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Il dolore in Occidente

IL DOLORE E LA MORTE IN OCCIDENTE

2.1 Il dolore in Occidente

Il dolore si conosce per esperienza, e l’esperienza è la modalità con cui si conosce e per quanto riguarda il dolore è la modalità più diretta ed è con il dolore che si introduce una nuova visione del mondo e un nuovo modo di comprendere quello che accade.

Con la visione del dolore il mondo appare trasformato e in questo senso l’esperienza del dolore è una delle più potenti che una persona possa fare, perché il dolore trasforma il ritmo dell’esistenza, rompe i ritmi di vita, dilata il tempo e produce una discontinuità che fa apparire le cose diverse.

Il dolore, che è un fatto personale, diventa un dolore universale, un evento cosmico che permette al dolore di farsi linguaggio e questa sua componente universale lo rende comunicabile, o meglio, permette a chi soffre di comunicarlo, e a chi sta accanto di riconoscerlo.

Ma il dolore è difficile da raccontare, spesso innalza muri tra chi soffre e chi assiste, genera consolazioni impotenti e parole che dovrebbero portare sollievo ma che in realtà spesso irritano il malato, il dolore accerchia e divide allo stesso tempo e porta il malato al grido o al silenzio, perché se la sofferenza non lo invade gli è possibile dissimulare.

Il malato cerca di parlare del dolore e a volte ci riesce, ci riesce proprio in virtù di quel dolore universale che lo accomuna agli altri malati, c’è una

solidarietà silenziosa tra chi soffre e c’è una sorta di barriera tra chi soffre e chi no, una barriera con delle finestre.

Il dolore non si può descrivere a parole, ma la sua vicinanza fa sentire chiamati in causa.

Il dolore rimane personale, ma di fronte a chi soffre irrompe la possibilità di soffrire a nostra volta, da qui inizia il sentirsi tutti coinvolti in un dolore che è universale e inizia il dialogo tra chi vive il dolore e i possibili candidati, perché il dolore patito si universalizza nel dolore possibile.

L’uomo si rende conto del dolore possibile solo di fronte ad un dolore patito, solo nel momento in cui si trova faccia a faccia con la sofferenza, per far fronte a questo gli uomini si scambiano le proprie esperienze di dolore all’interno dei luoghi comuni dove il parlare del dolore diventa legittimo e dove è possibile coltivare la speranza, questi luoghi comuni si stabilizzano nelle fedi, nelle teologie, nei riti.

Sono i riti e le credenze che hanno dato espressione al dolore degli uomini e, soprattutto al giorno d’oggi, lo scetticismo convive con una riserva di miti. Per capire il dolore è indispensabile coglierlo dove è, cioè imparare a riconoscerlo quando lo si incontra in modo da diventare abili nel riconoscere quelle che Salvatore Natoli chiama “le maschere del dolore”.10

Ogni uomo, nel momento in cui fa esperienza del dolore in un certo senso lo tradisce, lo tradisce doppiamente perché lo dissimula, lo nasconde, e perché lo trasmette.

Questi due tratti di fondo sviluppano le maschere della sofferenza e il dolore si tradisce nel vero senso del verbo latino tradere che significa trasmettere,

consegnare, lasciare, abbandonare, quindi lasciar trasparire, lasciar vedere, appunto tradendo.

L’atteggiamento ambiguo del malato è possibile solo fino a quando può controllare il dolore, fino a quando lo domina, ma questa ambiguità è possibile solo quando il dolore vissuto non viene del tutto nascosto e in quanto dissimulato viene in qualche modo mostrato.

La maschera indica il modo in cui il sofferente, nel dolore, continua a vivere e indica il suo più profondo modo di affrontare il dolore, la maschera fa in

10

Natoli S., “L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale” Feltrinelli Editore, Milano, 2010, pag. 13.

modo che gli altri che guardano diventino partecipi del dolore, che in qualche modo ne facciano esperienza e quindi lo conoscano.

La maschera rende riconoscibili tra loro i malati che soffrono, quindi in un certo senso genera comprensione, e allo stesso tempo suscita compassione da parte di chi non soffre, anche solo per il terrore che prima o poi quel male diventi male vissuto personalmente.

I segni fisici del dolore hanno a che fare con il corpo, con il disturbo del corpo e con quel dolore che è specificatamente fisico, l’esperienza dolorosa porta il malato a consegnarsi al medico facendo si che il dolore al giorno d’oggi sia completamente medicalizzato.

Uno dei tratti dominanti del dolore è il fatto che traccia un solco di divisione attorno a chi soffre, in questo modo il dolore circoscrive, delimita, confina e la sofferenza è la prova costante di una limitazione: la propria.

La sofferenza chiarisce all’uomo la propria individualità e la propria insostituibilità, nessuno può essere sostituito nel dolore o nella morte, e l’esperienza della morte si ha solo attraverso il dolore.

Ma la morte non arriva all’improvviso o tutta d’un tratto, la morte arriva giorno dopo giorno, sottraendo dalle giornate sempre un po’ più di vita, consumando le possibilità di espansione della vita perché la riduzione delle capacità vitali è dolore.

E l’esperienza di morte è anticipata nel dolore.

Ma il dolore ha contatto con la vita ed è morire vivendo, perché solo nel dolore morte e vita coesistono.

Il dolore non è un’esperienza che si decide di fare o non fare, viene inflitto e può essere solo sopportato, il dolore e la sofferenza sono per eccellenza cose che colpiscono e da qua la pazienza diventa per eccellenza la virtù nella sofferenza.

Il dolore anticipa la morte e in qualche modo è l’unico modo per far esperienza della morte in vita, e proprio perché al dolore non si sfugge diventa l’esperienza per eccellenza, quella che non è paragonabile ad altre proprio perché non è un’esperienza che si sceglie di fare o meno, e soprattutto perché è un’esperienza totalizzante, il dolore quando c’è invade tutto.

Il dolore vincola e colpisce, ma vincola ancora prima proprio per la possibilità di esserne colpiti, si ha dolore del dolore possibile e la pressante realtà di non essere immortali angoscia, inoltre, il dolore è separazione proprio perché è restrizione di vita, perché allontana le cose e le persone, facendo scivolare il malato verso la morte.

La convinzione universale dell’Occidente è che il dolore è ciò che si prova e che mette alla prova e allo stesso tempo è legame, perché niente lega di più di un dolore e della sofferenza, lega perché vincola e lega perché raccoglie, e prova perché si prova e mette alla prova, ma allo stesso tempo apre le porte alla cura e all’attenzione.

Il dolore si fa lutto nell’oggettivazione della mancanza, il lutto non è solo per il dolore che si ha ma anche per la possibilità di averlo, partecipando al lutto ci si immedesima nel dolore degli altri e nella mancanza di vita degli altri.

Ogni risposta al dolore viene ritenuta edificante o patetica se non è pratica, l’umanità contemporanea, abbandonate le possibilità religiose, fugge dal dolore o lo nasconde e in questo il progresso tecnico consente la fuga. L’affidarsi alla tecnologia come unica soluzione, come possibilità di salvezza in ogni caso contraddistingue il modo di pensare l’essere umano contemporaneo, ma la sofferenza rompe queste barriere e dilaga anche dove non è più controllabile, ma oramai non siamo più abituati ad avere la sofferenza nelle nostre vite e quando succede è una tragedia.

“Il dolore oggi nessuno lo incontra tranne che esso stesso non ci venga a trovare”11

, e così oggi si ha pudore del proprio dolore e molto spesso se ne ha anche paura.

11

“Ricordati sempre, io ci sarò. Ci sarò nell'aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.”

T. Terzani