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Educazione interculturale: dalla teoria alla pratica del riconoscimento

di Chiara Beccalli, Giovanni Delli Zotti e Ornella Urpis*1

1.2 Educazione interculturale: dalla teoria alla pratica del riconoscimento

Chi dice interculturale dice necessariamente, se dà tutto il suo senso al prefisso inter, interazione, scambio, apertura, reciprocità, solidarietà obiettiva. Dice anche, dando il pieno senso al termine cultura, riconoscimento dei valori, dei modi di vita, delle rappresentazioni simboliche alle quali si riferiscono gli esseri umani, individui e società, nelle loro relazioni con l’altro e nella loro comprensione del mondo, riconoscimento delle loro diversità, ricono-scimento delle interazioni che intervengono di volta in volta tra i molteplici registri di una stessa cultura e fra differenti culture, nello spazio e nel tempo. (Dèlors 1997)

Sebbene si parli di educazione interculturale, non la si deve immaginare come una lezione di interculturalità, come è affermato chiaramente nel documento d’indirizzo preparato dal Ministero della Pubblica Istruzione (2007), in cui viene ribadito alle istituzioni scolastiche di implementare nei propri curricoli, un approc-cio all’insegna mento e alla pianificazione didattica in prospettiva interculturale. Il documento ministeriale sottolinea come l’educazione interculturale non debba solo insegnare “a fare”, ma anche “ad essere” e non si debba occupare solo del trasferimento di competenze e abilità tecniche, bensì di stimolare la capacità di riflettere sulle differenze, di lavorare in maniera progettuale e per obiettivi con-divisi al fine di accompagnare un gruppo (una classe, nelle nostre riflessioni) non solo ad ampliare le conoscenza, ma a costruire un percorso di crescita condivisa e individuale. Fu la commissione Dèlors nel 1997 a definire cosa fosse, o dovesse essere, l’Intercultu ra a scuola, individuando quattro pilastri e affermando che l’Intercultura è un percorso che passa attraverso l’imparare a: conoscere, fare ed essere per arrivare al saper vivere insieme. Quanto affermato dalla commissione si traduce in: “Conoscenza degli altri popoli, della loro storia, delle tradizioni e della loro spiritualità e, a partire da ciò, creare una nuova mentalità che, grazie alla 2 Per una ricostruzione dell’evoluzione legislativa in merito all’educazione interculturale in Italia si legga: Amodio (2012: 43-53), Greco e Zanetti (2014). Per un quadro statistico sulla presenza di alunni con cittadinanza non italiana: Borrini e Di Girolamo (2012). Per la Slovenia, si veda, nel sito del progetto europeo MIRACLE: “Migrants and Refugees – A Challenge for Learning in European Schools” (http:// www.miracle-comenius.org/), ad esempio: Toplak, Jevšnik e Gombač (2010).

consapevolezza dell’interdipendenza crescente e all’analisi condivisa dei rischi e delle sfide per il futuro, stimoli la realizzazione di progetti comuni e una gestione intelligente e pacifica degli inevitabili conflitti” (Surian 2000: 30).

L’educazione interculturale, pertanto, è un percorso educativo che accom-pagna al confronto e alla gestione dei rischi a questo collegati, non per evitarli o dissimularli, bensì per essere in grado di prendersene carico, riconoscerli e af-frontarli in maniera costruttiva e favorevole per i protagonisti della polis, come si diceva nelle pagine precedenti. Saper approcciare la diversità significa saper uscire dalla propria sfera valoriale, cosicché il raffronto con l’alterità non sia inficiato da un punto di vista univoco, limitato seppur privilegiato, in quanto pertinente al gruppo di maggioranza (Byram 1997). Facendo propria questa direzione, la riforma Moratti3 “non parla di educazione interculturale, ma di educazione alla convivenza civile, non fa riferimento alla società multiculturale, ma richiama le diversità avvicinandole” (Bettinelli 2006) aprendo l’orizzonte di significato verso un’idea di (inter) cultura dinamica e in costante cambiamento, non solo frutto di eredità, ma come risultato di relazioni e di scelte condivise (Favaro 2012), costruite attraverso il dialogo interculturale che consente, da un lato di prevenire eventuali scissioni, divisioni e incomprensioni dettate dalla diversità religiosa, linguistica e culturale, dall’altro di crescere insieme riconoscendo le diverse specificità (Consiglio d’Europa 2008).

Zoletto afferma con forza l’importanza del dialogo interculturale all’interno di classi eterogenee e in cui sono gli insegnanti a giocare un ruolo fondamentale. Lo studioso definisce i docenti come dei doganieri che si trovano alla frontiera tra alunno-classe e famiglia e che devono essere in grado di “dare il la” ad un dialogo interculturale, che difficilmente segue regole precise e fisse. Il lavoro degli insegnanti risulta, pertanto, fondamentale; infatti, non può essere delegato totalmente al mediatore culturale “spesso lo specchio di una società multicultu-rale in cui i più sono tutt’altro che uguali nella diversità” (2007: 59) e nemmeno dovrebbe essere indirizzato al solo superamento delle barriere linguistiche che, come vedremo nell’analisi, non sono considerate un ostacolo, né per costruire le relazioni interpersonali, né per l’apprendimento in classi eterogenee. Il lavoro dei docenti dovrebbe partire dai programmi curricolari per renderli meno monolitici, contaminandoli con le altre realtà culturali presenti nel gruppo classe per evitare un “monologo interculturale, tra sordi di culture altre” (Zoletto 2007: 104) e per porre molta attenzione alle dinamiche micro-sociali e alle interazioni tra allievi, tra allievi e insegnanti e tra gli stessi insegnanti.

Come detto, l’educazione interculturale deve insegnare a “saper essere” attraverso il cooperative learning, che consente di apprendere a gestire i poteri interni al sistema sociale classe in cui il docente si pone come un manager, un osservatore e un organizzatore di attività progettuali costruite per obbiettivi volte a facilitare le relazioni e la comprensione reciproca e riflessiva. Questo genere di approccio richiede di affiancare alle competenze tecniche legate alla didattica, caratteristiche quali: sensibilità, tatto, capacità di ascolto e volontà di “scendere sul terreno dei propri allievi” (Zoletto 2007: 108). L’educazione interculturale pluralista, partendo dall’idea di cultura come processo dinamico in costante mutamento, consente di trovare connessioni e rintracciare linee di collegamento tra le diverse pratiche, con il rischio di individuare interazioni talmente valide da soverchiare i rapporti di potere consolidati e da sostituirsi a questi non solo a livello teorico, ma anche politico (Grossberg 1994). Il lavoro interculturale degli insegnanti in classi culturalmente eterogenee dovrebbe consentire agli allievi di divenire soggetti in grado di manipolare risorse differenti e rielaborare stimoli variegati, come un vero e proprio bricoleur in grado di comporre e ricomporre il complesso puzzle delle pratiche culturali al fine di muoversi liberamente e senza percorsi prestabiliti nell’altrettanto complesso mondo globale. L’allievo-bricoleur impara non solo a riconoscere il territorio in cui agisce, ma a inventarlo e re-immaginarlo per tracciare nuovi percorsi e traiettorie.

Per raggiungere tale obiettivo la scuola si deve aprire alla comunità diven-tando un “volano dinamico della comunità” (Sima Terranova 1998: 76) e mettere in campo gli strumenti necessari per incontrare le famiglie, le quali necessitano di essere accompagnate lungo il percorso interculturale. Anche le famiglie, di maggioranza o minoranza, mono-etniche e plurietniche, dovrebbero farsi parte integrante della crescita relazionale dei figli dentro il gruppo classe e nel territorio di vita quotidiana. Come rileva Eleta, si tratta di creare un senso di correspon-sabilità educativa tra scuola e famiglia, stimolando questa ad un ruolo attivo e partecipativo “in una dinamica relazionale di tipo circolare che vede ciascuno dei membri influenzare l’un l’altro non solo con i suoi comportamenti, ma anche con sentimenti e vissuti che entrano in gioco” (2013: 97) e che si mettono in gioco.

Una compenetrazione scuola/insegnanti-famiglia-allievi è, ovviamente, un obiettivo complesso da raggiungere perché richiede alla scuola, in primis, di saper individuare una nuova forma di dialogo, che non parta da parametri ritenuti inconfutabili, ma che consenta di mantenere l’occhio attento e l’orecchio teso a cogliere stimoli differenti provenienti dal territorio. La dimensione territoriale locale non può essere estromessa da progetti interculturali che devono essere aperti all’esterno e proiettati al domani; se la costruzione delle relazioni tra allievi,

insegnanti e istituzione scuola non trova spazio adeguato anche al di fuori, il progetto interculturale è destinato al fallimento perché raggiunge solo il primo degli obiettivi (la convivenza scolastica) tralasciando completamente la più ampia dimensione familiare/territoriale e di pianificazione della comunità del domani. Non può esistere integrazione tra allievo, scuola e famiglia se l’integrazione non si fa diffusa e non oltrepassa le mura scolastiche tentando di attenuare i pregiudizi e gli stereotipi comunemente presenti nella società.

La realizzazione di progetti interculturali deve seguire tre principi: plu-ralismo e reciprocità, affinché nelle classi multietniche s’ingeneri un clima favorevole; un comune senso di appartenenza alla società ospitante, così da eliminare i pregiudizi; e pianificazione futura, affinché il lavoro interculturale non rimanga chiuso entro le pareti scolastiche, ma si diffonda all’esterno, intercettando famiglia e territorio locale. I rapporti extrascolastici permette-rebbero all’Intercultura di assolvere un duplice compito: radicarsi nel territorio degli allievi e progettare una cultura su nuove basi (Zoletto 2007: 129) perché, come diversi studi pedagogici hanno messo in luce, in contesti extra scolastici i ragazzi e le ragazze, anche di seconda generazione, sono esposti al rischio di una nuova “etnicizzazione” che potrebbe spingerli fino all’auto ghettizzazione (Queirolo Palmas e Torre 2005; Santerini 2009; Granata 2011). Pertanto, sugge-risce Mantovani (2003), la scuola deve “tentare di orientare intenzionalmente” i contesti educativi e informali per garantire una continuità educativa con la scuola (Zoletto 2013). Lo spazio formativo-educativo interculturale, pertanto, si allarga necessariamente e non può prescindere dall’ambiente della comunità in cui si mantengono, si rafforzano e si instaurano relazioni interpersonali che nascono dalla scuola, ma a cui vanno ad aggiungersi gli innumerevoli flussi portati dalle differenti dinamiche culturali.

2 Omogeneità/eterogeneità etno-nazionale dei