteri istruttori a fini esplorativi, sostituendosi alle parti.
Tuttavia, alle Commissioni è normativamente riconosciuto il potere, nell'ambito dei fatti dedotti dalle parti ed al fine di esercitare il ruolo di controllori terzi dell'adeguatezza dell'attività di controllo posta in essere dall'Amministrazione finanziaria, di accertare ex officio l'esistenza di fatti utili alla decisione della controversia, ma solo integrando l'attività delle parti, senza sostituirsi ad esse.
Nonostante ciò, il rito tributario è contraddistinto da una forte disparità sia sostanziale sia processuale tra le parti, in quanto la supremazia dell’ufficio non sussisterebbe solo nella fase di verifica, ma anche per i tanti privilegi accordati all’Amministrazione nella fase contenziosa.
La rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria giustifica, infatti, l’attribuzione di penetranti poteri agli uffici finanziari, ma non implica che ciò si perpetui nella fase contenziosa ad opera delle Commissioni tributarie, posto che, in caso contrario, verrebbe contaminata l’essenza del giudice che si tramuterebbe in una longa manus dell’Amministrazione18.
Il giudice può quindi utilizzare le proprie potestà a fini integrativi, per colmare, quantomeno in parte, la disparità processuale tra le parti, in attuazione del canone costituzionale del “giusto processo” di cui all’art. 111 della Costituzione.
In questo senso si è espressa la giurisprudenza, la quale ha sancito che i poteri del giudice non possono essere utilizzati come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti, dal momento che il giudice tributario non è
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tenuto ad acquisire d’ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio19.