I capitoli iniziali del De ratione registrano in maniera inequivocabile come il primo, più evidente, cambiamento teorico riguardi un diverso modo di affrontare il problema della natura umana e il suo rapporto con il sapere: «Itaque talis in re literaria Verulamius egit, quales in rebus publicis maximorum potentes imperiorum, qui, summam in humanum genus potentiam adepti, ingentes suas opes in ipsam rerum naturam vexare, et sternere saxis maria, velificare montes, aliaque per naturam vetita irrito tamen conati sunt. Enimvero omne, quod homini scire datur, ut et ipse homo, finitum et imperfectum»171. Il noto riferimento critico a Francesco Bacone che apre l’orazione si basa su una decisiva rivendicazione dell’incertezza e dell’imperfezione della natura umana. Da essere considerata come oggetto di purificazione della mente in vista del conseguimento della sapienza, la condizione umana diventa adesso il punto di partenza dell’indagine sull’ordine del sapere. Vico afferma in modo perentorio questo nuovo orientamento: affrontare la questione del metodo senza avvedersi dei limiti
169 I brani di riferimento sono quelli contenuti nel Capitolo V dell’opera: G.B. Vico, De nostri, op. cit., pp. 120-125. Il nesso
tra geometria e scrittura occupa un ruolo centrale nella trattazione vichiana anche perché finiscono con l’includere la prima elaborazione del principio verum-factum: ivi, pp. 116-119. Data l’attinenza di questi temi con il Liber Metaphysicus del 17010, ho ritenuto opportuno rimandare tale discussione alla terza parte di questo lavoro, lasciando questa seconda alla disamina analitica del solo nesso tra oratoria e scrittura.
170 Sono queste le parole che Vico adopera nella Vita per spiegare l’importanza del De ratione nel complesso degli scritti
giovanili. Il passo è contenuto in G.B. Vico, Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, in Id., Opere, op. cit., p. 36. Mi propongo di effettuare un commento analitico del passo nel paragrafo che segue.
81 della natura umana, significherebbe agire come quei sovrani che, inutilmente, fanno violenza sulla natura, cercando di coprire il mare di sassi o i monti di vele (in ipsam rerum naturam
vexare, et sternere saxis maria, velificare montes). Il ribaltamento teorico rispetto alle tesi avanzate
nelle Orazioni inaugurali non potrebbe essere quindi più chiaro: se è l’imperfezione a costituire il dato imprescindibile di tutto ciò che all’uomo è dato conoscere, allora non può più esserci il percorso trionfale del sapere divino che include ogni aspetto della vita dell’uomo.
E come le centralità assegnata al dato naturale rivela l’impotenza di coloro che cercano di arginarla con i più disparati mezzi, così la via che conduce al conseguimento del sapere perde le sembianze di un percorso trionfale. La stessa metafora degli uomini che guidano la nave negli oceani e seguono la rotta divina tracciata dagli astri celesti scompare dalla scena. Il primato attribuito all’imperfezione umana implica l’impossibilità di compiere il cammino
inoffenso cursu e neanche il ricorso ai metodi scientifici è in grado di arginare la condizione
incerta della natura umana172. Neanche gli strumenti dell’analisi cartesiana, scrive a riguardo Vico qualche pagina, riescono a spiegare il carattere oscuro, tenebricioso, del cammino della natura173.
Come si articola, dunque, la via al conseguimento del sapere una volta che viene meno la predestinazione divina dell’uomo verso il sapere? Ed è poi, in fondo, soltanto alla luce di quest’aspetto che va letta la novità del De nostri temporis studiorum ratione? La questione è intricata anche perché, in linea di ipotesi, il cambio di prospettiva a cui si assiste nel passo vichiano lascia intendere l’emergere di un nuovo orientamento, con il quale ridefinire tutto l’insieme degli argomenti che hanno caratterizzato l’impegno vichiano nelle precedenti orazioni. Sulla base degli elementi raccolti nel precedente Capitolo, si intende che sono due le linee di ricerca coinvolte nel ripensamento concettuale vichiano: da un lato, la concezione del sapere in rapporto all’interiorità della mente umana; dall’altro, il corretto esercizio delle facoltà naturali e degli strumenti pratici utili alla vita dell’uomo.
Entrambi gli aspetti sono parte costituente della questione che, in linea preliminare, conviene trattare cercando, anzitutto, di comprendere che cosa mai abbia potuto motivare l’urgenza con cui Vico consegna alle stampe il De nostri temporis studiorum ratione nella primavera del 1709, appena un anno dopo la lettura orale della prolusione174. Facendo, dunque, un passo indietro rispetto alla problematica teorica connessa a quest’ultima fase del periodo giovanile
172 La metafora a cui faccio qui riferimento viene utilizzata da Vico nella VI Orazione per descrivere il ruolo della divinità
come guida per il conseguimento del sapere. L’esempio si trova in G.B. Vico, Le orazioni, op. cit., p. 206: «in quo doctrinarum ordine navium gubernatores imitari debemus, et quemadmodum ii coelestia observant, cynosuram aliaque astra quo certa per oceanum itinera teneant, et ad quos portus contendunt inoffenso cursu naves appellent».
173 G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 98.
vichiano, è opportuno rivolgere l’attenzione alle testimonianze del Nostro, che meglio consentono di catturare i momenti decisivi di quel breve lasso di tempo, in cui matura una delle opere che più hanno reso ‘grande’ il filosofo napoletano. A giudicare dalle dichiarazioni contenute nella Vita, Vico ha avvertito con grande coinvolgimento interiore l’urgenza di una ridefinizione della questione del sapere175, che lo ha di pari passo condotto al distacco rispetto alle precedenti idee ormai considerate inefficaci. Il sospetto, peraltro, appare fondato se si considera come, da questo pensiero, emerga l’idea, almeno a detta del Nostro, del De
ratione quale risultato di una vera e propria maturazione intellettuale:
Fin dal tempo della prima orazione che si è rapportata, e per quella e per tutte l’altre seguenti, e più di tutte per quest’ultima, apertamente si vede che ‘l Vico agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell’animo, che in un principio unisse egli tutto il sapere umano e divino; ma tutti questi da lui trattati n’eran troppo lontani. Ond’egli godé non aver dato alla luce queste orazioni, perché stimo non doversi gravare di più libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non regge, e solamente dovervi portare in mezzo libri d’importanti discoverte e di utilissimi ritrovati. Ma nell’anno 1708, avendo la regia università determinato di fare un’apertura di studi pubblica solenne e dedicarla al re con un’orazione da dirsi alla presenza del cardinal Grimani vicerè di Napoli, e che perciò si doveva dare alle stampe, venne felicemente fatto al Vico di meditare un argomento che portasse alcuna nuova scoperta ed utile al mondo delle lettere, che sarebbe stato un desiderio degno da essere noverato tra gli altri del Bacone nel suo Nuovo organo delle scienze176.
Ritornando, dopo anni distanza, sulle vicende del periodo giovanile, Vico giudica il De ratione come un punto di svolta per la riflessione sul sapere, la «nuova scoperta ed utile al mondo delle lettere», perché in grado di incidere laddove le precedenti orazioni hanno fallito. A certificare il discrimine tra il primo gruppo di orazioni e la rinnovata prospettiva offerta del 1709 c’è, inoltre, la consapevolezza che tutti gli argomenti trattati sin dal tempo della prima
175 G.B. Vico, Vita, op. cit., p. 37: «La dissertazione uscì l’istesso anno in dodicesimo dalle stampe di Felice Mosca. Il quale
argomento, in fatti, è un abbozzo dell’opera che poi lavorò: De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice l’altra De
constantia iurisprudentis». Il fatto che Vico ponga in relazione il De ratione con il De uno del 1720 aiuta a comprendere, in modo
ancora più evidente, la percezione di novità che Vico sentiva di aver raggiunto subito dopo la composizione della VI Orazione. Conviene qui ricordare che su questa precisa connessione Benvenuto Donati aveva posto le basi per la sua interpretazione speculativa della filosofia vichiana: B. Donati, Nuovi studi, op. cit., pp. 173-180, in particolare p. 179 dove vengono ripresi i passaggi della Vita qui sopra commentati. Nelle pagine che seguono, cercherò di intendere il rapporto tra le Orazioni inaugurali e il De ratione in una chiave completamente diversa, mostrando quello che la lettura di Donati ha tralasciato, ovvero l’incidenza della riflessione vichiana sul linguaggio.
83 Orazione rimangono “troppo lontani” dall’idea di ricercare un principio che unisca il sapere umano e il sapere divino. Seppur presente in fase germinale, tale pensiero rimane disatteso nelle Orazioni inaugurali che, agli occhi di Vico, risultano una mole inutile di pagine da non pubblicare. Incapaci di indirizzare le menti degli uomini alla collettività, questi scritti rischiano di recare soltanto ulteriore danno alla comunità letteraria.
La ravvicinata disamina di tali parole contribuisce a notare come, perentorio, il giudizio negativo di Vico sulle Orazioni inaugurali ritrovi la riproposizione di un lessico, senz’altro familiare alle strategie retoriche dei suoi primi impegni accademici. In particolare, è proprio la tendenza a vedere nel libro uno strumento in grado di determinare le sorti della società umana ad avvalorare, in modo paradigmatico, la convergenza teorica con il contesto giovanile delle orazioni. L’idea che lo studio letterario possa assolvere una funzione politico- sociale, Vico l’ha per la prima volta introdotta nella III Orazione del 1701, quando si era impegnato a spiegare agli studenti la necessità di costruire una societas literaria e l’importanza delle discipline di studio per il conseguimento del bene comune177. Mettendo a confronto questa terminologia con il giudizio sulle Orazioni inaugurali contenuto nel passo della Vita, si comprende come tale idea, da costituire la spinta per un monito di natura pedagogica, giunga a diventare un motivo strutturale della riflessione vichiana.
A distanza di anni dalla composizione delle opere giovanili, emerge l’esigenza di certificare il fallimento delle prime orazioni. Ma in che consiste il fallimento? Il riferimento alla funzione del libro e alla sua capacità di incidere sulle vicende umane suggeriscono che, nel complesso, le Orazioni inaugurali mancano della capacità di ricongiungere l’opera al mondo della vita politico e sociale. Un fallimento tutt’altro che incidentale, insito nella struttura stessa delle orazioni. Il distacco tra la funzione del libro e le vicende umane indica una scissione profonda tra il sapere e il potere, tra la capacità di formare un sistema di sapere e la spinta effettuale che è in grado di renderlo concreto e operativo per la vita dell’uomo. insignita che è la forma compiuta di queste tensioni presenti nel passo della Vita e nel rimando al periodo giovanile in essa contenuto.
Totalmente coinvolta nei termini di tale problematica, la realizzazione del De ratione viene segnata da un compito supremo rimasto disatteso nelle precedenti prolusioni. Si comprende ancora meglio la ragione dell’urgenza con la quale l’orazione ha visto la luce nel 1709: l’opera “si doveva dare alle stampe”, perché in essa Vico vede concretizzarsi il potere del sapere, la capacità del libro di tenere insieme vita e pensiero, l’universale con la particolarità delle vicende umane.