CAPITOLO 1 DALLO SVILUPPO SOSTENIBILE ALLA GREEN ECONOMY
2. I limiti alla crescita mondiale e la teoria dello sviluppo sostenibile: evoluzione e
2.4. Sostenibilità debole e sostenibilità forte
Benché la necessità di muoversi verso un approccio di sviluppo sostenibile sia ormai accettata quasi unanimemente, il modo di intendere la sostenibilità e di impostare le strategie per raggiungere gli obiettivi a essa connessi, variano molto, soprattutto in base all’accesso alle risorse. I Paesi più avanzati economicamente tendono infatti a mantenere i loro consumi elevati, come detto in precedenza, pur cercando di limitare gli sprechi e i danni ambientali; i Paesi economicamente svantaggiati vorrebbero invece che i consumi delle nazioni più progredite venissero ridotti, in un’ottica di ridistribuzione più equa dell’accesso alle risorse.
Queste differenti interpretazioni, legate alla differenza di considerazione per le variabili integrate nei processi di sviluppo e all’interpretazione delle responsabilità nei confronti delle generazioni attuali e future, si possono riassumere in due macro-orientamenti:
Sostenibilità debole;
Sostenibilità forte.
Queste definizioni sono state coniate per la prima volta dall’economista statunitense Herman Daly e si originano a partire dall’importanza (o meno) attribuita alla
conservazione del capitale e alla fiducia (o sfiducia) circa la sua riproducibilità. Vengono utilizzate per apportare delle soluzioni riguardanti i problemi di sostenibilità in relazione allo sviluppo economico del territorio.
Secondo la definizione di Daly della sostenibilità debole, è possibile sostituire le risorse naturali (il cosiddetto “capitale naturale”) con un capitale prodotto dall’uomo, se ciò porta a un aumento del valore totale del sistema e –soprattutto– a patto che nel lungo periodo lo stock di risorse naturali sia almeno costante. Secondo questo approccio alla sostenibilità, ogni generazione potrebbe impoverire gli ambienti naturali, purché compensi tale degrado accrescendo il valore e la qualità dell’ambiente prodotto artificialmente (intendendo con questo ogni opera prodotta dall’uomo: ambienti urbani, coltivazioni, ecc.).
Questa definizione è stata successivamente integrata da Turner, secondo cui la distruzione a fini produttivi di capitale naturale è ammessa a patto che “questa perdita sia compensata con l’aumento dello stock di strade e di macchinari, o di altro capitale (fisico) prodotto dall’uomo. In alternativa, è possibile trasferire meno strade e meno industrie a condizione di prevedere una compensazione basata su una quantità maggiore di zone umide, di boschi, o di istruzione” (Turner, 1996).
La sostenibilità debole, quindi, afferma che è possibile sostituire le risorse naturali, se ciò porta ad un aumento del valore totale del sistema, a patto che nel lungo periodo lo stock di risorse naturali sia almeno costante. Ad esempio, è possibile realizzare costruzioni e impianti, a patto che una quota similare di capacità biologica sia riprodotta: ciò può essere ottenuto progettando case che garantiscano un bilancio energetico positivo; oppure compensare il consumo di energie fossili, che sono finite, incrementando la quantità di risorse energetiche rinnovabili, ad esempio per mezzo della riforestazione.
In tal senso la sostenibilità debole fa riferimento alle leggi di mercato, le quali tendenzialmente dovrebbero scoraggiare l’uso di risorse naturali grazie all’aumento del loro prezzo a causa della crescente scarsità. Ovviamente la “debolezza” della consuetudine dovrebbe essere rafforzata da sistemi di valutazione, cioè da metodi e strumenti comparativi tra il valore di quanto prodotto dall’uomo e i valori dei beni naturali.
A questo tipo di approccio si contrappone l’idea di una cosiddetta sostenibilità forte, che afferma la infungibilità delle risorse naturali poiché esse sono parte insostituibile del patrimonio a disposizione; al loro degrado non c’è rimedio e quindi non sono sostituibili neanche dall’incremento di altri valori, come quelli sociali o economici. Questo tipo di sostenibilità ritiene che si debba lasciare alle generazioni future l’intera disponibilità di capitale naturale, che non può essere artificialmente sostituito dall’uomo. Secondo questo
approccio di sostenibilità, quindi, l’obiettivo principale diventa il mantenimento di un determinato livello di capitale naturale preesistente, mediante una funzione di complementarietà tra capitale naturale e capitale prodotto.
In quest’ottica, il capitale naturale non è più un semplice serbatoio a cui attingere, ma un complesso di sistemi che espletano, tramite una delicata rete di equilibri, una molteplicità di funzioni: prima tra tutte il supporto dell’esistenza umana. Come afferma Herman Daly, “l’ambiente naturale e il capitale prodotto dall’uomo più che sostituti sono complementari: che ne sarebbe dei pescherecci senza popolazioni ittiche? O delle segherie senza foreste?” (Daly H. , 1996).
Così se storicamente il fattore limitante lo sviluppo è stato il capitale sociale, nel mondo contemporaneo è la risorsa naturale a diventare rapidamente il fattore in grado di limitare lo sviluppo: per questo motivo si lavora al fine di risparmiare o di riciclare. Al tempo stesso, risulta quindi lecito consumare risorse fintanto che non si eccedano le capacità di ripristinarle. Da queste considerazioni deriva l’ampio sviluppo promosso dalle organizzazioni internazionali sugli indicatori, ovvero sui “campanelli di allarme” che dovrebbero permettere al decisore di capire quando tale soglia viene oltrepassata e come agire di conseguenza.
All’interno della comunità scientifica e istituzionale, però, questo approccio è divenuto preponderante, e progressivamente ampliato: il presupposto è quello della complementarità tra capitale umano e capitale naturale: ciascuna componente dello stock va mantenuta costante, poiché la produzione dell’uno dipende dalla disponibilità dell’altro (Neumayer, 2003).
Non è ammissibile perciò un utilizzo sregolato delle risorse naturali, in quanto esse non sono sostituibili come quelle umane, ma il loro depauperamento dà luogo nella maggior parte dei casi a processi irreversibili (ad esempio, l’estinzione di specie animali) o reversibili, ma solo in un lunghissimo periodo, non coincidente con i tempi umani (ad esempio, il processo di rimboschimento di foreste).
I modelli di sviluppo sostenibile devono perciò contemplare politiche di tutela e salvaguardia delle risorse naturali, che vanno gestite razionalmente, contemperando l’esigenza di sviluppo socio-economico con quella di rispetto dell’ecosistema.
All’interno del concetto di sostenibilità forte occorre poi identificare anche un’accezione dello stesso ancora più restrittiva: è la cosiddetta sostenibilità molto forte. Questa, partendo dalle considerazioni riportate in precedenza, presenta in aggiunta una serie di vincoli che devono essere imposti a garanzia di alcune funzioni ambientali. In questo approccio, in
generale, si sostiene che sia necessaria la conservazione del capitale naturale basandosi anche su un ideale di giustizia.
Le principali caratteristiche degli approcci di sostenibilità debole e sostenibilità forte sono riportati in Figura 7.
Figura 7: Schematizzazione realizzata per sintetizzare le principali differenze tra i due differenti approcci alla sostenibilità, sostenibilità debole e sostenibilità forte
I due approcci presentano differenze sostanziali negli obiettivi e nelle tempistiche:
Il sostanziale appiattimento di valore tra natura e benessere, presupposto della sostenibilità debole, sviluppa una forte attenzione per i paesi in via di sviluppo, per i problemi sociali, per un’umanità attualmente sofferente e dalle condizioni indifferibili. Si afferma che è lo sviluppo economico la chiave per diminuire la pressione demografica e ambientale; così nelle agende internazionali alla biodiversità o al cambiamento climatico sono anteposti i problemi di inquinamento dell’acqua e dell’aria, l’erosione del suolo, lo sradicamento della povertà. Al
contempo barattare la qualità ambientale con la speranza del benessere può riproporre il pericolo di un nuovo colonialismo.
La politica di sostenibilità forte di molti paesi tende invece a porre come priorità l’investimento sulle nuove tecnologie e su nuovi brevetti che possano aiutare a contrastare la velocità dei processi di degrado ambientale, proponendo nuove soluzioni e differenti utilizzi.
Se si può affermare che queste due posizioni sono alternative nel breve periodo (in quanto propongono priorità differenti) e che l’approccio verso la sostenibilità debole si presenta come più pragmatico, è anche vero che le risorse naturali non sono indefinitamente sostituibili con quanto prodotto dall’uomo. A lungo termine la sostenibilità forte è l’unica strategia in grado di assicurare alle attività umane ed economiche di poter continuare a esistere. Così nell’agenda operativa di nazioni, città, organizzazioni è possibile trovare delle convergenze all’interno della programmazione temporale, dove al breve termine si associano politiche di rendimento immediato (sostenibilità debole) e nel medio e lungo termine politiche e programmi di accumulazione (sostenibilità forte).
2.5. Il contesto attuale e lo sviluppo sostenibile alla base della Conferenza sul