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Per l’indagine sui rapporti fra lingue e luoghi in aree transfrontaliera abbia-mo utilizzato il profilo linguistico, strumento euristico importato dalla griglia dell’ELP (European Portfolio of Languages, Council of Europe 1998-2000) e dalle Indicazioni nazionali per il curricolo (MIUR 2012). A ciascun alunno è stato chiesto di disegnare la propria sagoma umana e di collocarvi le lingue conosciute anche parzialmente, annotando vicino ad ogni lingua la ragione per cui essa si trova abbinata a quella particolare parte del corpo. A ciascuno alunno è stato chiesto di annotare in quali luoghi e con chi usasse le varie lingue; divisi in piccoli gruppi di lavoro hanno dovuto poi spiegare il proprio profilo, le lingue importanti e le relazioni con le parti del corpo rappresentate. Le indicazioni mi-nisteriali vedono il profilo linguistico come strumento che “supporta lo sviluppo dell’autonomia del discente, del plurilinguismo, della consapevolezza e compe-tenza interculturale”, nella nostra ricerca è stato fondamentale per fare emergere tutte le plurime conoscenze e i repertori linguistici degli alunni, ma anche per far affiorare storie personali, legami affettivi e rappresentazioni simboliche delle lingue nelle varie situazioni comunicative.

L’attività di auto-rappresentazione e di associazione fra lingue usate e parti del corpo ha fatto emergere un’enorme varietà di risposte che ha coinvolto tutta la classe; molti hanno scoperto repertori linguistici sconosciuti del vicino di banco e ciò ha messo in moto discussioni e scambi utili per noi ricercatori e per la conoscenza della classe al proprio interno.

In base ai contesti nei quali i ragazzi si trovano ad agire e alle persone con le quali si relazionano (scuola, tempo libero, famiglia, parenti, sport, ecc.), in tutte le aree è risultato un uso funzionale e pragmatico delle lingue conosciute, che sono davvero tante. Soprattutto nelle aree di confine, ma anche tra le seconde generazioni di migranti la norma è quella di possedere un patrimonio plurilin-guistico, gestito agevolmente con la consapevolezza del valore di saper parlare più lingue e della flessibilità acquisita con ciò.

Nella scuola italiana di Capodistria e in quella slovena in Italia quasi la metà degli alunni afferma di parlare indistintamente tre lingue nei contesti quotidiani. A ciò si aggiunge lo studio scolastico delle lingue straniere (inglese e/o tedesco, francese, spagnolo) e la presenza di molti altri dialetti sloveni o italiani (segnalati triestino, napoletano, romano, pugliese, veneto).

Riportiamo come esempio il caso particolarmente significativo di una alunna della scuola primaria di Crevatini che evidenzia efficacemente le potenzialità euristiche dello strumento di indagine linguistica:

Fig. 1: Lingue conosciute/parlate

Come si può vedere nella figura n. 1, l’alunna ha inserito molteplici lingue nel suo profilo. Considerando i dati conosciuti, l’alunna vive in Italia e frequenta la classe quinta della scuola italiana in Slovenia (Crevatini); era quindi ipotizzabile che conoscesse la lingua italiana e slovena. Il profilo delineato dall’allieva con-ferma l’uso di tali lingue ma ne aggiunge altre: il croato, il francese, il tedesco, l’inglese, il pugliese e il triestino. Alla richiesta di esplicitare in quali luoghi e in che modo utilizzasse tali lingue, l’alunna ha dichiarato di utilizzare:

- l’italiano per stare con la sua migliore amica e quando frequenta il centro culturale giovanile;

- l’italiano e lo sloveno durante le lezioni di equitazione; - l’italiano e il croato quando visita i suoi parenti.

Si nota dalle spiegazioni che la notevolevarietà di lingue usate cambia a se-conda delle persone e dei luoghi frequentati. Infine, nel terzo e ultimo passaggio

gli allievi dovevano specificare le ragioni per le quali hanno collegato le diverse lingue a specifiche parti del corpo.

Fig. 2: Associazione di lingue e parti del corpo

La spiegazione fornisce informazioni rilevanti sul contesto familiare e sulle pratiche quotidiane: l’alunna vive in Italia (a Trieste o nei dintorni dove si parla il triestino) e i suoi genitori sono originari della Croazia (mamma) e della Puglia (papà). Tuttavia, hanno deciso di iscrivere la loro figlia in una scuola italiana situata in Slovenia. La struttura familiare presenta la tipica complessità contem-poranea, dove l’eterogeneità linguistica e culturale si mescola a mobilità legate a migrazioni lavorative, distacchi, separazioni e ricongiungimenti (Hannerz 1992; 1998). Abbiamo incontrato casi di alunni figli di genitori separati di origini ita-liane e croate, dove la scuola slovena funziona di fatto come spazio liminale di mediazione in una vita transfrontaliera a settimane alterne di affido.

Tornando al caso esemplificativo, si può notare come il tedesco e lo sloveno non siano stati menzionati; non sappiamo se tale omissione dipenda da una man-canza di tempo o da una decisione volontaria della ragazza, ma è comunque un dato da segnalare, considerando che frequenta giornalmente una scuola slovena.

Infine, può essere altrettanto interessante notare come la sua lingua madre, l’italiano, non sia stata collegata al cuore, come hanno fatto molti altri allievi; nessuna lingua è, in effetti, collegata a tale parte del corpo. Si può supporre che l’alunna non senta nessuna lingua come realmente propria, o meglio, percepisca

se stessa come una sorta di miscellanea molto variegata ed equilibrata composta da tutte le caratteristiche culturali, lingue, abitudini, pratiche, ecc. che vive quo-tidianamente nella sua vita. Il dato conferma che «le affinità di lingua non sono di per sé cemento sufficiente per creare il senso di una comune identità e che, per converso, l’uso di lingue differenti non ha impedito ad altre popolazioni di sentirsi partecipi di una stessa comunità» (Gusmani 1998: 14).

Nell’area di confine, sia nella parte italiana che sulla sponda slovena, si conferma l’uso del dialetto triestino come set ibrido di pratiche di condivisione di un capitale sociale, il cui uso viene appreso in tempi rapidi anche dalle nuove minoranze. Il ‘triestino’, soprattutto per i nuovi arrivati, funge da strumento di uso comunicativo più leggero fra pari a scuola, di ‘mitigazione’ in ambienti bilingui, specie quando le scelte di genitori e figli non collimano sull’interpretazione della lingua più utile. Questo emerge soprattutto nella scuola slovena di San Giacomo a Trieste, dove il dialetto sembra svolgere un importante ruolo da mediatore di pratiche comunicative materiali e immateriali condivise. Se è probabile che la diffusione del dialetto disincentivi l’apprendimento della lingua ‘alta’, insegnata a scuola, italiana o slovena, come si evince dai frequenti e spesso pesanti errori grammaticali presenti nei commenti dei profili linguistici, dal lato sociale invece si conferma un formidabile strumento di integrazione, che si gioca sempre su un piano locale e storico e nei contesti particolari, di città e quartieri.

– “Il dialetto triestino l’ho messo sugli occhi perché lo sento parlare dagli altri e mi piace”.

– “Il dialetto triestino l’ho messo alla testa perché mi viene in mente sempre”; – “L’ho messo in testa perché l’ho imparato già in asilo”.

In tal senso si riconferma l’uso storico del triestino già sperimentato nell’im-pero austroungarico come lingua veicolare per smussare i nazionalismi linguistici e le rigide contrapposizioni (Minca 2009). Come tutte le lingue ‘del posto’, le competenze che veicola e diffonde il dialetto riguardano le pratiche dei luoghi, quelle che non si ritrovano nei testi scolastici, né nei corsi di intercultura. Molto frequentemente le diverse lingue si usano in maniera alternativa e flessibile nei con-testi familiari, scolastici e del tempo libero e il dialetto funziona strategicamente come lingua franca nella comunicazione tra pari e alla pari nel tempo libero. Da questo punto di vista la funzione di ‘fare comunità’ del dialetto risulta più forte ancora della lingua della minoranza friulana che, paradossalmente, proprio ora che ha ottenuto riconoscimenti e politiche culturali di sostegno, sembra pagare lo scotto di non essere considerata più lingua ‘informale’, quantomeno non nei contesti urbani da noi indagati. Il dialetto si pone come lingua ‘alla pari’ nel senso che non comporta diversità di registro, competenza linguistica e conseguente