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7 Discussione e conclusioni

L’analisi dei documenti e dei dati quantitativi e le attività di ricerca qualitativa hanno consentito di ipotizzare risposte e possibili piste di lavoro sulle domande di ricerca che hanno guidato il lavoro in questi due anni di progetto.

In primo luogo ci siamo chiesti che cosa comporta l’emergente superdiversità linguistica in termini di insegnamento/apprendimento delle lingue a scuola, sia dal punto di vista dei contenuti che delle procedure. Analizzando i documenti e

i dati raccolti potremmo dire che, mentre sembra non emergere una sostanziale correlazione tra plurilinguismo della/nella scuola e valorizzazione dello stesso nei protocolli, nei POF e nei curricoli disciplinari, le pratiche del quotidiano osservate a scuola lasciano emergere una pluralità di usi linguistici che fanno degli istituti osservati ambiti sicuramente eterogenei e di interazione/integrazione.

Meriterebbero un ulteriore approfondimento tutti gli aspetti che consentono di correlare il modo con cui la superdiversità linguistica incrocia altri percorsi: di genere, di classe, di generazione, di migrazione. Alcuni dei dati analizzati ci hanno permesso di individuare il successo scolastico degli allievi con background migratorio come un’informazione preziosa da monitorare per misurare come e se i progetti di educazione interculturale raggiungano i propri obiettivi in termini di creazione di condizione di equità nelle opportunità e possibilità di carriera scolastica dei giovani immigrati.

Pur nella estrema coerenza normativa a livello europeo e della legislazione di riferimento sia italiana che slovena, infatti, “la ricerca teorica e empirica ha rivelato come il modello dell’educazione interculturale sia da un lato ambiguo e non adeguatamente fondato teoricamente (Abdallah-Pretceille 1999; Gundara, Jacobs 2000; Gundara, Portera 2008) e, dall’altro, non sia stato in grado di promuovere i cambiamenti auspicati. Appare anzi uno strumento inefficace ad affrontare le sfide dell’integrazione, al punto che alcuni lo hanno ritenuto un orientamento astratto e incapace di produrre delle pratiche coerenti (Coulby 2006; Gorski 2006; Tarozzi 2006; Bhatti et al. 2007; Donati 2008; Gorski 2008; Tarozzi 2012)” (Tarozzi 2013: 11).

Uno degli indicatori di questa supposta inefficacia sarebbe costituito proprio, come da noi ipotizzato anche nel caso della scuola A analizzata in questo contri-buto, dai dati relativi alla dispersione in ambito europeo che documentano come l’insuccesso scolastico, nonostante la diffusione dell’educazione interculturale, colpisca maggiormente gli allievi con background migratorio. Questi giovani, ed in maggiore misura quelli nati all’estero, sembrerebbero essere vittima di una combinazione di svantaggi (rischio di precoce abbandono della scuola, livelli di qualifica bassi, scarsa padronanza della lingua, accesso limitato alle reti sociali), che li renderebbe maggiormente esposti al rischio di disoccupazione futura e a una maggior probabilità di riduzione del reddito totale durante la loro vita lavorativa (il cosiddetto effetto “cicatrice”).

Le conseguenze del profilo demografico degli apprendenti sui curricoli, in particolare quando le scuole si autodefiniscono attente all’interculturalità e al plurilinguismo attraverso i propri documenti di identità quali i protocolli e i POF,

dovrebbe condurre a una riconsiderazione critica del modo con cui si selezionano i saperi in funzione della definizione dei curricoli.

Nella selezione dei contenuti, infatti, i rischi più evidenti sono di certo quelli relativi a una visione etnocentrica delle discipline scolastiche in cui il canone na-zionale e monoculturale dei saperi tradizionali si traduce in una visione settoriale in cui gli aspetti della selezione dei contenuti incrocia il tema delle differenze di genere, di classe, di razza e di potere tra gruppi di maggioranza e di minoranza (Zoletto 2012: 85-112).

Che cosa significa, allora, insegnare la storia della formazione dell’unità d’I-talia in un’area di confine quando in classe ci sono allievi provenienti dai gruppi minoritari? E quando nella scuola di minoranza in Slovenia ci sono alunni italiani transfrontalieri? Che ruolo hanno nella costruzione disciplinare gli immaginari trasmessi dai libri di testo e in che relazione stanno questi immaginari con la convivenza degli allievi in classi di fatto sempre più eterogenee (Gabrielli 2011)? Come affermato in Levinson, Holland (1996), le scuole offrono a ogni nuova generazione dei luoghi simbolici e sociali in cui le relazioni, le rappresentazioni e le conoscenze si sviluppano, a volte confermando e a volte sovvertendo i rapporti di potere nel contesto sia locale che translocale.

Che tipo di scuola è possibile fare, allora, in un’area ad alta specificità in cui la dinamica di costruzione degli stati nazionali continua a dispiegarsi mobiliz-zando le identità?

La ricerca condotta cercando di confrontare i documenti, le pratiche e le percezioni degli attori sociali su plurilinguismo e intercultura è un tentativo di muoversi verso un modo più articolato e multiforme di indagare l’educazione interculturale e plurilingue, partendo dalla riconsiderazione dei rapporti tra le scuole, i territori e le comunità locali.

L’analisi dei protocolli incrociata con i dati emergenti dai questionari, evidenza il modo in cui le pratiche situate contribuiscono a modellare i sistemi scolastici nazionali, adattandoli alle condizioni locali (Henriot-van Zanten 1994) attraverso la capacità di agency di allievi, genitori, insegnanti, dirigenti scolastici che di fatto dimostrano come le scuole siano più internazionali che interculturali. Infine, offre una nuova prospettiva per pensare le politiche e le pratiche scola-stiche in relazione ai gruppi minoritari e mostra come tali politiche e pratiche siano continuamente sfidate dal modo in cui gli stessi sistemi scolastici lavorano come ascensori, setacci, frontiere e barriere (Piasere 2004) nel momento in cui producono, attraverso le pratiche didattiche, modalità di integrazione/iterazione, selezione, esclusione, inclusione modellando le posizioni simboliche di potere (Bourdieu 1991).

Between protocols and practices: intercultural