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Pluralismo, reciprocità e teoria del riconoscimento

di Chiara Beccalli, Giovanni Delli Zotti e Ornella Urpis*1

1.1 Pluralismo, reciprocità e teoria del riconoscimento

Pluralismo, secondo Sartori (2002), è sinonimo di buona società, di società giusta, aperta, libera e in cui il confronto religioso, partitico e culturale trova ampio spazio perché è, prima di tutto, una società democratica in grado non solo di accogliere, ma anche di assumere in sé diversità e alterità. Sartori, par-tendo da Popper (1994) e confermando il pensiero di Pannikar (2009), definisce il pluralismo come la categoria che: “Decifra meglio di ogni altro concetto le credenze di valore e i meccanismi che hanno storicamente prodotto la società libera e la città liberale e che consente di precisare e approfondire le aperture” (Sartori 2002: 17).

Le aperture caratterizzano il mondo occidentale; in Europa queste si manife-stano nella libertà religiosa ricondotta alla comune origine cristiana e negli Stati Uniti nella libertà politica con la vittoria del liberalismo (Rawls 1994; Matteucci 1996); la libertà, religiosa e politica, è il frutto del disfacimento di oligarchie, monarchie e autarchie e l’affermazione delle democrazie e delle forme di governo pluripartitiche. La democrazia ha concesso agli stati di aprirsi a partiti differenti e ai differenti valori di cui si facevano portatori; nelle nuove società democratiche, libere e giuste la dimensione plurale è strettamente connessa alla capacità delle diverse formazioni politiche di portare sulla pubblica arena della polis valori, interessi, culture diverse e connotate da varie sfumature.

Per quanto scritto finora, sarebbe semplice far derivare il concetto di plura-lismo dal concetto di pluralità, tuttavia si rischierebbe di ridurre la portata del concetto, tanto da renderlo semplicistico. Infatti, così presentato, il pluralismo non sarebbe in grado di dar conto delle problematiche complesse che la società moderna globalizzata - postmoderna o surmoderna (Augé 2009) - deve affrontare e cui si vanno ad affiancare, sommandosi, le sfide multiculturali e pluriculturali che costringono governi e istituzioni (nel senso sociologico più ampio) a ripensare e confrontarsi con mondi culturali differenti, gruppi sociali portatori di valori

diversi e scarsamente, se non per nulla, inclini all’accettazione della dimensione pluralistica occidentale. Le società, oggi, sono disomogenee, come disomogenei sono i punti di riferimento che derivano dal portato di ciascun gruppo etnico - culturale, il quale vive e agisce nel comune spazio sociale.

Le aperture, cui una società può spingersi per affrontare le questioni che quotidianamente salgono alla ribalta, non possono essere affrontate e superate ricorrendo ad un approccio multiculturalista, in quanto, laddove il pluralismo apre e accetta, il multiculturalismo chiude e delinea differenze tra gruppi, etnie e collettività. L’approccio del multiculturalismo è insufficiente, se non addirittura errato, perché attento a salvaguardare le difformità culturali, ponendosi come uno strumento di difesa volto a salvaguardare i gruppi minoritari dall’assimilazione e dalla scomparsa.

Come scrive Urpis (2012: 274), i gruppi, spingendo all’eccesso l’autorefe-renzialità, favoriscono e assecondano le “politiche di esclusione” attuate dal gruppo di maggioranza, oppure non consentono l’emersione di tratti di multi-culturalismo insite in “politiche di accoglienza”; “in questo sistema di pensiero e di azione politica la cultura si traduce in un modello ascrittivo di etnicità e il criterio delle appartenenze e delle differenze fra culture impone nuove frontiere” (Urpis 2012: 275).

Il pluralismo, al contrario, pone gruppi di maggioranza e di minoranza (oppure società ospitante e ospitata) in atteggiamento dialogante e volto al riconoscimento reciproco perché le società attuali devono fare i conti con le “associazioni multiple”, con gruppi che si intrecciano, si accavallano, si incon-trano e si sconincon-trano e che si caratterizzano per la fluidità dei legami a maglie larghe (Granovetter 1998), per la spontaneità, la complementarietà e special-mente per la capacità di aprirsi a nuove affiliazioni e accettare il cambiamento. Il pluralismo ha la forza di “ridiscutere le separazioni tra l’uno e l’altro” (Viola 2007: 230) e costringe la società a ripensarsi come comunità basata sul consenso. Comunità e consenso sono concetti vicendevolmente prossimi che consentono di introdurre un terzo fondamentale concetto: il riconoscimento, che ci riporta alla distinzione di Tönnies (1887, ed. it. 1963) tra comunità (Gemeinshaft) e società (Gesellshaft).

La prima è un organismo vivente e in costante mutamento in cui esistono e si costruiscono spazi liminali, ricorrendo a Van Gennep (2002), o liminoidi, secondo la teoria di Turner (1993) (cit. in Navarini 2003), del cambiamento (e dello sconvolgimento) che si può spingere fino alla creazione di una società nuova e rinnovata in cui a prevalere è la collettività. La società, al contrario, si presenta come un insieme di relazioni sociali fortemente individualizzate, in

cui l’istituzionalizzazione basata su leggi, regole e norme domina non solo, ma anche, la vita dei singoli.

La capacità di una società (comunità) pluralistica di mettersi in discussione di fronte all’altro è conseguenza dell’atteggiamento di tolleranza e di reciprocità su cui la stessa società vive. Non a caso, è proprio la reciprocità il cardine che sorregge il pluralismo; una società reciproca è una società che non solo riconosce l’altro, ma in cui, a suo volta, colui che viene “riconosciuto” ricambia l’accoglien-za e l’accettazione ritenendosi in debito. Solo il reciproco riconoscimento rende possibile vivere con e nelle differenze; infatti, Honnet scrive:

[Grazie a] un rapporto di reciproco riconoscimento stabilito eticamente, [vedendo]… di volta in volta confermata una nuova dimensione del loro Sé, [i soggetti] devono abbandonare, anche in modo conflittuale, lo stadio dell’eticità già raggiunto, per addivenire in un certo qual modo al riconosci-mento di una più esigente configurazione della propria identità. Pertanto la dinamica del riconoscimento… etico tra soggetti consiste in un processo di successivi stadi di conciliazione conflittuale (2002: 27).

La teoria del riconoscimento afferma con forza che il sé si conferma solo attraverso il riconoscimento dell’altro e richiede una costante discussione e ridefinizione attraverso un processo dialettico di “conciliazione conflittuale”, insito nell’idea di pluralismo dialogante e aperto all’alterità. Per giungere al ri-conoscimento e, soprattutto, per apprendere a rielaborare in maniera costruttiva, innovativa e positiva i conflitti, è fondamentale saper tradurre la teoria in pratica di riconoscimento, riconciliazione e di educazione alla comprensione dell’alterità in maniera riflessiva e pluralistica.

Per riprendere le parole di Pannikar, il pluralismo è e deve essere il pila-stro dell’Intercultura, perché per fare Intercultura è necessario saper cercare il confronto, trovare le modalità per superare lo scontro e rimodellare i gruppi sociali attraverso schemi e strutture culturali, se non totalmente nuove, almeno rinnovate e condivise. Fare Intercultura significa fornire una risposta pragma-tica alle questioni e alle difficoltà che si pongono in una società complessa nel tentativo di superare barriere e costruire spazi e opportunità di interazione, confronto, tolleranza e reciprocità: un progetto etico-politico mirante a risolvere i problemi della convivenza tra gruppi di diversa origine con un arricchimento culturale sia dei singoli gruppi sia della società (Urpis 2014: 19). In questo senso la scuola pare essere il terreno di gioco privilegiato per educare all’Intercultura, come le legislazioni nazionali, gli innumerevoli interventi dell’Unione Europea

e le altrettanto numerose raccomandazioni e circolari Unesco hanno sempre sottolineato2.

1.2 Educazione interculturale: dalla teoria alla pratica