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I professionisti del fine vita 1 Il medico

LAVORARE NEL FINE VITA

6.1 I professionisti del fine vita 1 Il medico

Come si decide di diventare medico? I motivi sono molti, ad esempio il desiderio di essere colui che incarna la fiducia, la speranza, il carisma e la tecnica medica o le entrate economiche che ne derivano, oppure il desiderio di dare senza interessi. Qualunque sia la motivazione, credo che legare la salvezza o il prolungamento di una vita ad una propria azione sia l’aspirazione massima.

L’educazione e la cultura in cui i futuri medici vivono prima ancora di entrare all’università, fanno si che gli studenti siano legati all’idea di negazione della morte ma, soprattutto, alla negazione della morte come fatto di interesse, come elemento di lavoro o di ricerca.

In questa ottica appare evidente come il paziente sia, quasi sempre, solo il portatore di una data malattia alla quale vanno tutte le attenzioni, la malattia desta l’interesse scientifico del medico, non il malato che la porta con sé. Con questa educazione e quest’ approccio, il giovane medico non può fare altro che impostare il suo lavoro nella stessa maniera, negando quindi la morte sia come realtà fisiologica sia come realtà emozionale. Il momento di

strappo da tutto questo avviene quando un paziente scopre di avere un cancro, quando la fase terminale si avvicina il medico ha già sottoposto il suo paziente a tutti gli esami possibili, e a quel punto si congeda dal suo malato e dai familiari lasciandoli in balia del terrore, ma pensando che questo sia un fatto più che natura su cui lui, medico, non può più intervenire. Di fronte al malato che non guarisce, o peggiora, il medico deve fare i conti con la frustrazione delle proprie aspirazioni “salvifiche”, cosa occorre quindi ad un medico?

Risponde Iona Heath, autrice del libro “Modi di morire”47, la quale sostiene che il medico dovrebbe avere occhi, parole, tatto e pazienza.

Occhi: i medici hanno bisogno degli occhi per vedere la dignità dei

loro pazienti e allo stesso tempo per impedirsi di “distogliere lo sguardo

dalla sofferenza e dal dolore”48

, la sofferenza e la malattia non vengono più lette negli occhi dei malati, ma nei valori che gli esami presentano.

Distogliere lo sguardo, o non alzarlo proprio dalla cartella clinica, vuol dire rifiutare la persona ancora in vita, non darle la dignità che si riserva ai viventi, ma trattarla come se fosse già morta.

Il medico che non si ritira dallo sguardo del malato è un medico onesto, non vuol dire che abbia più conoscenze scientifiche di altri o che non sia infallibile, anzi, vuol dire che onestamente accetta di non abbandonare il morente alle sue paure.

Parole: le parole servono per cercare di ridurre al minimo il senso di

solitudine che attanaglia il malato, servono per dare senso ad un’esperienza condivisa e per creare una connessione con l’altro. Le parole sono ancora più importanti in un contesto di dolore, proprio perché il dolore non può essere misurato oggettivamente ma è un’esperienza totalmente soggettiva, servono le parole per cercare di descriverlo, di raccontarlo, di alleggerirlo e di renderlo più condiviso.

E’ molto importante che ci sia un rapporto continuativo tra medico e paziente, perché solo così si può creare un rapporto più profondo e sincero,

47

I. Heath, “Modi di morire”, Torino, Bollati Boringhieri editore, 2009.

48

e solo con il tempo si possono trovare parole adeguate per descrivere il dolore che si vive.

Tatto: il mestiere di medico prevede tre tipi di contatto fisico che

vengono riconosciuti dai pazienti: il normale contatto sociale, ad esempio la stretta di mano, la palpazione dell’area dove sono localizzati i sintomi e i vari livelli del controllo clinico. Il tatto indica la continuità del rapporto tra due persone perché permette di continuare a comunicare anche quando la parola non può più essere usata.

Pazienza: la morte è assolutamente imprevedibile, possono passare

settimane, giorni o ore e poi all’improvviso non c’è più niente da fare. La pazienza, inteso come paziente chi aspetta senza curarsi del tempo che passa, diventa fondamentale proprio perché chi presta assistenza trova difficile valutare la tempestività delle visite e la loro intensità, a questo punto il medico può aiutare la famiglia a esplorare la profondità del rapporto piuttosto che la durata del tempo.

6.1.2 L’oncologo

La figura del Medico- Uomo è difficile, ma ancora più difficile è quella dell’Oncologo-Uomo. Ma chi è l’oncologo?

“E’ un medico che ha in cura persone affette da malattia tumorale, è un

medico che nel 70% dei casi conosce l’ineluttabilità della malattia mortale, è un medico che ha il dovere di offrire il massimo beneficio possibilmente con il minimo danno, ed infine, senza retorica, è una persona che deve spesso vivere insieme alla morte, ma senza guardarla.”49

Si studia la cellula cancerosa, la mitosi, le fasi del ciclo cellulare e allo stesso tempo si studiano i farmaci e i veleni che la possono uccidere in una sorta di ricerca alla morte al fine di sconfiggere la morte stessa. Ma l’uomo, la cui cellula cancerosa viene tanto studiata, chi è? Il paziente.

49

“Di fronte all’esperienza di morte: il paziente e i suoi terapeuti”, G. Invernizzi – G. Morasso a cura di, Milano, Masson S.p.A., 1989, pag. 156.

La letteratura oncologica dedica moltissime pagine alla demarcazione tra oncologo e paziente e in questa professione i meccanismi inconsci di difesa vengono attivati praticamente sempre e tutti assieme.

La malattia trasforma il paziente da soggetto attivo a oggetto di attenzione, lo stesso spazio di interesse si riduce alle dimensioni dell’organismo e poi sempre di più fino alla zona malata.

Bisogna però fare delle precisazioni, indipendentemente dalle possibilità di guarigione, il paziente deve avere accanto un medico che lo informa della diagnosi, della necessità di un intervento terapeutico, a volte pesantissimo, e che lo aiuti psicologicamente e farmacologicamente a percorrere il tunnel di sofferenza che lo aspetta. Un medico da ringraziare se riuscirà a salvarsi, e un medico a cui appoggiarsi nella discesa se non sarà riuscito ad uscire dal tunnel.

C’è il paziente che non ha possibilità di guarigione, ma la cui malattia può rimanere ferma grazie all’aiuto dei farmaci, in questo caso avere al proprio fianco un medico che riesca ad infondergli fiducia avrà dei benefici importanti.

Infine c’è il paziente che non ha possibilità né di guarigione né di ottenere vantaggio dalle terapie, e in questo caso l’oncologo può adottare due comportamenti.

Il primo è una sorta di attesa degli eventi, cioè una quasi totale menzogna, in accordo con i familiari, con un atteggiamento terapeutico blandamente attivo.

Il secondo, meno frequente, è quello di scaricare addosso al malato tutta la verità.

In alcuni casi può succedere che il primo a non rassegnarsi sia l’oncologo, e che quindi continui a combattere fino alla fine mantenendo segrete al paziente le sue reali condizioni, in questo caso succede ciò per la difficoltà che ha il medico stesso di accettare la morte, e la propria sconfitta.

Quello che possiamo chiedere all’oncologo è di essere un ottimo professionista e di avere un tocco di umanità in più, senza però caricarlo eccessivamente di aspettative, perché ogni medico, in fondo, ha il suo personale rapporto con la morte.

Sul rapporto tra l’oncologo e il paziente, Umberto Veronesi, medico italiano di fama mondiale, risponde così alla domanda di Sergio Zavoli:

“Molti di coloro che l’hanno conosciuta, mi riferisco in particolare ai suoi

pazienti, la ricordano come persona molto umana. Lei sa, ovviamente, che l’empatia con il paziente, costituisce una rarità. E’ una dote naturale o una tecnica?”

“Prendersi cura delle sofferenze fisiche e psichiche del malato nella fase più delicata della sua malattia, quando la “medicina che guarisce” dichiara la sua impotenza, è un momento carico di significati. Momento drammatico per l’uomo che si sente indifeso di fronte al dolore e abbandonato da quella scienza in cui aveva confidato e a cui si era affidato. Momento di alto impegno morale per il medico che ha il compito, in scienza, di lenire il dolore e, in coscienza, di rendere umani e dignitosi gli ultimi passi del suo assistito. Momento spesso di profonda solitudine, che si consuma, per molti, in mezzo alla disattenzione della società e lo scetticismo della scienza.”50

6.1.3 L’infermiere

L’infermiere, nel suo ruolo di curante, dovrà affrontare dei problemi simili e allo stesso tempo diversi rispetto a quelli che dovrà affrontare il medico. Il contatto con il paziente è più diretto e più continuo e la sua presenza, più costante di quella del medico, fa si che i pazienti spesso lo usino come “tramite” per le comunicazioni con il medico. Anche i familiari coinvolgeranno l’infermiere in maniera diversa rispetto al medico, è proprio da lui che spesso cercano rassicurazioni e spiegazioni ai sintomi che il malato manifesta, proprio perché l’infermiere è più presente del medico è più semplice chiedere a lui.

Nella sua vita lavorativa l’infermiere, del reparto di oncologia ma non solo, ha due ordini di fattori di stress: i fattori generali, quindi il carico di lavoro, la difficoltà relazionale con i colleghi e con gli altri membri del’equipe; e una serie di fattori specifici propri del lavoro nel reparto di oncologia,

50

quindi l’enorme carico emotivo dato dal rapporto con i morenti, il confronto con le sofferenze del paziente e le frustrazioni per il proprio ruolo di curante, soprattutto quando la cura non c’è.

I fattori specifici possono causare sentimenti di impotenza e frustrazione che possono portare all’incapacità di tollerare ulteriormente il proprio lavoro, oltre a sentimenti di ansia e sfiducia nelle proprie capacità professionali. Come dicevo prima, l’infermiere è in continuo contatto con il malato, ma questo non vuol dire che abbia un confronto meno angoscioso con la morte, anzi, molto spesso queste situazioni di disagio spingono gli infermieri a chiedere più formazione in modo da poter gestire la propria sofferenza. Una cosa importante da capire, e che certamente può aiutare, è la nuova consapevolezza che se non si può più curare si può alleviare la sofferenza del malato, in questo modo la crisi legata alla propria figura di curante può in buona parte rientrare, avvicinando l’infermiere al malato.

Ma anche in questo ci sono delle difficoltà, prima fra tutte è riconoscere che il paziente è morente, perché in questo modo si deve riconoscere la propria impotenza, c’è poi la difficoltà ad ascoltare il malato parlare della propria morte e questo è estremamente angosciante perché rende evidente il proprio stato di esseri mortali, infine, c’è l’elaborazione del lutto nel momento in cui un malato che si è accompagnato muore.

Come uscirne?

Una risposta valida potrebbero essere i gruppi di discussione dove poter esprimere le proprie difficoltà nel relazionarsi con i morenti, in questo modo il gruppo potrebbe fare da cuscinetto e aiutare il singolo nell’elaborare le difficoltà incontrare.

L’obiettivo è quello di conferire uno status alla relazione curante-curato, e questo vale non solo per gli infermieri ma per tutte le figure professionali coinvolte, investendo nella formazione per arrivare a un tipo particolare di cure: le cure delle relazioni.

Come dimostra una ricerca di Isabel Menzies, il sistema ospedaliero difende l’operatore da un approccio troppo personalizzato e dalle ansie che può suscitare il fallimento della terapia.

Proprio perché gli operatori possono vivere con ansia la loro situazione lavorativa, la Menzies ha evidenziato l’esistenza di alcuni aspetti che bloccano l’insorgere di situazioni ansiose per gli operatori.

Il primo è la “scissione del rapporto infermiere-paziente” con una suddivisione di mansioni molto parcellizzata in modo che nessun infermiere abbia in carico un malato, ma a rotazione ogni infermiere veda ogni malato, ma per breve tempo.

Il secondo aspetto che allontana le ansie è la spersonalizzazione, la categorizzazione e la negazione della persona che si cura, a questo proposito un esempio è il non chiamare il malato per nome, oppure non fare differenze tra malati che vuol dire non ascoltare le specifiche esigenze di ognuno. Un ultimo aspetto è la tendenza degli operatori a rimandare le decisioni ai propri superiori facendo in modo che le decisione vengano ridistribuite tra tutti, in modo che non siano appannaggio del singolo.

“La professione si fonda sul valore, sulla dignità e sulla unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e

delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sulla affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali.”

Titolo II PRINCIPI, Art. n.5, Codice Deontologico Assistenti Sociali 2013

6.2 L’assistente sociale