BUONE PRATICHE PER MORIRE E PERMETTERE DI MORIRE
5.1 Elisabeth Kübler-Ross e Marie de Hennezel, due esempi.
Cicely Saunders ha precorso i tempi e ha costruito il primo Hospice al mondo, ma se lei è stata un’apripista, bisogna sottolineare che ha avuto delle ottime allieve.
Due donne che in decenni diversi hanno continuato e approfondito il lavoro di Cicely, in Paesi diversi, con metodi in parte diversi tra loro, ma con un obiettivo comune: la dignità nella vita e nella morte. Le allieve di Cicely sono due donne coraggiose che in un universo quasi esclusivamente maschile come è la medicina, specie fino a qualche decennio fa, sono riuscite a farsi largo e ad imprimere una svolta decisiva nel vivere il fine vita.
Una svolta di dignità e amore.
5.1.1 Elisabeth Kübler-Ross
Elisabeth Kübler-Ross è stata una psichiatra e una docente di medicina comportamentale, oltre che la principale esponente degli studi sul fine vita e sulla morte.
La sua esperienza nasce sul campo, negli anni ’60 ha lavorato negli ospedali di New York e di Chicago, qui ha potuto vedere come venivano trattati i malati terminali.
All’epoca i malati alla fine della loro vita venivano segregati in regime di isolamento dove in sostanza venivano abbandonati a se stessi senza nessun tipo di aiuto e conforto da parte del personale medico. Tutto questo la
impressionò notevolmente, tanto da spingerla ad organizzare dei seminari rivolti a medici e infermieri per conoscere e capire la reale situazione del malato terminale e , soprattutto, per cambiare l’atteggiamento di chi lavora con loro.
I suoi seminari fecero molto scalpore rivelandosi però molto frequentati, tanto che negli anni successivi uscì il suo libro “La morte e il morire” riassunto del suo lavoro con i malati terminali.
Questo libro è anche il riassunto di una ricerca, nel 1965 alcuni studenti del Seminario di Teologia di Chicago chiesero la sua collaborazione per svolgere uno studio sulla crisi della vita umana, crisi che identificavano nella morte.
Da questa collaborazione nasce il materiale per il libro, l’idea nuova e rivoluzionaria è quella di intervistare e soprattutto ascoltare i malati terminali, sono loro per la prima volta i protagonisti e raccontano le loro condizione portando riflessioni e sentimenti sensazionali.
Il laboratorio consiste in una serie di colloqui con i malati che accettano di collaborare, esplorando le sensazioni e le angosce che un malato si trova a vivere, arrivando a scoprire quanto sia importante la comunicazione e lo scambio di emozioni, soprattutto con i familiari.
La preparazione alla morte avviene in maniera diversa fino a come era stata in quel momento, finalmente i malati scoprono che si può parlare liberamente della morte.
“Ci meravigliamo sempre nel constatare quanto una seduta possa sollevare
un malato da un peso tremendo e ci domandiamo perché sia così difficile per il personale e per la famiglia intuire i bisogni dei malati, dato che spesso non occorre altro che una domanda aperta.”23
Elisabeth Kübler-Ross viene affiancata dai suoi studenti e a volte dal cappellano dell’ospedale, l’unico che in qualche modo affrontava già prima il tema morte con i malati, per quanto riguarda il personale medico, invece, la collaborazione non è subito facile e scontata.
Sono soprattutto i medici ad ostacolare lo svolgimento dei colloqui trincerandosi dietro un “Il paziente non è pronto per parlarne” quando in realtà quelli non pronti a parlarne erano loro.
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Anche se gli studi sono degli anni ’70, rimangono sempre estremamente attuali.
La paura della morte è radicata più che mai e la morte stessa è il tabù per eccellenza che spesso allontana dal morente o dai suoi familiari, il tempo a disposizione viene riempito con tanto fare e con poco stare vicino, ma la conoscenza di quello che succede e succederà fa diminuire le paure e le resistenze. La comunicazione, però, deve essere intesa come un processo e non come un momento, deve esserci una costruzione della comunicazione conoscendo il malato, la sua famiglia, le sue esigenze e solo avendo una conoscenza approfondita di tutto questo si potrà aiutare il malato a sciogliere eventuali nodi che trova nel suo cammino, permettendogli di morire serenamente.
“C’è un momento nella vita del malato, in cui cessano i dolori, la mente
scivola in uno stato senza sogni, il bisogno di cibo diviene minimo e la coscienza dell’ambiente circostante svanisce nell’oscurità. Questo è il momento in cui i parenti camminano su e giù per i corridoi dell’ospedale, nella tortura dell’attesa, senza sapere se andare via per occuparsi dei vivi o star lì ad aspettare la il momento della morte. Questo è il tempo in cui è troppo tardi per le parole, ma è il tempo in cui i parenti invocano maggiormente aiuto, con o senza le parole.”24
E’ il momento in cui medico, infermiere o assistente sociale possono e devono essere di grande aiuto, possono aiutare la famiglia a decidere chi rimane assieme al malato ad aspettare la morte e rassicurare chi non se la sente, evitandogli così senso di colpa o vergogna.
E’ il momento di stare vicini senza le parole, accogliendo il dolore che viene dato.
“Essere terapisti di un malato in fin di vita ci dà coscienza dell’unicità di
ogni individuo in questo vasto mare dell’umanità. Ci dà coscienza della nostra finitezza, della breve durata della nostra vita. Pochi di noi vivono più di settant’anni, eppure in quel breve tempo la maggior parte di noi crea e vive una biografia unica e tesse il suo pezzo di storia umana.”25
24
Ibidem pag. 308.
25
5.1.2 Marie de Hennezel
Marie de Hennezel è una psicoterapeuta e psicologa e ormai da molti anni si occupa di cure palliative, è stata incaricata dal Ministero della Sanità francese per la loro diffusione ed è autrice di due rapporti ministeriali sul loro andamento.
Nel suo primo libro, “La morte amica”, parla di come vengono accompagnati i morenti nell’Unità di Cure Palliative di Parigi dove lei lavora. Il suo interesse per il fine vita la porta a lavorare con i malati terminali attorno agli anni ’70, permettendole così di avere decenni di esperienza.
Negli anni ’90, quando inizia a scrivere il suo primo libro, moltissimi dei malati che arrivano nell’Unità di Cure Palliative solo malati di AIDS, malattia di cui all’epoca si sapeva ancora poco e soprattutto che suscitava terrore e disgusto.
La sua cura a questi malati risulta ancora più importante proprio perché molto spesso vengono rifiutati dalla società, il resto dei malati sono tutti malati di tumore con storie più o meno simili, ma tutti, quando arrivano in reparto, sono clinicamente malati terminali.
La rivoluzione di Marie de Hennezel consiste nella pratica dell’aptonomia, dal greco hapto “toccare” e nomos “regola”, cioè l’approccio tattile affettivo. Il fondatore di questa scuola di pensiero, chiamiamola così, è Franz Veldman, un medico olandese che nel 1945 studiò l’affettività espressa attraverso il contatto tattile.
In principio veniva usata nel rapporto pre e post-natale tra genitori e figli, ma negli ultimi anni è stata usato moltissimo anche con i malati al fine della loro vita.
La convinzione di Marie de Hennezel è molto semplice: i malati hanno un disperato bisogno di contatto affettivo, di una carezza, un abbraccio, un bacio.
Di un contatto con qualcuno che sia davvero empatico con loro e che abbia la maturità e l’attenzione di coltivare il loro benessere, di riservare loro quelle attenzioni e quei gesti affettuosi che generalmente si concedono solo ai bambini.
La sua rivoluzione sta proprio in questo, nel cercare di diffondere questo messaggio ai colleghi con cui lavora spingendoli ad offrire più attenzione e gesti affettuosi ai malati, malati che in una fase tanto delicata sono estremamente sensibili ai gesti che ricevono.
In un reparto di cure palliative il contatto è una medicina vera e propria, anche, o soprattutto, perché medicine come le intendiamo tradizionalmente non ce ne sono più, c’è tutto il resto però.
La maggior parte dei malati ha il disperato bisogno di dire ai familiari che sta per morire, di esplicitarlo, di gridarlo, di renderlo reale.
Ma di fronte al grido di disperazione cosa si può fare?
Quel senso di impotenza paralizza i familiari, ma in fondo, dice l’autrice, il malato ci sta forse chiedendo di impedire la sua morte? No, un malato sa benissimo che questo è impossibile, e nel momento in cui ha bisogno di esplicitare la propria fine ha bisogno solo di una cosa: sfogare il dolore e la paura. Moltissime delle persone che Marie de Hennezel ha accompagnato alla morte hanno chiesto un’ultima cosa, non essere lasciati soli nel momento supremo.
Ed è così che lei stessa ha improntato il suo lavoro, nell’accompagnamento effettivo del malato, non solo nelle belle parole che tanto spesso circondano il fine vita, ma nella presenza costante del personale ospedaliero che con le sue premure, anche affettuose, può scortare il malato fino al traguardo finale.
“Non è proprio perché l’universo di chi sta per morire si restringe, e i suoi
giorni sono contati, che gli ultimi scambi, le parole ancora possibili, gli sguardi, la sensazione della pelle sulla pelle, diventano insostituibili?”.26
26
M. de Hennezel, “La morte amica. Lezioni di vita di chi si avvicina alla fine”, Edizioni BUR Saggi, Bergamo, 2013, pag.223.
“La maggior preoccupazione dell’uomo non è la ricerca del piacere o il tentativo di evitare il dolore, ma la comprensione del senso della sua vita. Ecco perché l’uomo è perfino disposto a soffrire, a condizione però di sapere che le sue sofferenze hanno un significato.”
V. Frankl