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Che Vico abbia avvertito l’esigenza di una vera e concreta fondazione del sapere, lontana da qualsiasi forma di astrazione, è ipotesi che si è ricavata sulla base di molteplici testimonianze. Si è, poi, avuto modo di considerare l’impegno del Nostro nella ricerca di una concretezza che finanche la ‘scrittura’ sembra aver perduto, condannata com’è, sotto il dominio del metodo cartesiano, a uno stato di sospensione (epoché) incapace di garantire ai libri la capacità di incidere e cambiare le sorti della comunità umana. Vico affronta tali questioni in un arco esteso della propria esistenza, con lo spirito di chi cerca di dare senso compiuto alle proprie meditazioni e comprendere lo stato di decadenza della cultura napoletana ed europea. Tuttavia, non appena la disamina di questi temi si fa più circostanziata e la lettura analitica dei testi prende il posto delle ricostruzioni storiche, ecco che si giunge a una conferma alquanto specifica delle valutazioni svolte in sede contestuale.

Nel De ratione Vico si è seriamente impegnato nel dare alla ‘scrittura’ una definizione teorica che fosse all’altezza delle preoccupazioni concernenti la ratio studiorum. Una tale presenza testuale, rivelatrice addirittura di un aspetto inedito della rivalutazione della retorica messa a punto da Perelman, non può non sollevare ulteriore quesiti e dubbi, che è ora il caso di provare a sciogliere.

Che cosa distingue, anzitutto, la definizione della scrittura nel De ratione dalla più tarda idea

apparente che effettiva. E lo si può osservare bene proprio in questo frangente: mentre infatti per il filosofo belga-polacco l’alternativa al metodo analitico passa attraverso la composizione di stabili strutture, alle quali ‘deve’ essere indifferente la forma espressiva; al contrario per Vico la retorica, concepita come risposta ai difetti della Critica, si costituisce proprio in rapporto alle variabili della ‘vocalità’ e della ‘scrittura’. Tale ipotesi che qui propongo non manca anche di basi filologiche, perché nel periodo giovanile l’attenzione verso le variabili di ‘oratoria’ e ‘scrittura’ soggiace anche al ripensamento dell’idea di scrittura e delle discipline a carattere vocale (acroamatiche), che Vico aveva per prima esposto nelle Orazioni inaugurali. Nel panorama italiano obiezioni pressoché complessive alla teoria di Pereleman sono state avanzate da E. Melandri, La linea

e il circolo. Studio logico-filosofico dell’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, p. 319 e p. 423. In questa ampia e profonda riflessione,

che implica anche una rilettura della Retorica di Aristotele, rimane fermo un punto particolarmente importante per quanto qui si sta dicendo. Melandri, infatti, sostiene che l’errore di fondo della teoria di Perelman sta nel voler concepire una comparazione tra retorica e logica. La distinzione tra questi due ambiti è “inintellegibile”, perché a rigor di termini non esistono argomenti che non siano logici. Su questa base, credo si possa dire che anche l’indifferenza nei riguardi della forma espressiva della scrittura dipende da questo errore di fondo: dall’idea, cioè, che la retorica abbia delle strutture invariate che la separano dalla semplice teoria letteraria e la pongono sullo stesso piano della logica.

della scrittura come soggetta a epoché? Se si considera, in prima istanza, la funzione che Vico ha attribuito a questa attività, si può notare in modo evidente una differenza sostanziale. La definizione vichiana di “epoca della scrittura” non è compatibile con il quadro teorico del 1709, perché nel De ratione la scrittura non viene affatto considerata in relazione agli effetti deleteri del metodo cartesiano. Il pericolo che essa sia soggetta all’astrazione dell’analisi, quella che nella Vita Vico indica come causa della “sostentazione del giudizio”, non rientra nel quadro della discussione sulla ratio269. Semmai nel 1709, posta in relazione all’oratoria, la scrittura si presenta come la capacità di costituire connessioni per il tramite dei propri elementi, come un’attività che è parte costitutiva del tentativo di fondare la posizione del sapere topico e rimediare agli svantaggi della Critica.

A questo punto, non sarebbe improprio dire che il discrimine tra le due definizioni di scrittura sta nel fatto che l’una mantiene un solido legame con l’astrazione del sapere cartesiano, l’altra, invece, rompe questo nesso e, in connessione con il significato topico dell’oratoria, abbraccia l’idea di una concretezza del tutto avversa all’esercizio del metodo critico.

Ma che cosa si deve intendere per ‘concretezza’ del sapere? E in ragione di cosa nel De ratione l’attività di scrittura si lega indissolubilmente a questa prospettiva? Tali domande sollevano quesiti che attendono adeguato riscontro testuale, anche se la loro importanza concerne, più in generale, l’effettiva differenza tra le due definizioni di scrittura cui sopra ho accennato. Qualora, infatti, non sia possibile individuare il significato preciso della ‘concretezza’ connessa alla scrittura, ciò condurrebbe all’idea che nel De ratione tale attività rimanga comunque soggetta allo stato di sospensione del giudizio. In tal modo, con la definizione della scrittura intesa come capacità di “percorrere gli elementi di scrittura”, sarebbe compromessa l’idea che è alla base di questa ricostruzione testuale dell’opera del 1709, ovvero l’ipotesi che tale attività sia di essenziale per la fondazione effettiva del sapere topico270.

Con la consapevolezza di questo problema teorico, credo si utile iniziare la disamina testuale analizzando il caso della scienza medica, esposto nel Capitolo VI del De ratione. Il

269 Più che in questa direzione, la preoccupazione di Vico nel De ratione viene perlopiù rivolta al corretto utilizzo della

scrittura. Da questo assunto, esplicitamente messo a punto nel Capitolo XIII, si evince sia la necessità di educare i giovani, sia l’idea che l’attività di scrittura sia connessa a benefici (scripturae beneficio): G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 202: «Etenim in omni doctrinae genere principes ad nos optimique, scripturae beneficio, pervenerunt, et si unus et irem alter exciderit, id fortunae imputandum. At mea quidem memoria, necdum etiam senex haec scribo, scriptores vivos hac frui laude vidi, ut eorum opera duodecim, et fortasse plus eo typis mandat sint, nunc vero non tantum contemni, sed sperni quoque; alios diu incultos et desolatos, tandem, aliqua ex obliquo occasione data, nunc a doctissimo quoque celebrari».

129 ragionamento che Vico conduce a proposito del modo in cui vengono concepiti i sintomi e le cause è di grande interesse proprio perché connesso all’idea di un’elaborazione del sapere concreto. Il fatto che, poi, questo risultato sia connesso all’esercizio pratico di una disciplina di studio non fa che dimostrare ulteriormente l’importanza delle materiae studiorum nel disegno programmatico dell’orazione vichiana.

La struttura del Capitolo VI segue lo stesso schema che si è visto articolare nel Capitolo III, dove la discussione sulla ratio inizia dai difetti della Critica e procede con l’esposizione delle Topica e dell’oratoria. In continuità con questo procedimento, Vico inizia col descrivere gli inconvenienti (incommoda) provocati dal metodo moderno. Essi consistono – scrive – nel concentrare le diagnosi sulle sole cause dei morbi (morborum caussas), a dispetto della particolarità dei sintomi (signa) che vengono, invece, trascurati271. Sulla base di questa premessa, inizia ad articolarsi la critica alla ricerca del “primo vero”, con la quale i ‘moderni’ sono persuasi di poter contenere la molteplicità e verosimiglianza dei sintomi nell’unicità della causa272:

Atque indidem, cum in quoque, ut ita dicam, genere (nam verum genus species omnes complectitur) morbi sint infiniti, una forma omnes finiri non possunt. Cumque haec ita sint, uti syllogismo, cuius amplior pars genere constat, et hae res vero genere non continentur; ita et sorite nihil quicquam veri de iisdem rebus conficere possumus. Quare tutius consilium, ut particularia consectemur; et sorite non supra eius in hac re meritum utamur quidem, se potissimum insistamus inductione273.

Si nota qui a chiare lettere come per Vico l’incompatibilità tra l’infinità dei morbi (morbi

infiniti sunt) e l’unica forma (una forma) – con cui il metodo critico cerca di contenere tutta la

molteplicità dei sintomi nell’unicità della causa – sia spiegata in relazione all’idea di vero. Essa consiste, infatti, nella capacità di conciliare il genere con la molteplicità delle specie (nam

verum genus species omnes complectitur). Non è possibile, dunque, ridurre l’infinità dei morbi alla una forma del metodo moderno, perché in tal modo non si realizzerebbe la condizione di

verità che appartiene all’esercizio della scienza medica. Non si riuscirebbe, cioè, a stabilire una relazione del genus che sia in grado di adattarsi alla molteplicità delle species.

L’attenzione verso i particularia e l’osservazione dei casi specifici rende più plausibile

271 Così, recita l’incipit del VI Capitolo: G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 126: «In re autem medica illa subsunt incommoda;

quod, cum morborum caussas non satis certo scire putemus parum attendamus signa, facessamus ferme iudicia: quibus rebus, cum antiqui nostris praecellerent, eorum via et ratio medendi erat procul certior».

272 Ivi, p. 128: «Hodie ab uno aliquo explorato vero nostras de physicis argumenti dissertationes deducimus: signa vero et

iudicia verisimilia sunt, quae longa observatione colliguntur» [il corsivo è di chi scrive]. Si osserva qui l’esplicita associazione vichiana tra i signa e il loro carattere di verosimiglianza.

l’adozione dell’induzione rispetto all’andamento sillogistico della scienza medica. In questa direzione, il sorite e la sua ascendenza alla Critica viene distinto dalla inductione. E questa operazione segna un motivo di interesse per quel che riguarda il senso di ‘concretezza’ che mi pare emergere in questo frangente del passo vichiano.

Se, però, si tiene presente che l’attenzione di Vico alla molteplicità dei sintomi rimane sempre rivolta al tentativo di stabilire una verità che è relazione delle species con il genus, risulterà difficile intendere il richiamo all’induzione e alla ‘concretezza’ soltanto come una forma di empirismo dominante274. Il punto di vista del sapere vero e della costruzione di un ordine per l’infinità dei sintomi rimane una costante nel ragionamento di Vico, anche quando tale insistenza lo conduce a evidenziare dei continui mutamenti, come nel caso di quel movimento temporale nel quale l’io del presente non è mai quello di un istante prima275. Da questa breve disamina si ricava, dunque, l’idea che l’alternativa alla Critica rappresentata dall’esercizio pratico delle discipline di studio non è mai una rinuncia a mantenere una relazione con un sapere vero. Vico stabilisce che una tale fondazione, non potendo essere quella della una forma –ovvero la causa che cerca di ricondurre a sé la molteplicità dei sintomi – deve consistere nel rapporto tra il carattere specifico dei sintomi e quello generale a cui il singolo caso appartiene.

Nei versi conclusivi del Capitolo, tale idea diventa oggetto di vera e propria esortazione. Vico usa addirittura il pluralia maiestatis per dare risalto allo studio dei sintomi, lasciando ai moderni quello delle cause: «caussas cum recentionibus, quia explicatores sunt, explicemus; magni tamen signa et iudicia faciamus; et Conservatricem antiquoorum sub qua Exercitatricem et Dietariam comprehendo, aeque ac nostram Curatricem, excolamus»276.

Un vero e proprio momento di comunicazione retorica, di cui però non deve passare inosservato l’obiettivo generale. Nella costruzione di un accurato messaggio ‘conativo’277 rimane inalterato lo scopo di indicare una prospettiva concreta del sapere. Il rapporto tra i sintomi (signa) e le cause (caussae) nella scienza medica ripropone la stessa dinamica concettuale che si è visto compiersi sia nella critica al metodo analitico, sia nel caso

274 E ciò sia detto per mettere in evidenza un parziale dissenso verso quanto sostenuto da Battistini nella nota relativa al

passo: G.B. Vico, De nostri, op. cit., 128 n. 4 (p. 1340): «tutta la seconda parte di questo capitolo sulla medicina segue da vicino le tesi empiristiche di Bacone. Naturale quindi che si concluda con un appello a favore del metodo induttivo». Senza dubbio vera l’ascendenza baconiana, ma altrettanto innegabile, mi pare, la dipendenza dell’induzione dall’esigenza di ristabilire un nesso tra genus e species che non sia riducibile alla una forma del metodo analitico.

275 Ibidem: «Atqui morbi semper novi sunt et alii, ut semper alii sunt aegrotantes. Neque enim ego idem nunc sum, qui modo

fui, dum aegrotantes proloquerer: innumera namque temporis momenta iam aetatis meae praeterierunt, et innumeri motus, quibus ad summum diem impellor, iam facti sunt».

276 Ibidem.

131 dell’oratoria. Inoltre, l’insistenza del metodo moderno sulla una forma replica infatti quella logica di inerenza che regola l’appartenenza die molteplici contenuti all’unicità della regola di verità.

L’alternativa a tale impostazione e il tentativo di stabilire una connessione delle species con il

genus rimanda, invece, alla capacità dell’oratoria di creare una connessione generale a partire

dai propri elementi interni e specifici.

Per concretezza del sapere s’intende, dunque, l’idea di costruire una connessione che si costituisca intorno alle species particolari. L’affinità della scrittura con questa ricerca vichiana del concreto è un ulteriore passo in avanti per comprendere il ruolo che tale attività viene ad assumere nel De ratione. Si inizia a intendere, infatti, una convergenza teorica forte tra la definizione di ‘scrittura’ e il rapporto tra genus e species. Con il riferimento agli elementa scribendi, ovvero ai contenuti che sono costitutivi della scrittura, si accoglie l’idea che essi possano rivendicare quella molteplicità e irriducibilità delle species. Con il riferimento al percurrere, che è a questi primi elementi interni relativo, si può, invece, intendere la relazione delle species con l’unicità del genus, ovvero una caratteristica generale di ordine, che non è per nulla riducibile all’idea di ordine predisposta dal metodo analitico.

E questa vera e propria convergenza strutturale, cercherò adesso di mostrare, è tanto più importante per il fatto di rivelare anche il modo in cui nasce e cambia l’idea di scrittura nell’arco del pensiero giovanile vichiano.

4.4 Oratoria e scrittura nel periodo giovanile vichiano. Storia del lessico