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La dottrina classica: dal dogmatismo alla tensione verso la giustizia

13 L F ERRAJOLI , op loc cit.

3.1. La dottrina classica: dal dogmatismo alla tensione verso la giustizia

Ciò posto in relazione alle fonti di legittimazione del potere giudiziario, occorre ora dirigere l’attenzione sul terreno elettivo in cui si estrinseca la funzione giurisdizionale: il processo. Tale indagine appare infatti essenziale a comprendere quali compiti incombano sul giudice non già sul piano ordinamentale, bensì nella sede propria in cui si dispiegano concretamente le sue funzioni. Si anticipa sin da ora che la trattazione verrà sviluppata intorno al rapporto tra processo, giustizia e verità, al fine di stabilire quale sia – o quali siano – gli scopi del processo nei moderni sistemi democratici. Siffatta disamina, lungi dal soddisfare un’esigenza meramente speculativa, consentirà infatti di chiarire su quale base cognitiva ed epistemologica31

poggia l’attività giurisdizionale, anche al fine di verificare – come si vedrà nella seconda metà del presente lavoro – se e come i percorsi di verità vengano plasmati dall’ingresso del sapere scientifico nella cornice processuale.

Nel districarsi all’interno di un tema così vasto e dibattuto, si è scelto di prendere le mosse dal pensiero dei maestri della scuola processualistica italiana, i quali a partire dal secondo dopoguerra hanno avvertito l’esigenza di riponderare il proprio approccio – da loro stessi giudicato eccessivamente dogmatico e astratto – allo studio del processo nel tentativo di recuperare il senso più profondo della scienza processulista, che obbliga lo studioso a confrontarsi con i temi della verità e della giustizia32.

30 M.T

ARUFFO, op. ult. cit., 20.

31 La nozione di “epistemologia” designa, nella sua accezione originaria, la parte della

gnoseologia che studia i fondamenti, la validità, i limiti della conoscenza scientifica (epistème). In un’accezione più moderna e corrente, s’intende per epistemologia l’indagine critica intorno alla struttura e ai metodi (osservazione, sperimentazione e inferenza) delle scienze, nonché anche l’analisi critica dei fondamenti di singole discipline o della conoscenza in quanto tale.

32 In questo senso, meritano di essere ricordate le parole di Carnelutti, il quale, in una prolusione

a tratti commovente, afferma che l’esame di coscienza del vecchio maestro non lo lascia tranquillo. L’A., richiamando le impressioni avvertite nel corso della sua ultima lezione, confessa quanto segue: “Mi pareva, mentre la comunione con i discepoli era giunta ad una tensione da sfiorare la sofferenza, di vedere tutti i miei stessi concetti, lavorati con tanta fatica, staccarsi come foglie secche dall’albero: azione, giurisdizione, cosa giudicata, negozio, provvedimento, nullità, impugnazione, tutto ciò in quel momento solenne mi ha rivelato, alfine,

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A ben vedere, la riflessione dei padri del diritto processuale appare orientata verso la ricerca del significato e dello scopo del processo, il quale è stato piegato dalle forze storiche alla perpetrazione di crimini e di atrocità al punto da essere ridotto a forma vuota, suscettibile di essere riempita di qualsiasi contenuto, al di là del bene e del male33. Nel denunciare i limiti intrinseci ed estrinseci del formalismo giuridico, la dottrina italiana della metà del secolo scorso osserva che il processo rappresenta in realtà “qualche cosa che tocca tutte le persone e tutti gli interessi”, giacché dietro alle questioni tecniche si cela sempre un problema della vita34. Ne discende la necessità di combinare allo studio puramente concettuale e teorico del processo la considerazione del significato ‘antropologico’ che esso reca in sé proprio in quanto fatto umano, che come tale “esiste solo in concreto”35.

Secondo Calamandrei, il peccato più grave commesso dalla scienza processuale della prima metà del XX secolo è stato per proprio quello di aver separato il processo dal suo scopo sociale, nella presunzione che le costruzioni logiche e sistematiche – sia pure mirabilmente edificate – fossero più attendibili della realtà pratica delle aule

la sua miseria. Sulla scena, davanti a me, non c’erano che due uomini: chi giudica e chi è giudicato. Due uomini: questo è il problema. Due fratelli: questa è la soluzione”. L’A. esorta, dunque, i propri colleghi - in primis l’amico Satta - a non abbandonarsi allo scetticismo e allo scoramento, ricordando loro che il compito del maestro di diritto processuale consiste nel cercare e nell’insegnare come il “mistero” del giudizio si celebri (F. CARNELUTTI, Torniamo al “giudizio”, in Rivista di diritto processuale, 3/1949, 174).

33 Degne di nota sono, in tal senso, le parole di Calamandrei,il quale, nel discorso inaugurale

del Congresso internazionale di diritto processuale che si svolse a Firenze il 30 settembre 1950, denuncia che “Nelle aule ove eravamo abituati a venerare magistrati sereni ed imparziali, assassini e depredatori mascherati da giudici si sono assisi su quei seggi, ed hanno dato ai loro misfatti nome e suggello di sentenze”, così da corrompere e deformare per sempre gli schemi e gli schermi del giudizio e della sentenza. Il maestro si chiede, dunque, come si possa a continuare ad avere fede nella scienza - quella processuale - che ha elaborato meccanismi suscettibili di servire qualunque padrone (P.CALAMANDREI, Processo e giustizia, in Rivista di diritto processuale, 1950, 276). Le medesime preoccupazioni vengono espresse da Capograssi,

il quale si chiede: “Che cosa sono queste forme, che forze storiche audacemente riescono a torturare a contorcere a ridurre a mezzi per fini contro cui quelle istituzioni pareva che fossero destinate a garantire la vita?”. Ad avviso dell’A., l’unico modo per riportare ordine all’interno dell’esperienza giuridica è quello di “cercare di risalire alle cose supreme, ritrovare il significato di vita delle istituzioni e degli istituti del diritto” (G. CAPOGRASSI, Giudizio processo scienza verità, in Rivista di diritto processuale, 1950, 2-3).

34 G. C

APOGRASSI, op. cit., 1. 35 G. C

APOGRASSI, op. cit., 4. Nello stesso senso, v. anche Calamandrei, il quale, nel ricordare

a sé stesso e ai suoi colleghi che “anche il processo è essenzialmente studio dell’uomo”, auspica che il “personalismo”, inteso come rispetto della persona umana, possa consentire di correggere gli eccessi del dogmatismo e dell’astrattismo non solo nel campo del diritto penale, ma anche nello studio del processo (P. CALAMANDREI, Processo e giustizia, cit., 288-289).

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giudiziarie36. In ciò dimenticando che il diritto processuale non può che esser concepito in chiave finalistica, e cioè funzionale ad assicurare che la sentenza sia giusta37. In

questo senso il maestro fiorentino, lungi dal disconoscere l’immenso valore dell’elaborazione dogmatica italiana, che ha riversato le sue migliori risorse nella predisposizione del nuovo codice di procedura civile, ammonisce piuttosto che ogni legge processuale “anche se rappresenta il non plus ultra della perfezione scientifica, non ha come necessaria conseguenza il miglioramento della giustizia, se non fa i conti colle possibilità pratiche della società nella quale deve operare”38.

Sulla base di tali argomenti, Calamandrei afferma che il caposaldo del nuovo programma che la scienza processualista dovrà darsi è il ritorno alla scopo, giacché, da un lato, è bene comprendere quale sia il senso del proprio lavoro, dall’altro, occorre rammentare che la stessa struttura del processo cambia in funzione del fine che gli si assegna: se esso viene inteso come strumento di pacificazione sociale, allora la sua funzione si esaurisce nella risoluzione autoritaria del litigio; se invece il processo viene concepito come uno strumento di ragione, allora i congegni tecnici dovranno adeguarsi ad un’indagine che conduca ad una decisione adottata secondo i crismi della verità e della giustizia39. Nell’aderire a questa seconda concezione, Calamandrei esorta i suoi colleghi a considerare il processo prima di tutto come un metodo di cognizione, cioè di conoscenza della verità, al cui accertamento i mezzi probatori debbono essere indirizzati. La verità non rappresenta, tuttavia, l’unico fine cui tende il processo, il quale

36 P.C

ALAMANDREI, op. cit., 278-279. L’A., ribadendo con forza il proprio atteggiamento

antiformalista, elabora dunque una concezione funzionale del processo, che sostituisce o quantomeno giustappone alla tradizionale concezione strutturale. Per una lettura critica del pensiero di Calamandrei processualista negli ultimi anni della sua operosità scientifica, v. N. TROCKER, Il rapporto processo-giudizio nel pensiero di Piero Calamandrei, in Rivista di diritto

processuale, 4/1989, 949 ss., ove l’A. prende in esame i due lavori più significativi di tale

periodo, vale a dire la prolusione in commento, Processo e giustizia, e un altro contributo di pari rilievo, Processo e democrazia.

37 P. C

ALAMANDREI, op. cit., 280-281. 38 P. C

ALAMANDREI, op. cit., 282. L’A. non esita a definire il nuovo codice di procedura come

“la quintessenza del più autorevole pensiero scientifico italiano”, rappresentando esso il momento di confluenza e di sintesi delle tre più autorevoli correnti scientifiche che hanno dominato il campo degli studi processuali nell’ultimo trentennio, ossia le Scuole di Chiovenda, di Carnelutti e di Redenti.

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ambisce invero a perseguire lo scopo “più alto che possa esservi nella vita”: la giustizia40.

Su posizioni nettamente differenti si colloca invece il pensiero di Satta, il quale, pur avvertendo l’esigenza di confrontarsi con il tema in parola41, perviene a conclusioni per così dire scettiche. L’Autore, nel rifiutare tutte le teoriche che assegnano al processo ora lo scopo di attuare la legge, ora quello di difendere i diritti soggettivi, ora quello di punire il reo, ora quello di ricercare la verità e la giustizia, ritiene invece che se al processo si vuole assegnare uno scopo, questo non può che risiedere nel giudizio42. Il che equivale ad affermare che il processo, rinvenendo in sé stesso il proprio scopo, non ha alcun fine: “processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo”43. In ciò si manifesterebbe quello che l’Autore definisce “il mistero

del processo”44.

Invero, anche Capograssi connota il processo in termini non dissimili – quasi metafisici – affermando che al suo interno si compirebbe una “doppia magia”: “far

40 P. CALAMANDREI, op. cit., 283-284. L’A. afferma che i processualisti hanno sino a quel

momento interpretato la giustizia come sinonimo di legalità, intesa come “applicazione ai fatti accertati secondo verità della legge vigente, buona o cattiva che sia”. La giustizia intrinseca della legge non ha interessato la scienza processuale, giacché il giudice è chiamato a tradurre in volontà concreta una volontà astratta sulla quale non può pronunciarsi.

41 L’A. ritiene infatti che bisogna pur dare risposta a domande penose come quella sul

significato del processo, pena la conclusione della “nostra vita di studiosi con l’amara impressione di aver perduto il nostro tempo intorno ad un vano fantasma, a un’ombra che abbiamo trattato come una cosa salda” (S.SATTA, Il mistero del processo, in Rivista di diritto

processuale, 4/1949, 275). 42 S. S

ATTA, op. ult. cit., 280-281. 43 S. S

ATTA, op. cit., 281. Secondo l’A., questo atto senza scopo che è il processo è stato

collocato dagli uomini al centro della propria esistenza, sebbene essi aborriscano il giudizio, il quale appare strutturalmente fondato su un permanente nucleo di vendetta. Ciò lo induce a concludere che “Al di là del bene e del male, il giurista traduce in termini giuridici l’aspirazione, e trova che essa si risolve nel prevalere dell’azione sul giudizio, nella negazione del giudizio, nel rifiuto di quella che, per un mondo che lentamente declina, è ancora giustizia” (S. SATTA,

op. cit., 288).

44 Questo è, per l’appunto, il titolo del testo di una relazione tenuta da Satta all’Università di

Catania il 4 aprile 1949, poi pubblicato sulla Rivista di diritto processuale. Invero, in occasione del primo Convegno internazionale di diritto processuale civile tenutosi a Firenze l’1 ottobre del 1950, l’A., interrogandosi sulle cause della crisi del processo, affermerà che essa “non è che un aspetto della grande crisi spirituale che è rilevabile in ogni campo della vita morale, nell’arte, nella filosofia, nella politica, perché è la crisi dell’uomo, di ciascuno di noi”. Tale consapevolezza lo induce a concludere che forse il giudizio è qualcosa di davvero troppo grande per la condizione umana e che, quindi, “non è senza ragione se la scienza del diritto processuale si è posta da qualche tempo sotto il segno della tristezza” (S.SATTA, La tutela del diritto nel

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rivivere quello che non vive più, che è ormai spento, e farlo rivivere nella coscienza e nel giudizio di uno che è perfettamente assente ed estraneo all’esperienza che deve risorgere”45. Tuttavia, pur a fronte dell’impossibilità di una conoscenza diretta e

immediata dei fatti di causa, il margine di errore e di arbitrio del giudice può essere significativamente contenuto laddove egli segua la logica obiettiva della vita e dell’azione, che può consentirgli di raggiungere la “verità legale”, ossia la verità che si scopre percorrendo il sentiero della obiettività46. In questo senso, Capograssi riafferma

la centralità del giudicare, che la scienza processuale moderna sembra aver trascurato riversando la sua potente capacità sistematica nello studio del processo in sede astratta47.

Sulla base di tali premesse, l’autore esorta i propri colleghi a rammentare che il processo “è alla fine una ricerca ordinata obiettiva autonoma di verità”, ricerca che evidentemente presuppone che si creda alla verità, che la si ritenga importante, che la si ricerchi e che le si obbedisca48.