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IL DOLORE E LA MORTE IN OCCIDENTE

2.2 La morte in Occidente nel passato

2.2.2 L’Età Moderna

Tra il XVI e il XVIII secolo, l’approccio con la morte cambia nuovamente. Se durante il Medioevo la morte era familiare, conosciuta e addomesticata, adesso diventa una rottura.

Un grande cambiamento riguarda il rapporto tra il morente e la sua famiglia, e per poter esprimere al meglio i propri sentimenti e i propri voleri si inizia a fare largo uso del testamento che diventa un modo per affermare i propri desideri sulle questioni pratiche come l’eredità.

Dal XVIII secolo scompaiono dai testamenti le clausole pie, le richieste di messe e servizi religiosi e le preghiere e diventano quello che sono ancora oggi, un atto legale per distribuire il patrimonio, a questo punto il testamento viene completamente laicizzato.

Come dicevo all’inizio, la morte diventa una rottura e i sopravvissuti accettano con più difficoltà la morte, ma la morte temuta non è tanto la propria ma è, come dice Philippe Airès, “la morte dell’altro”.

In questo cambio di prospettiva c’è un cambiamento oggettivo che riguarda la sepoltura, non è più tollerabile la sepoltura nelle piccole chiese ormai colme, e non è più tollerabile la scarsa solennità con cui i morti venivano sepolti. I parenti vogliono recarsi nel luogo dove è sepolto il proprio caro, un luogo fisico ben preciso in cui recarsi, come una specie di nuova dimora del congiunto, nascono così i cimiteri come li intendiamo oggi, situati in spazi adibiti solo allo scopo.

“Non ho paura della morte, ma di morire.” I. Montanelli

2.3 La morte in Occidente oggi

Nel corso dei secoli l’atteggiamento verso la morte cambia ma lo fa in maniera graduale, ma è soprattutto nell’ultimo secolo che si manifesta lo strappo più evidente.

Al giorno d’oggi la morte diventa oggetto di vergogna e di divieto, è un divieto spesso implicito quello di parlare al malato della sua reale condizione di salute e della sua prossima morte, ed è quasi un divieto parlare della morte di una persona cara perché crea imbarazzo e ansia negli ascoltatori, incapaci di relazionarsi con il fine vita.

La verità stessa diventa il primo problema.

All’inizio è un problema dire al morente la verità per non appesantirlo, per non far gravare sulle sue spalle questa verità tanto scomoda, ma ben presto si rivela per quello che realmente è: evitare alla società il peso della morte. Si vuole evitare alla famiglia, agli amici, alla società il peso di una morte, di una sofferenza disumana che lacera la tranquilla vita familiare e che sconvolge l’andamento di una vita felice.

Perché così si crede che la vita debba essere, sempre felice, o almeno sembrarlo.

Nel Medioevo c’era quello cha abbiamo chiamato il presentimento, il morente sapeva di essere alla fine e il fatto stesso di saperlo era di consolazione, perché gli dava la possibilità di vivere la propria morte, di presiedere le celebrazioni ma ora non è più così, il morente viene privato della propria morte.

Nel Medioevo, se la persona non si accorgeva della sua condizione, era compito del medico informarlo, compito che il medico ha svolto con semplicità fino al XVIII secolo.

Dal XIX secolo il medico parla solo se interrogato e con molte riserve, il compito spetta alla famiglia che decide come agire, quello che il morente doveva conoscere viene nascosto e quello che era solenne annunciato viene accuratamente evitato.

Ora, il compito primario del medico e della famiglia è dissimulare, nascondere, celare, perché il malato non deve conoscere la propria condizione: deve morire ignorando la morte.

Nei secoli il ruolo della famiglia è mutato profondamente, ed è la famiglia stessa che non tollera più la presenza della morte, una presenza ingombrante.

Nel Medioevo la morte apparteneva solo al morente nella stessa misura in cui gli apparteneva la vita, ma il radicarsi e l’evolversi del sentimento familiare ha portato la famiglia a condividere la morte. Il malato quindi diventa come un bambino, preso in carico dalla famiglia e separato dal mondo, accudito dai familiari che sanno meglio di lui cosa fare.

Un altro importante fattore di cambiamento è sicuramente il progresso compiuto dalla medicina, o meglio, non tanto i progressi ma la sostituzione che c’è tra morte e malattia, solo nel caso di malattia incurabile, la morte traspare.

I riti legati alla morte non sono cambiati, ma è cambiato il loro significato più profondo, svuotati a poco a poco della loro carica drammatica.

La causa concreta di questo cambiamento nei confronti della morte è lo spostamento del luogo in cui si muore, non si muore più a casa ma quasi sempre nella stanza asettica di un ospedale.

Ed è a questo punto che vediamo la prima vera rivoluzione del cambiamento nel morire, in una stanza di ospedale è impossibile presiedere la propria cerimonia di addio, circondati da amici e parenti come accadeva nel Medioevo.

Il morente viene privato della propria morte e dei riti che l’hanno sempre accompagnata.

L’iniziativa passa dalla famiglia all’equipe medica che molto spesso si aspetta dal paziente e dai suoi cari una morte accettabile, cioè una morte che può essere accettata o tollerata dei superstiti.

Il contrario è quello che Ariès definisce “embarassingly graceless dying”, cioè quello che mette in imbarazzo i superstiti perché scatena una commozione troppo forte, e l’emozione è la prima cosa da evitare sia in un ospedale che altrove. Ci si può commuovere solo in privato, che vuol dire di nascosto perché un dolore troppo visibile non ispira pietà, ma repulsione.

Si evita di avvertire il malato della sua situazione anche per non mettere in difficoltà medici e infermieri che si troverebbero coinvolti da delle reazioni emotive difficili da placare e che minerebbero la tranquillità del reparto ospedaliero.

Ma in fin dei conti, l’importante non è se il malato lo sa o no, ma che se lo sa faccia finta di non saperlo, cioè non metta gli altri nella condizione di doverne parlare e di dover elaborare una morte imminente.

Anche i riti funebri sono cambiati, rispetto ad una volta è sempre più diffusa la cremazione e spesso viene usata proprio per far scomparire e dimenticare quello che resta del corpo.

Questi fenomeni sono il frutto di un divieto, quello che una volta era obbligatorio, adesso è proibito.

Questa è “la morte proibita”.

C’è la proibizione per il malato di parlare della sua condizione e poi c’è la proibizione per i superstiti di apparire commossi per la morte.

La società moderna impedisce di piangere i morti, di aver l’aria di rimpiangerli.

E’ sconveniente parlare della malattia, prima, e della morte, poi, di una persona cara. Molto spesso, specie durante una malattia, i familiari sono quelli che hanno più bisogno di sfogarsi con amici e parenti, di liberarsi dalla paura che una malattia porta, ma poche sono le persone disposte ad ascoltare con umana accoglienza queste storie, i più cercano di defilarsi, in imbarazzo, quasi sconvolti da un argomento tanto sconveniente.

Ma forse non a tutti è chiara la vera disperazione che porta la notizia di una malattia: le decisioni da prendere, l’assistenza, la speranza che giorno dopo giorno si affievolisce, la paura che domani sia sempre peggio e la certezza che il domani sarà peggiore, e la cruda realtà che fa presagire un lutto imminente.

Questo è quello che si trovano a vivere ogni giorno milioni di famiglie con malati terminali. E se la malattia fa paura, figuriamoci la morte.

Eppure il lutto è ancora al giorno d’oggi il dolore per eccellenza, ma oramai è diventato un tabù.

Gorer sostiene come nel XX secolo la morte sia diventata il tabù per eccellenza, sostituendo il sesso, una volta ai bambini si raccontava che

nascevano sotto un cavolo ma spesso assistevano alla morte, ora invece i bambini sanno moltissimo sul sesso ma se muore il nonno le scuse per la sua assenza sono le più varie: dalla partenza per un viaggio lontano al riposo in un bel giardino.

Come dice Philippe Airès “Non sono più i bambini a nascere sotto i cavoli

ma i morti a scomparire tra i fiori”.12

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