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Elementi peculiari dei modelli di Simbiosi Industriale: hard features e soft features

CAPITOLO 2 –ECONOMIA CIRCOLARE E SIMBIOSI INDUSTRIALE:

5. La Simbiosi Industriale

5.3. Elementi peculiari dei modelli di Simbiosi Industriale: hard features e soft features

La Simbiosi Industriale, strumento dell’Ecologia Industriale e dell’Economia Circolare, ha quindi due macro-obiettivi: la creazione di vantaggi competitivi per le imprese e il miglioramento delle prestazioni ambientali di un territorio o di un’area industriale.

Ciò può avvenire perché, per le imprese, far parte di una rete consente di condividere fattori di rischio e di costo, connessi all’approvvigionamento delle materie prime, al mancato smaltimento di sottoprodotti e alla possibilità di condividere servizi e infrastrutture.

Questi macro-obiettivi vengono raggiunti attraverso la modellizzazione dei processi produttivi presenti nell’area di riferimento, in modo tale da chiudere i cicli delle risorse, minimizzando il prelievo di materia prima dall’esterno e la produzione di rifiuti conferiti all’esterno.

 Applicazione in un “dominio”33

ben definito, geografico o economico. Secondo la declinazione geografica (data da Chertow), la simbiosi si può sviluppare in un contesto di prossimità: tra imprese limitrofe, in un raggruppamento di imprese, in un distretto, in un’area industriale o un’APEA. Secondo la declinazione economica (data da Lombardi e Laybourn), la simbiosi si può sviluppare in una rete in cui la prossimità sia determinata dagli interessi di business, dalla comune propensione all’innovazione e alla condivisione.

 Coinvolgimento di attori “diversi”. Come si evince soprattutto dalla definizione di Lombardi e Laybourn, maggiore è la differenziazione tra i soggetti coinvolti nella rete, maggiore è la disponibilità di competenze cui attingere e di risorse da valorizzare. L’utilizzo del termine “diversi” (Lombardi e Laybourn), al posto di “tradizionalmente separati” (Chertow), evita fraintendimenti e ambiguità legate all’interpretazione dell’avverbio “tradizionalmente”: non è infatti chiaro se si faccia riferimento al settore produttivo, alla proprietà, ai processi (Lombardi & Laybourn, 2012).

 Realizzazione di una rete. Il modello di Simbiosi Industriale si basa infatti sull’individuazione e sulla creazione di sinergie tra gli attori precedentemente citati, all’interno del “dominio” definito, combinando gli elementi descritti sopra. Il termine “rete” (o network) consente di definire al meglio il concetto di interazione e scambio reciproco di informazioni e risorse tra i soggetti coinvolti. Questo sistema, inoltre, non va inteso come chiuso, ma è aperto all’ingresso di nuovi membri.  Individuazione di sinergie a 360°. Le potenziali interazioni tra i soggetti compresi

all’interno del “dominio” precedentemente definito non sono legate solo allo scambio di sottoprodotti, ma possono riguardare anche la condivisione di spazi, servizi, infrastrutture e competenze. Le imprese, ad esempio, possono avvalersi di servizi logistici o di sorveglianza comuni.

 Eco-innovazione e sostenibilità. Questi termini caratterizzano i modelli di Simbiosi Industriale, che consentono di ottenere vantaggi competitivi e benefici ambientali. Il termine “eco-innovazione”, infatti, negli ultimi due decenni è stato associato alle azioni condotte dalle imprese che hanno saputo coniugare ritorni economici e miglioramento delle prestazioni ambientali (OECD, 2015): esattamente i risultati perseguiti dall’applicazione di modelli di simbiosi.

33 Da intendersi con riferimento alla definizione matematica: in analogia all’insieme su cui è definita una funzione,

nel caso della simbiosi si può intendere come “l’insieme dei soggetti per i quali valgono le condizioni di applicabilità dei processi di simbiosi”.

 Contesto “culturale” favorevole autoalimentante. Gli attori del “dominio” sono già in partenza caratterizzati dalla “prossimità” definita precedentemente; quando non è geografica è legata alla loro predisposizione all’innovazione, alla condivisione di informazioni e risorse. Il fatto di essere parte di un network di simbiosi tende a incrementare questa predisposizione: secondo quanto definito da Cohen-Rosenthal, “cominciare ad attingere dalle risorse di una rete altera la percezione che un’organizzazione ha di sé stessa e di come opera” (Cohen-Rosenthal, 2000). Tradotto in altre parole, attraverso la partecipazione alla rete, le imprese (evidentemente già predisposte) cominciano a modificare progressivamente la loro cultura e il loro approccio, diventando sempre più attente a nuove opportunità e a nuove possibilità di interazione, diventando al contempo più efficienti nei loro processi. Analogamente, all’interno di una rete anche le fonti di informazioni si moltiplicano, consentendo così di aumentare anche il patrimonio di risorse intangibili degli attori coinvolti nel network.

Di seguito questi aspetti peculiari dei modelli di Simbiosi Industriale sono stati schematizzati introducendo un’analogia derivante dal mondo delle risorse umane, facendo riferimento alla distinzione tra hard skills e soft skills. Le prime sono generalmente intese come competenze specifiche, tipicamente acquisite in seguito ad attività di formazione; le seconde sono invece intese come competenze trasversali, non cognitive ma peculiari del soggetto cui si fa riferimento.

In questo caso, il sistema cui si fa riferimento parlando, in analogia, di hard features e soft features è il modello di simbiosi. Le prime si possono quindi intendere come caratteristiche base, imprescindibili per la costituzione di un network; le seconde come caratteristiche trasversali che possono caratterizzarlo fin dall’inizio o che si possono sviluppare successivamente all’interno di un ecosistema favorevole (ad esempio, la propensione culturale alla condivisione di informazioni o all’innovazione può essere inizialmente ridotta, ma aumentare nel corso del tempo in seguito alle interazioni della rete).

Figura 32: Riepilogo degli elementi peculiari che caratterizzano i network di Simbiosi Industriale, ripartiti tra hard features (elementi base) e soft features (elementi trasversali).

5.4. Condizioni al contorno per l’applicazione e il funzionamento di modelli di Simbiosi Industriale

La Simbiosi Industriale, per quanto riepilogato in precedenza, è quindi studiata da tempo, anche se solo da un paio di decenni in maniera sistematica. Ancora da più tempo processi di “simbiosi” vengono realizzati tra imprese che, ignare dell’esistenza di un contesto scientifico relativo a questo ambito, cercano e trovano soluzioni di reciproco interesse per la valorizzazione dei propri sottoprodotti e scarti. Dagli anni ’90 del secolo scorso, con l’introduzione della teoria dell’Ecologia Industriale, questo contesto scientifico è riconosciuto e diffuso. Attualmente il compito della ricerca industriale è quello di mettere a sistema le conoscenze, definendo una metodologia di indagine che risulti efficace soprattutto nel collegare competenze e filiere industriali trasversali. Queste devono collaborare e interagire affinché i processi siano vantaggiosi e replicabili, e affinché la rete di scambio di flussi possa arrivare a raggiungere un punto di ottimo all’interno del contesto sociale, ambientale ed economico.

Affinché questo possa accadere e si realizzino network di simbiosi in grado di sostenersi, devono essere verificate tre condizioni al contorno (Iacondini, Mencherini, Passarini, & Vassura, 2014):

 Fattibilità tecnica: la Simbiosi Industriale deve funzionare.

 Fattibilità normativa: i processi di scambio di sottoprodotti devono poter essere autorizzati.

Queste condizioni al contorno sono schematizzate in Figura 33.

Figura 33: condizioni al contorno per la realizzazione e il mantenimento di processi e modelli di Simbiosi Industriale

Andando maggiormente nel dettaglio, si può affermare che lo studio di processi e modelli di riuso di sottoprodotti e risorse abbia raggiunto nel tempo una notevole maturità. Esiste però una criticità legata alla capacità di scalare progetti pilota a livello industriale, passando da valori di TRL (Technology Readiness Level34) pari a 6 o 7, fino al valore di 9.

34 Il termine Technology Readiness Level (acronimo TRL), che si può tradurre con Livello di Maturità

Tecnologica, indica una metodologia per la valutazione del grado di maturità di una tecnologia, originariamente sviluppata dalla NASA nel 1974. Nel 2013, l’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO) ha pubblicato un proprio standard per definire i livelli di maturità tecnologica ed i relativi criteri di valutazione. Attualmente il sistema si basa su una scala di valori da 1 a 9, dove 1 è il più basso (definizione dei principi base) e

9 il più alto (sistema già utilizzato in ambiente operativo). Il significato dei valori è il seguente (Commissione Europea, 2014): Ricerca di base

 TRL 1 : Principi di base osservati Ricerca tecnologica e applicata

Questa problematica è particolarmente sentita a livello italiano dove, tolta l’esperienza della piattaforma siciliana realizzata da ENEA e l’attività pilota sperimentale oggetto del 3° e del 4° Capitolo di questa tesi, sono stati realizzati quasi esclusivamente lavori di ricerca che non hanno però avuto applicazioni e ricadute pratiche (Albino & Fraccascia, 2015). La simbiosi deve funzionare tecnicamente: i processi di riuso e valorizzazione dei residui e dei sottoprodotti identificati a livello teorico devono cioè funzionare anche all’atto pratico. Il problema è legato al fatto che, molto spesso, la transizione dalla fase teorica a quella della realizzazione pratica viene a mancare.

Ciò accade anche a causa della seconda condizione che deve essere verificata: la simbiosi deve essere economicamente conveniente. Se, di base, i processi di riuso e valorizzazione di risorse altrimenti smaltite in discarica sono di per sé convenienti, vanno però considerate nel bilancio complessivo anche le spese in Ricerca e Sviluppo che le imprese devono sostenere per poter individuare e applicare soluzioni di simbiosi. Attualmente in Italia sono poche, a causa della crisi, le aziende che possono permettersi di aggiungere in bilancio voci di questo tipo, specialmente tra le Piccole e Medie Imprese (PMI). Analizzando i dati ISTAT, infatti, si evidenzia il fatto che la spesa in R&S da parte delle micro e piccole imprese (classe di addetti fino a 49 dipendenti) nel 2013 rappresentava solo il 10,3% del totale, a fronte del 16,4% delle medie imprese (50-249 addetti) e, soprattutto, del 73,3% coperto dalle grandi imprese (classe di addetti > 250) (Associazione Italiana Ricerca Industriale, 2016).

Inoltre non sempre i processi di simbiosi determinano un ritorno economico dell’investimento nel breve termine, e questo cozza con l’atteggiamento precauzionale e con “orizzonte limitato” di molte imprese, non disposte a imbarcarsi in investimenti che non determinino benefici entro i primi 3 anni. A queste criticità va anche aggiunta la peculiarità italiana dello scarso spirito collaborativo tra imprese e tra differenti filiere, aspetto che complica ulteriormente la riuscita efficace ed economicamente sostenibile della chiusura di cicli produttivi.

Le soluzioni a queste criticità, perciò, consistono nell’identificare processi di simbiosi che siano redditizi a breve termine (che non richiedano processi intermedi di valorizzazione, o

 TRL 3 : Prova sperimentale del concetto

 TRL 4 : Validazione in laboratorio del concetto Sviluppo sperimentale e dimostrazione

 TRL 5 : Validazione della tecnologia nell’ambiente rilevante

 TRL 6 : Dimostrazione nell’ambiente rilevante

 TRL 7 : Dimostrazione nell’ambiente operativo

 TRL 8 : Sistema completo e qualificato Prima produzione

grossi procedimenti autorizzativi) o percorsi di simbiosi caratterizzati da un tale valore aggiunto che consenta alle imprese coinvolte di affrontare un profilo di investimento a lungo termine.

In parallelo risulta necessario lavorare sull’aspetto culturale e collaborativo, creando un dialogo efficace tra produttori e utilizzatori finali dei sottoprodotti e superando la resistenza alla collaborazione reciproca: ciò può avvenire, come evidenziato dalle esperienze estere del NISP in UK e di Kalundborg in Danimarca, attraverso un coordinamento forte da parte di istituzioni leader.

Un altro aspetto da curare per evitare cortocircuiti che rendano inapplicabili i modelli di Economia Circolare e di Simbiosi Industriale è inoltre quello della comunicazione tra mondo delle imprese e mondo della ricerca industriale. Non sempre gli innovatori che studiano un processo ne valutano a priori, o durante il loro studio, la fattibilità economica. Ecco perché a volte la comunicazione tra il ricercatore industriale e l’imprenditore che vuole innovare risulta inefficace. Una maggiore conoscenza e considerazione degli aspetti economici e un linguaggio comune tra innovatori e industria sarebbe auspicabile per l’applicazione di processi innovativi e sostenibili. La mancanza o erronea comunicazione tra ricerca e industria è in effetti un grave problema che affligge soprattutto l’innovazione italiana: spesso (ma sempre meno) i ricercatori non sono abituati ad interagire con ambienti commerciali e industriali e spesso il loro messaggio risulta debole e poco attraente per le aziende.

L’ultima condizione al contorno è legata alla fattibilità normativa dei processi di simbiosi: questo aspetto sarà oggetto di approfondimento nel Capitolo 3 e nel Capitolo 4, dove sarà dimostrato che proprio la criticità burocratica è quella che più pesa sulle imprese che vogliono intraprendere processi di valorizzazione dei propri (o altrui) sottoprodotti. In particolare, questa condizione al contorno è particolarmente vincolante in Italia, dove il panorama normativo è alquanto complesso e differenti tipi di rifiuto sono regolati da apposite norme (ad esempio i RAEE, regolati dal D.Lgs 151/2005, i veicoli a fine vita regolati dal D.Lgs 209/2003, gli impianti di co-incenerimento regolati dal D.Lgs 133/2005).

Il vincolo normativo principale risiede nella distinzione tra sottoprodotto e rifiuto (definita in dettaglio nel capitolo successivo), regolata dal Decreto Legislativo del 3 aprile 2006, n. 152, intitolato “Norme in materia ambientale” e dalle successive modifiche apportate dal Decreto Legislativo del 3 dicembre 2010, n. 205. I sottoprodotti, infatti, possono essere valorizzati e riutilizzati, mentre i rifiuti devono essere smaltiti seguendo le indicazioni contenute nelle relative norme.

In particolare, tra le condizioni che devono essere rispettate per poter parlare di sottoprodotto c’è il seguente punto: “la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”. La definizione di “normale pratica industriale” lascia chiaramente spazio all’interpretazione, ragion per cui è accaduto che la gestione (e l’interpretazione) di questa normativa da parte di autorità locali differenti abbia portato a risultati differenti, così come è accaduto che si sia fatto ricorso al Consiglio di Stato per avere chiarimenti in merito all’interpretazione.

Processi di simbiosi funzionanti da un punto di vista tecnico e redditivi economicamente, quindi, devono poter anche essere autorizzati: molto spesso, in Italia, è proprio questo aspetto (condizionato dalle incertezze e dalle complessità definite in precedenza) che frena le imprese nell’intraprendere processi di valorizzazione dei propri sottoprodotti.