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4. La privazione della cittadinanza come strumento antiterrorismo degli Stati

4.3. Privazione della cittadinanza e Diritto Internazionale

4.3.3. Divieto di apolidia

L’ultimo divieto che gli Stati devono osservare, nell’implementare misure che consentono la privazione di cittadinanza, deriva dall’impossibilità di rendere una persona apolide. Questo impegno, nel garantire la non proliferazione dell’apolidia, deriva dallo sviluppo progressivo nel diritto internazionale di tale principio256, che trova la sua concretizzazione principale nella, già citata, Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961257.

Nonostante non tutti gli Stati, analizzati in questo capitolo, aderiscano a questa Convenzione258, è possibile constatare che, nel caso delle misure di privazione adottate o emendate per contrastare il fenomeno dei FTFs, la loro totalità ha osservato il divieto di rendere un proprio cittadino apolide.

Secondo gli esperti259, però, il Regno Unito ad oggi rappresenta una parziale eccezione a questa tendenza, dal momento che l’Immigration Act del 2014 ha stabilito la possibilità per l’Home Secretary di privare una persona naturalizzata della cittadinanza britannica

256 Secondo Van Waas questa tendenza può essere fatta risalire addirittura all’epoca della Società delle

Nazioni. Van Waas, op. cit., pag. 480.

257 A livello regionale, la Convenzione europea sulla nazionalità prevede delle condizioni più restrittive.

Infatti, secondo l’articolo 7, la privazione può condurre alla condizione di apolide solo se la cittadinanza di uno Stato membro è stata ottenuta tramite frode.

https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/rms/090000168007f2c8

258 In particolare, la Francia pur avendo firmato il trattato non lo ha mai ratificato. Interessante notare,

invece, che il Belgio ha aderito al trattato solo nel 2014.

https://treaties.un.org/Pages/ViewDetails.aspx?src=IND&mtdsg_no=V-4&chapter=5&clang=_en

259 Solo per fare alcuni esempi: Van Waas, op. cit., pag. 480, Audrey Macklin, op. cit, pag. 51. Ryan

88 anche nel caso in cui quella persona diventi apolide, ovvero “se ci sono fondati motivi di ritenere che la persona possa ottenere un’altra cittadinanza”260.

Secondo Van Waas, questo approccio concede un possibile margine a casi apolidia dato che la possibilità teorica di acquisire un’altra cittadinanza, oltre a quella britannica, non può essere equiparata all'effettivo acquisto o possesso di una cittadinanza alternativa. Inoltre, secondo l’autrice sembra inverosimile che un altro Stato sia disposto a concedere la sua cittadinanza ad una persona che secondo il Regno Unito ha compiuto una condotta “gravemente pregiudizievole” per i suoi “interessi vitali”261.

In generale, secondo Van Waas, Macklin ed altri autori, una misura di privazione di cittadinanza che mirasse a rendere i FTFs apolidi o apolidi de facto appare del tutto illegittima per un’ampia serie di motivazioni. Innanzitutto, seppur una simile misura possa essere giustificata sulla base dell’art. 8 par. 3(ii) della Convenzione del 1961, che permette di rendere un individuo apolide se si “sia comportato in modo da recare grave pregiudizio agli interessi vitali dello Stato”, appare difficile per uno Stato dimostrare che le condotte perpetrate dai FTFs siano tali o che comunque lo siano più di quelle di altri gruppi terroristici262. In secondo luogo, una misura di privazione simile sarebbe difficilmente conforme al principio di proporzionalità. Infatti, l’apolidia è una condizione estrema equivalente alla “morte politica o civica” di una persona non solo rispetto al paese di cittadinanza ma anche rispetto all'intera comunità degli Stati263, per questo si rivelerebbe un prezzo troppo alto da pagare. Infine, come osservato da Krähenmann, una misura di privazione che lasciasse un FTF apolide implicherebbe la rinuncia da parte di uno Stato alla propria responsabilità e a mantenere gli impegni contratti a livello internazionale, come per esempio quelli previsti dalla risoluzione 2178 (2014). In

260 Inoltre, una certa perplessità riguardo il rispetto del divieto di rendere una persona apolide, era emersa

dalla privazione di cittadinanza del Canada pre-Bill C6, che seppur prevista esclusivamente nei confronti dei doppi cittadini, faceva ricadere l’onere di dimostrare che la privazione della cittadinanza canadese avrebbe reso un cittadino apolide sul cittadino stesso, esponendolo in questo caso al rischio apolidia. Van Waas, op. cit, pag. 481.

261 Ibidem, pag. 480.

262 Christian Joppke, Terrorits repudiate their own citizenship, contenuto in Audrey Macklin e Rainer

Bauböck, The Return of Banishment: Do the New Denationalisation Policies Weaken Citizenship?, pag. 11.

263 Per questo motivo, come osservato da Marinai uno Stato dovrebbe in ogni caso occuparsi di un individuo

che ha reso apolide, attribuendoli in certi casi uno status uguale a quello di cittadino. Marinai, op. cit., pag. 225.

89 aggiunta, ciò potrebbe rappresentare una violazione degli obblighi nei confronti degli altri Stati264 e ostacolare in generale gli sforzi per debellare il fenomeno dei FTFs.

In conclusione, la dottrina concorda nel ritenere che seppur l’espansione dei poteri di privazione della cittadinanza, in seguito all’insorgere del fenomeno dei FTFs, abbia, in una certa misura265, messo in discussione il divieto di rendere un cittadino apolide, vero è che alla prova dei fatti nessuna legislazione scalfisce tale divieto, preservando così l’intenzione generale a livello internazionale di scongiurare l’apolidia.

264 Krähenmann, op. cit., pag. 249.

265 Anche il Regno Unito, che ha al momento la legislazione più discussa quando si parla di apolidia, non

ha completamente rigettato il principio ma ha comunque cercato di uniformarvisi, rispettando gli impegni presi con la Convenzione del 1961.

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Conclusioni

Il fenomeno dei foreign terrorist fighters, con la sua ultima manifestazione in Siria ed in Iraq, ha sicuramente sconvolto le nostre vite, destabilizzato il panorama mondiale e di conseguenza spinto i membri della Comunità Internazionale a rafforzare i propri strumenti di contrasto al terrorismo.

Per questo motivo è doveroso fare un bilancio delle attività poste in essere per combattere il fenomeno dei FTFs da questi attori, che può essere articolato su vari livelli. A livello globale, l’azione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tramite la risoluzione 2178 (2014), può essere, al netto degli aspetti negativi, considerata abbastanza positiva. In particolare, può essere accolto positivamente il ruolo centrale che la risoluzione assegna al rispetto dei diritti umani e del rule of law nel contrastare il fenomeno dei FTFs, e il terrorismo in generale. Inoltre, può essere visto favorevolmente l’incoraggiamento che la risoluzione rivolge agli Stati affinché sviluppino la cooperazione internazionale sul tema del terrorismo e soprattutto l’impulso a portare avanti la prevenzione della radicalizzazione anche tramite il coinvolgimento di “comunità locali e altri attori non governativi”. Tuttavia, non deve essere ignorato il fatto che persiste, anche nella 2178 (2014), la mancanza di una definizione di terrorismo condivisa a livello internazionale, la quale apre la strada a possibili abusi, e persiste l’assenza di un sistema di monitoraggio che verifichi lo stato dell’implementazione della risoluzione. A causa di queste carenze, il ruolo- dei diritti umani e delle attività di contrasto al terrorismo, orientate alla prevenzione, rischiano di rimanere mere dichiarazioni di principio. D’altronde, se si vuole guardare alla situazione con ottimismo, è possibile affermare che i suddetti fattori positivi rappresentano, più che altro, un passo nella giusta direzione, ovvero una sfida che gli Stati dovranno cogliere in maniera adeguata nel prossimo futuro.

Se quanto fatto dal Consiglio di Sicurezza, può essere accolto, tutto sommato favorevolmente, allo stesso modo la risposta dell’Unione Europea al fenomeno dei FTFs ci può far ben sperare. Infatti, l’UE ha provveduto ad elaborare un approccio strategico globale che affrontasse il fenomeno dei FTFs a tutto campo. In particolare, l’UE ha aggiornato la propria definizione di terrorismo, tramite la direttiva 2017/541, al fine di criminalizzare i FTFs e tutti i comportamenti relativi al fenomeno. Ciò risulta essere un

91 punto focale, dato che secondo gli esperti del Comitato Meijers la direttiva 2017/541 dell’UE, ha una portata troppo ampia e perciò risulta essere allo stesso tempo eccessivamente prescrittiva e poco chiara sui limiti che i membri devono osservare nella sua applicazione, aprendo così la strada a possibili abusi. Nonostante la suddetta critica, non può passare inosservato il fatto che l’UE sia riuscita a creare un quadro giuridico comune tra i suoi membri in materia di terrorismo e che nel farlo non abbia certo sacrificato il ruolo della tutela dei diritti umani che rimane, in ogni caso, centrale266. Tale risultato deve essere accolto positivamente soprattutto se confrontato con la totale mancanza di una alternativa a livello internazionale.

Comunque, come già accennato, la risposta europea, non si è fermata all’aggiornamento del suo quadro giuridico in materia di terrorismo, l’UE infatti ha anche sviluppato la cooperazione tra gli Stati membri e la prevenzione della radicalizzazione attraverso la creazione di nuovi strumenti, oltre al potenziamento di quelli già consolidati. Questi elementi, senza dubbio positivi, devono però fare i conti col fatto che la tutela della sicurezza nazionale è una competenza esclusiva degli Stati membri. Per questo, gli stessi si sono dimostrati restii ad applicare effettivamente quanto previsto a livello europeo, laddove manchino degli efficaci meccanismi di controllo e di sanzione, quindi principalmente nel campo della cooperazione tra i membri e della prevenzione alla radicalizzazione. Nonostante le perplessità sulla sua effettiva applicazione, la risposta europea ci lascia fiduciosi, poiché ha recepito in pieno gli aspetti positivi della risoluzione 2178 (2014) e li ha ampliati grazie anche ad una definizione di terrorismo comune tra i suoi membri. Tale definizione, malgrado le critiche subite, rappresenta un elemento ancora una volta positivo perché costituisce uno standard comune tra gli Stati membri. In aggiunta a ciò, in merito agli aspetti della risposta europea, che mancano di controlli efficaci, ovvero la cooperazione tra membri e la prevenzione alla radicalizzazione, non deve essere sottovalutato il lavoro fatto dal CTC europeo e da studi come, per esempio, quelli promossi dalla commissione LIBE, che verificano i progressi compiuti dai membri, anche in relazione a questi aspetti della lotta al terrorismo. Per questi motivi l’UE sembra avere le risorse necessarie a migliorare, nel lungo periodo, la propria azione sia per quanto

266 Infatti, la centralità della tutela dei diritti umani nella lotta al terrorismo è affermata all’articolo 23 della

92 riguarda il fenomeno dei FTFs che il terrorismo in generale. Quindi il testimone passa, ancora una volta, in mano a agli Stati membri, cui spetterà il compito di applicare quanto stabilito oggi a livello europeo e forse provare, nel prossimo futuro, a migliorare ancora di più il loro quadro giuridico comune in materia di terrorismo.

Infine, non può assolutamente essere positiva la valutazione sull’ultimo argomento, presentato in questo lavoro, ovvero l’ampliamento dei poteri di privazione della cittadinanza attuato per contrastare i FTFs, da alcuni degli Stati occidentali più interessati dal fenomeno.

Tralasciando i forti dubbi sulla legittimità delle norme di privazione, ampiamente trattati nel capitolo 4, la prima critica alle stesse scaturisce dal fatto che sia difficile comprendere la reale efficacia, in quanto policy antiterrorismo, di queste misure di privazione, volte principalmente ad impedire ai FTFs di far ritorno nel loro paese di cittadinanza267. Questo fine primario delle misure di privazione dovrebbe prevenire il rischio di attentati ma appare piuttosto una rinuncia degli Stati alle proprie responsabilità per gli atti terroristici commessi da propri cittadini all’estero. Per di più, suddette misure appaiono anche una rinuncia a mantenere gli impegni internazionali assunti dagli Stati nella risoluzione 2178 (2014). Perciò, tali rinunce sembrano rendere più problematica la lotta al terrorismo internazionale e anche la cooperazione degli Stati su questo tema.

Inoltre, anche umanamente, appare poco ragionevole “scaricare” degli individui, in certi casi nati, cresciuti e soprattutto radicalizzati in un determinato paese, che sono diventati inizialmente “homegrown jihadists”268 e solo successivamente FTFs. Soprattutto se si pensa che un FTF, privato da uno Stato della sua cittadinanza, nel caso rimanga apolide, sarebbe bloccato nello Stato teatro del conflitto in cui opera, continuando quindi a minacciarne la sicurezza nazionale. Se invece un FTF risulta in possesso di un'altra cittadinanza, risulterebbe esclusivamente collegato con lo Stato di cui il FTF in questione è cittadino, anche se in certi casi il legame tra i due risulterebbe puramente nominale. Ciò rischia di far scattare delle vere e proprie “gare” degli Stati a privare, per primi, della propria cittadinanza un FTF269.

267 Nei casi di individui in possesso di doppia cittadinanza sarebbe più giusto parlare di uno dei loro paesi

di cittadinanza.

268 Lorenzo Vidino, Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione, ISPI

– Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano, 2014, pag. 13.

93 In generale, comunque, tutti questi aspetti negativi si riassumono nel pericolo che l’espansione delle misure di privazione possa mettere in discussione il diritto stesso alla cittadinanza, che in quanto “diritto ad avere diritti” dovrebbe essere il più stabile possibile ed invece, come visto nel caso del Canada, viene reso vulnerabile alle stagioni politiche che si susseguono in un determinato paese.

Alla fine di questo breve bilancio, al netto degli aspetti negativi, che derivano in gran parte dalla condotta degli Stati, la risposta internazionale al fenomeno dei FTFs può, con una buona dose di ottimismo, far sperare che gli importanti strumenti, messi in campo finora, proseguano nella loro evoluzione e raggiungano, nel prossimo futuro, una maggior efficacia, soprattutto per quanto concerne la prevenzione alla radicalizzazione e le cause del terrorismo.

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