13 L F ERRAJOLI , op loc cit.
4.1. La struttura del ragionamento giudiziario
Sulla scorta di quanto sinora illustrato in relazione alla dicotomia processo - verità, occorre ora portare a compimento la trama logico-argomentativa del presente capitolo, dedicando qualche riflessione alla decisione, che rappresenta il momento di cristallizzazione dell’attività giurisdizionale, nel quale l’attività cognitiva e l’attività imperativa del giudice trovano la propria sintesi. Si è scelto, in questa sede, di scomporre l’indagine intorno alla fenomenologia del ragionamento giudiziario in tre parti, dedicate rispettivamente alla struttura del ragionamento giudiziario, all’esigenza di razionalità e di legalità della decisione e, infine, al fondamento e alle funzioni dell’obbligo di motivazione.
Ad avviso di chi scrive, tale approfondimento si rivela essenziale per comprendere come il sapere scientifico interagisca con le categorie logico-giuridiche che orientano il giudice nel proprio ragionamento decisorio, rappresentando lo sfondo cognitivo nel quale si realizza l’incontro tra diritto e scienza.
Il primo tema che si intende analizzare è quello della natura e della struttura del ragionamento giudiziario. Inutile dire che si tratta di una tematica che ha sollecitato in
Lombardo riconosce che il reale elemento di novità registrabile nel passaggio dal codice Rocco al codice moderno è rappresentato proprio dalla tecnica processuale di ricerca della verità, identificabile non già nel potere “sovrano” di indagine riconosciuto al pubblico ministero, bensì nel contraddittorio dibattimentale, quale luogo elettivo di formazione della prova (L. G. LOMBARDO, op. cit., 760-761). La stessa relazione al testo definitivo del nuovo codice afferma,
peraltro, che “le probabilità di una decisione giusta sono maggiori quando la prova si forma nella dialettica processuale, anziché nella solitaria ricerca dell’organo istruttore”.
116 F. M. I
ACOVIELLO, op. ult. cit., 2033. L’A., stigmatizzando la trama argomentativa della
sentenza in commento, ritiene che la Corte abbia sostituito la propria visione del processo penale a quella cristallizzata nel codice, proponendo un modello teorico fondato sulla combinazione di tre principi: il principio della ricerca della verità materiale, il principio di non dispersione dei mezzi di prova e il principio del libero convincimento del giudice.
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ogni epoca storica la riflessione di grandi pensatori: già nella retorica classica, veniva proposta la distinzione tra elocutio, inventio e argumentatio, quest’ultima recante molteplici riferimenti al ragionamento sillogistico e alle strutture logiche dell’argomentazione117.
Invero, occorre rammentare che la dottrina del sillogismo giudiziale deve la sua originaria teorizzazione a Beccaria, il quale, in Dei delitti e delle pene (1764), indica nel “sillogismo pratico” il metodo precipuo del ragionamento giudiziario, affermando che “in ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la [premessa] maggiore dev’essere la legge generale, la [premessa] minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza”118. Tale teorica è stata
considerata il manifesto del cosiddetto logicismo giuridico, il quale ambiva ad un paradigma di perfetta razionalità119, in ossequio alle tesi correnti nella cultura
117 Si pensi, ad esempio, a Cicerone e a Quintiliano. Il primo individuerà, peraltro, un importante
argomento, che chiama locus ex consequentibus, consistente in un ragionamento per indizi che risale dagli effetti alla causa che li ha prodotti, il quale rappresenta l’embrione dell’odierno ragionamento induttivo (M.T.CICERONE, Topica, 19, 88; ID., De oratore, II, 170; ID., De
inventione, I, 47). Parimenti, Quintiliano valorizza il ruolo della logica nel ragionamento
probatorio, trattando delle prove induttive, più o meno controvertibili, e delle prove deduttive, fondate su uno schema sillogistico (M. F. QUINTILIANO, Institutio oratoria, V, 9, 3 ss., V, 10,
1 ss., 53-54, 62-70).
118 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene (prima edizione 1764), Milano, Rizzoli, 1981, 69.
Come rilevato in dottrina, pare che l’opera di Beccaria non fu il prodotto unius auctoris, giacché il testo fu rimaneggiato da Morellet nella traduzione francese e incorporò disinvoltamente l’apologia scritta dai fratelli VERRI, così da risultare il portato di un atelier di intellettuali, che
proponevano in ogni caso una politica del diritto condivisa consistente nel ridimensionare il ruolo sociale del diritto e dei giuristi (M.BARBERIS, Cosa resta del sillogismo giudiziale? Riflessioni a partire da Beccaria, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1/2015,
163-166).
119 G.C
ARCATERRA, Cesare Beccaria e Chaïm Perelman: logicismo e antilogicismo, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 4/2014, 576. L’A. sostiene che la pretesa di apoditticità e
di assoluta certezza del logicismo di Beccaria poggiasse su una premessa logica errata, ossia la convinzione che il giudice potesse applicare la legge senza interpretarla, che conduceva ad una costruzione teorica eccessivamente semplificata. Difatti la premessa maggiore, cioè la legge, è rappresentata non già dal disposto letterale del testo normativo, bensì dal risultato del procedimento interpretativo compiuto dal giudice per attribuire un significato alla disposizione in esame. Parimenti, anche la premessa minore viene ricavata al termine di un complesso procedimento probatorio, all’esito del quale si asserisce la sussistenza o meno del fatto dedotto in giudizio (ID., 577-578). Nello stesso senso, v. Marinelli, secondo il quale la premessa
maggiore, o di diritto, può dirsi inconfutabile soltanto se il testo normativo è formulato in modo chiaro e completo, condizione la cui realizzazione non è affatto scontata. Allo stesso modo, anche la premessa minore, o di fatto, può dirsi certa solo a patto di trovare pieno riscontro nell’apparato probatorio disponibile e di essere il risultato di un procedimento di sussunzione
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illuministica del tempo120. Evidentemente, la teoria della riducibilità del giudizio al modulo sillogistico si fonda su due convinzioni di chiara matrice positivistica: da un lato, quella della piena adeguatezza e sufficienza dell’interpretazione letterale, dall’altro, quella della sussistenza di un’unica applicazione corretta della legge, idonea a soddisfare al contempo ragione e giustizia121.
A ben vedere, lo schema sillogistico proposto da Beccaria si proponeva non già come un discorso scientifico, bensì come una ideologia politica rivolta ad orientare il comportamento giudiziale verso “atteggiamenti di fedeltà alla legge, e verso esiti di giurisprudenza stabile, certa e prevedibile”, con particolare riferimento al giudizio penale122. In questo senso, la dottrina del sillogismo giudiziale si configura sia come
una dottrina normativa del giudizio penale, diretta a prescrivere al giudice come giudicare e al legislatore come riformare la giustizia penale, sia come una teoria conoscitiva applicabile ad ogni giudizio, penale o civile, che pretende di descrivere la fenomenologia del ragionamento giudiziale mediante la formulazione di un paradigma di carattere metodologico123. Se infatti un merito può riconoscersi alla teorica del
sillogismo giudiziale, esso risiede proprio nell’aver predisposto “uno schema argomentativo valido, tale per cui se le premesse sono vere la conseguenza è vera”124.
Tale modello, che ha pervaso – e che tuttora permea – la cultura giuridica europea, è stato sottoposto ad un esame critico a partire dai primi decenni del ‘900,
univoco e necessitato. L’A. rileva, in ogni caso, l’assoluta indefettibilità del momento della “mediazione interpretativa”, che definisce consustanziale alla lettura della legge (V. MARINELLI, Attività ermeneutica e contesto giudiziario, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 2/2000, 203, 193-195).
120 In particolare, nel salotto milanese di Pietro e Alessandro Verri. 121 V. M
ARINELLI, op. cit., 201.
122 R. GUASTINI, In tema di ragionamento giudiziario, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1/1981, 199.
123 M. BARBERIS, op. cit., 168-169. A tal proposito, l’A. ritiene che “le idee di Beccaria
contribuiranno alla ricetta giuridica della Rivoluzione francese” nel duplice senso della riduzione del diritto alla legislazione e della limitazione dell’arbitrio giudiziale, nel tentativo di debellare l’interpretatio.
124 V. M
ARINELLI, op. cit., 202. Sull’esigenza di razionalità, logicità e controllabilità insita nel
modello sillogistico, v. anche G. CARCATERRA, op. cit., 579; M.BARBERIS, op. cit., 170-172.
Tali AA. rilevano concordemente che, una volta riconosciutane le natura di ragionamento complesso e soprattutto defeasible, il sillogismo giudiziale consente in ogni caso di svolgere un controllo sulla logicità della decisione, conservando dunque una funzione normativa, per quanto molto debole.
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quando si cominciò a denunciarne la parzialità e l’inadeguatezza125. In tempi più recenti, Ferrajoli ha efficacemente osservato che l’“idea del giudizio come sillogismo perfetto e del giudice come bocca della legge ha […] [una] totale inattendibilità epistemologica e [una] conseguente impraticabilità giuridica”126. Analogamente, Taruffo ha affermato che la teoria del sillogismo giudiziale “non è e non è mai stata una descrizione attendibile della decisione giudiziaria in nessun ordinamento”, giacché inconsistente sotto il profilo logico e inadeguata a rappresentare la complessità della decisione giudiziaria127. Malgrado questa consapevolezza, è stato, tuttavia,
125 Già Carnelutti ammonisce sulla parzialità del paradigma sillogistico nell’ambito del
ragionamento giudiziario, rammentando che “Non v’è altro strumento che debba prendere il posto del sillogismo; ma in esso non si può riconoscere l’atto logico originale” (F. CARNELUTTI,
Matematica e diritto, in Rivista di diritto processuale, 3/1951, 203). L’A. sottolinea da un lato,
che mentre il sillogismo dimostra, il giudizio inventa, e dall’altro, che non si tratta di sostituire la logica sillogistica, ma di integrarla. In questo senso, egli rammenta che “ciò che i giuristi debbono sapere è come la matematica sia logica”, di talché anche il giurista ha bisogno della matematica, che consentirebbe di inoltrarsi “nell’immenso regno delle possibilità” (ID., op. cit., 203, 207, 212). Nella stessa direzione si pone anche Calamandrei, il quale rivolge un’aperta critica alla tesi della sentenza come sillogismo, rilevando che “Chi si immagina la sentenza come un sillogismo, non vede la sentenza viva; vede la sua spoglia, il suo scheletro, la sua mummia”, giacché “La verità è che il giudice non è un meccanismo, non è una macchina calcolatrice […]; non è nemmeno uno storico della realtà giuridica” che “si limita ad accertare ciò che già è, senza concorrere, colla sua volontà stimolata dal suo sentimento, alla creazione pratica di questa realtà” (P. CALAMANDREI, Processo e democrazia, cit., 59-61). Lo stesso
Calogero afferma nella sua critica mordace al modello sillogistico che “quel che fa il giudice di «logico» non ha nulla; e quel che fa veramente, non è logico”, giacché il ruolo del giudice non consiste nel ricavare sillogisticamente la conclusione da premesse date, bensì nel ricercare e nel fissare tali premesse (G. CALOGERO, La logica del giudice ed il suo controllo in Cassazione, Padova, Cedam, 1937, 50-51). A ben vedere, la tesi di Calogero è stata, poi, pienamente condivisa da Guastini, il quale ha ribadito che “La logica gioca un ruolo più che modesto nel lavoro del giudice”, poiché il compito del giudice risiede proprio nel fissare le premesse del proprio ragionamento, premesse che non possono mai considerarsi come “date” (R. GUASTINI, op. ult. cit., 199). Per maggiore approfondimento sulle diverse teorie del giudizio, in particolare
quella fondata sul modello sillogistico e quella basata su fattori retorico-argomentativi, v. M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova, Cedam, 1975, 159 ss.
126 L.F
ERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 18.
127 M. TARUFFO, Il controllo di razionalità della decisione fra logica, retorica e dialettica, in
M. BESSONE (a cura di), L’attività del giudice. Mediazione degli interessi e controllo delle
attività, Torino, Giappichelli, 1997, 143. Nello stesso senso, v. anche Ubertis, il quale sostiene
che “I caposaldi più o meno impliciti di siffatta teoria devono […] ritenersi caduti con la smentita a livello epistemologico della possibilità di ottenere una assoluta “Verità” che conduca alla conoscenza di una altrettanto assoluta “Oggettività” (G. UBERTIS, La ricostruzione giudiziale del fatto tra diritto e storia, cit., 1208). In senso difforme, parte minoritaria della
dottrina ha, invece, sostenuto che la sentenza dovrebbe essere rappresentata non già come un sillogismo, quanto come “una concatenata successione di sillogismi” (M. ROTONDI, Considerazioni “in fatto” e “in diritto”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
3/1977, 967). Si è, altresì, sostenuto che il ragionamento giuridico rimarrebbe tuttora basato sullo schema sillogistico, con l’unica differenza che nei tempi d’oggi la premessa maggiore è
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riconosciuto alla teoria sillogistica il merito di aver tentato di vincolare il giudice a criteri razionali di decisione e a regole riconoscibili di ragionamento: in particolare, la deduzione sillogistica, intesa come connessione sussuntiva, seppur inidonea ad offrire una descrizione esauriente del ragionamento decisorio, rappresenta il nucleo essenziale dell’applicazione della norma al fatto128.
In contrapposizione al logicismo giuridico di derivazione illuministica, il movimento culturale che si è sviluppato nel corso del ‘900 ha assunto una connotazione decisamente antilogicista. A ben vedere, tale orientamento metodologico non si è limitato alla critica del modello sillogistico proposto da Beccaria, ma ha inteso recidere ogni connessione tra la logica e il diritto, al quale meglio si attaglierebbe lo strumento della retorica129. Il più autorevole esponente della cosiddetta nuova retorica è senza
una “premessa composita”, essendo formata su una pluralità di norme o di segmenti di norme tra loro legate e disposte in scala gerarchica (V. ITALIA, Il ragionamento giuridico, in L’Amministrazione Italiana, 9/2008, 1152-1154).
128 M. T
ARUFFO, Il controllo di razionalità, cit., 143-144. In tal senso, occorre rammentare che autorevole dottrina straniera, pur respingendo la teoria globale del sillogismo giudiziario, ha riproposto la tesi secondo cui la giustificazione della decisione giudiziale può fondarsi su una deduzione sillogistica. Il riferimento è all’opera di Neil MacCormick, il quale ha sostenuto che “se si assume che il sillogismo giudiziario rivela la struttura di qualsiasi ragionamento giuridico che riguarda l’applicazione del diritto, allora ci sarà un ambito limitato di problemi la cui soluzione richiede in linea di principio un ragionamento non-deduttivo, ossia retorico o persuasivo”. L’A. ha difatti tentato di dimostrare che la giustificazione deduttiva ha la struttura sintattica del modus ponens, atteggiandosi secondo lo schema condizionale “se x, allora y, ma x allora y”, dove x individua un insieme di fatti operativi e y la conseguenza normativa. Da ciò discende la tesi del sillogismo normativo, in base al quale, data una regola e data la verificazione dei fatti operativi da essa descritti, si può derivare la conseguenza normativa della regola. In sostanza, l’A. ritiene che compiute l’interpretazione e la convalidazione, il giudice operi un’inferenza logica, di talché una motivazione puramente logica della decisione appare possibile. Tale concezione è strettamente connessa ai valori dello stato di diritto, il quale, ad avviso di MacCormick, può dirsi garantito solo se il ragionamento giuridico viene configurato come una combinazione di sillogismi basati su regole, suscettibili dunque di controllo esterno (N. MACCORMICK, Rhetoric and the Rule of Law. A Theory of Legal Reasoning, Oxford,
Oxford University Press, 2005, 42 ss.). Per una lettura critica delle tesi di MacCormick, v. R. GUASTINI, op. ult. cit., 200-203; G. SARTOR, Sillogismo e defeasability. Un commento su Rethoric and the Rule of Law di Neil MacCormick, in Diritto & questioni pubbliche, 9/2009, 9 ss.; V. VILLA, Il positivismo giuridico di Neil MacCormick, in Diritto & questioni pubbliche, 9/2009, 29 ss.; A. SCHIAVELLO, Osservazioni a margine di “Legal reasoning and Legal Theory” di Neil MacCormick a vent’anni dalla pubblicazione, in Il Foro italiano, 7-8/2009,
245 ss.
129 Invero, parte della dottrina, conservando un atteggiamento scettico sull’impiego della
retorica nel contesto giudiziario, ammonisce sull’esigenza di “superare le insidie della persuasione retorica per attingere a certezze razionali”, al fine di pervenire ad una decisione mediata dalla ragione critica e non già affidata alla maggiore o minore persuasività delle tecniche di comunicazione (V. MARINELLI, op. ult. cit., 199-200). In senso parzialmente difforme, vi è chi ritiene che si debba chiarire il valore semantico del termine retorica, che può
90
dubbio Perelman, il quale propone una lettura per così dire attualizzata dell’arte retorica, delineandola come l’insieme dei mezzi argomentativi e dialettici che consentono al discorso di suscitare il consenso dell’uditorio130. In questo senso, gli
argomenti consentirebbero di rendere accettabili le decisioni secondo un paradigma di equità e di giustizia, quest’ultima intesa come “accettabilità sociale” della decisione, che il giudice conquista conformandosi non già alla volontà del legislatore, bensì alla “volontà della nazione”, ossia ai “valori dominanti nella società”131.
Invero, in posizione intermedia tra le tesi logiciste e le tesi retoriche può collocarsi la ricostruzione teorica che distingue tra giustificazione interna della decisione e giustificazione esterna delle premesse del sillogismo giudiziale. La prima, costituita dalle premesse necessarie e sufficienti a fondare la decisione, è strutturata secondo uno schema sillogistico e presenta, dunque, un carattere logico-deduttivo; la seconda, consistendo, invece, nella argomentazione/giustificazione delle premesse
significare sia strumento diretto alla persuasione inconsapevole, sia uso di argomenti ragionevoli, identificabili e controllabili. Se declinata in questa seconda accezione, vi sarebbe ampio spazio per la retorica nel processo e nella decisione, giacché è proprio la ragionevolezza degli argomenti a consentire la controllabilità delle ragioni poste a fondamento della decisione (M. TARUFFO, Il controllo di razionalità, cit., 146-147).
130 Nell’ambito della dottrina italiana antiformalista e antiscientista, occorre senz’altro
segnalare l’opera di Giuliani, il quale aderisce alla nuova retorica di Perelman, assumendo una posizione che i successivi commentatori hanno qualificato come intermedia fra retorica e logica. Si rinvia, in particolare, alla voce enciclopedica A.GIULIANI, Logica del diritto (Teoria
dell’argomentazione), voce in Enciclopedia del diritto, XXV, Milano, Giuffrè, 1975, nonché a
uno dei suoi primi e principali lavori, la monografia ID., Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, Giuffrè, 1961, che è stata definita uno dei migliori contributi alla
filosofia del diritto dell’ultimo cinquantennio (così G. CARCATERRA, L’argomentazione giuridica fra retorica e logica nel pensiero di Alessandro Giuliani, in F.CERRONE,G.REPETTO
(a cura di), Alessandro Giuliani: l'esperienza giuridica fra logica ed etica, Milano, Giuffrè, 2012, 340).
131 C. PERELMAN, Logique juridique. Nouvelle rhétorique, “Méthodes du droit”, dirigé par J.
CARBONNIER, Paris, Dalloz, 1976, 107, 147, 176. Secondo l’A., gli argomenti giuridici permettono di trovare costruzioni dialettiche capaci di offrire un fondamento giuridicamente accettabile alla soluzione che si impone socialmente. In questo senso, il diritto svolge una funzione sociale di mediazione dei conflitti. Invero, questa tesi ha suscitato reazioni critiche di parte della dottrina, la quale ha ritenuto che l’antilogicismo retorico di Perelman convalidi una forma di populismo giuridico, stante il ruolo troppo importante assegnato alla vox populi (così G. CARCATERRA, op. ult. cit., 580-587). Per maggiore approfondimento sull’opera di
PERELMAN, v. L. GIANFORMAGGIO, L’argomentazione giuridica e la funzione sociale del diritto in Chaïm Perelman, in Sociologia del diritto, 1/1977, 165 ss.; B. BARTOCCI, Argomentazione e politica: democrazia e nuova retorica in Chaïm Perelman, in Ars Interpretandi, 2010, 115 ss.
91
poste a base del sillogismo decisionale, si serve di argomenti di carattere retorico132. Quest’ultima, coincidendo, di fatto, con la motivazione in diritto e con la motivazione in fatto, non può che approdare a conclusioni verosimili o probabili, sprovviste di quel grado di certezza che ci si attende, invece, dall’applicazione del metodo logico- sillogistico133.
Ciò posto, occorre ora indagare le due principali strutture logiche in cui può articolarsi la logica della ricerca: il ragionamento per esclusione e il ragionamento per indizi134. Il primo, basato su un sillogismo disgiuntivo, proprio della logica deduttiva, tale per cui “A o B o C, ma B e C non sono possibili, quindi A”, è impiegato anche nel settore della scienza giuridica, tanto in relazione alle questioni di fatto, quanto in relazione alle questioni di diritto135. Il secondo si fonda, invece, su un nesso di
consequenzialità probabilistico e presenta la medesima struttura del ragionamento giuridico di carattere presuntivo, nel quale – come è noto – il giudice compie un
132 E. TORRI, I fondamenti della logica: metodi dell’argomentare e modalità dell’agire, in Legalità e giustizia, 2-3/2004, 100-101. In relazione alla giustificazione interna, l’A. rammenta
che l’applicazione giudiziale di una norma generale ad un caso concreto, classificata come un semplice ragionamento deduttivo, rappresenta tecnicamente un “sillogismo ipotetico misto”, recante una premessa maggiore di tipo condizionale, ossia la norma giuridica ritenuta applicabile alla fattispecie concreta, e una premessa minore, ossia l’enunciato fattuale avente ad oggetto la fattispecie concreta che rientra nell’alveo applicativo della norma, che asserisce la verità del proprio antecedente logico.
133 E. TORRI, op. cit., 102-103. L’A. precisa che mentre la motivazione in diritto serve a
giustificare la premessa maggiore, ossia le norme ritenute applicabili al caso di specie, la motivazione in fatto è, invece, rivolta a giustificare la premessa minore, ossia una certa descrizione dei fatti oggetto del giudizio. Evidentemente, le due categorie, seppur distinguibili da un punto di vista concettuale, appaiono poi fortemente intrecciate nel tessuto argomentativo della decisione. Lo stesso può - secondo Ubertis - predicarsi, più in generale, della tralatizia distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, alla quale va riconosciuta un valenza essenzialmente metodologica, trattandosi delle componenti di una coppia inscindibile che vengono considerate disgiuntamente solo per rispondere ad esigenze di carattere processuale