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In che consiste l’idea che il De ratione costituisca una «nuova scoperta e utile al mondo delle lettere»?

Le coordinate interpretative raccolte dalle due testimonianze vichiane della Vita e della lettera a Edouard De Vitry attendono una conferma sul versante di un’analisi specifica dell’opera del 1709, dove, si è già accennato, Vico è anzitutto alle prese con l’urgenza di ridefinire il rapporto tra il sapere e la natura dell’uomo. In vista, quindi, di una più precisa contestualizzazione del mutamento concettuale che interessa l’opera del 1709 può tornare utile riprendere la dichiarazione vichiana circa l’impegno, che egli definisce al centro dei propri interessi sin dal 1699, nel riunire in un unico principio tutto il sapere umano e divino. All’altezza di questo giudizio, meglio si può comprendere come il dissenso alla base dei ripensamenti concettuali cada precisamente nei riguardi del modo in cui nella VI Orazione del 1707 si trovano organizzati i temi e gli argomenti principali delle Orazioni inaugurali. Se si guarda quell’opera nel complesso, si osserva che l’intreccio tra la concezione divina della sapienza e la corruzione della natura umana indica la compresenza di due diverse e

190 Che la tendenza di Vico ad esprimersi ricorrendo alle forme e ai metodi oratori utilizzati anche nelle Accademia non sia

riducibile a una convenzione, lo si evince anche dagli approfondimenti bibliografici di natura storico-culturale, i quali aiutano a comprendere quanto fosse consistente l’intreccio tra il mondo accademico e le vicende politiche. Per una documentazione di questi rapporti nel contesto della tradizione dei cosiddetti filosofi “Investiganti” si veda S. Suppa,

L’accademia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuova scienza civile, Il Mulino, Napoli 1971, pp. 36-37, dove viene riportato

anche il giudizio di Vico circa la tendenza “regalistica” dell’accademia Palatina. Particolare attenzione agli aspetti politici che sono al centro della “crisi” del De ratione è stata dedicata da M. Donzelli, Natura e humanitas, op. cit., pp. 95-96. Non solo da un punto di vista storico, il significato non convenzionale del metodo retorico in Vico ha anche condotto ad accurate analisi sul suo valore pratico. Si veda a riguardo i risultati conseguiti dal lavoro di A. Battistini, La degnità della retorica. Studi su G.B.

Vico, Pacini editore, Pisa 1975. Il legame di Vico con la pratica retorica è anche testimoniato in modo emblematico

dall’orazione intitolata Le accademie e i rapporti tra filosofia e l’eloquenza, tenuta nel gennaio del 1737 presso l’Accademia degli Oziosi. L’orazione è stata inserita nell’edizione delle opere curata sempre da Battistini: G.B. Vico, Opere, op. cit., pp. 405- 409. Si tratta di un documento importante, perché Vico pone l’attenzione sul significato ‘filosofico’ dell’Accademia intesa come il luogo in cui viene predisposto un vero e proprio ordine del sapere. Anche una disamina più approfondita di questo scritto, credo possa mostrare come l’impegno e i pensieri che Vico dedica all’idea del libro e agli studi letterari non siano affatto convenzionali, ma espressione di un radicato interesse culturale e filosofico.

opposte esigenze: da un lato, la ineludibile condizione di inferiorità dell’uomo rispetto a Dio, ratificata dal dogma cristiano della caduta, impone all’uomo di impegnarsi nell’organizzazione delle discipline letterarie, che sono la via per il raggiungimento del sapere191; dall’altro, la dimensione divina della sapienza prescrive l’obbligo di elevarsi alla purezza di Dio, che finisce per investire qualsiasi ambito di quella che Vico definisce humana

prudentia, ovvero l’insieme delle opinioni e passioni dell’animo umano192.

Le due vie dirette verso il sapere sono incompatibili, perché mentre nella prima Vico sembra rivendicare l’autonomia umana nello studio delle discipline e nell’organizzazione di un ciclo pedagogico delle arti e delle scienze; nella seconda, invece, si assiste all’esigenza opposta di inglobare qualsiasi elemento umano nell’itinerario di purificazione divino. Quest’ultimo aspetto, poi, interviene in modo dirimente nell’economia generale della prolusione: l’istanza divina della sapienza interviene sia nei riguardi della prudentia humana, sia nei riguardi dell’organizzazione delle discipline. Le discipline acroamatiche, in particolare, perdono il loro carattere ‘vocale’, una volta che la loro funzione viene considerata alla stregua della brevitas che contraddistingue i pregi del metodo corretto193.

Al culmine del percorso vichiano delle Orazioni inaugurali si affaccia quindi il problema di stabilire un metodo che possa consentire all’uomo l’accesso al sapere. Nel 1707, però, la via a tale risultato rimane preclusa: il dovere di apprendere tutto il ciclo delle arti e delle scienze – l’absolvendum a cui Vico fa riferimento nel titolo dell’Orazione – rimane tale, perché la preminenza divina che tutto ingloba non consente l’effettiva praticabilità per l’uomo del sapere. Tale nesso, di fatto, rimane impossibile da realizzare: la mente umana, per mettere in pratica le proprie capacità, deve comunque rinunciare a se stessa, lasciandosi guidare dal primato della conoscenza divina.

Non a caso, dunque, Vico potrà scrivere che tutto ciò che egli ha meditato nel primo blocco di orazioni è lontano dall’argomento supremo che agita la sua coscienza. La fondazione di un principio che tenga insieme il sapere umano e divino poggia sulla consapevolezza di dover evitare l’impasse alla quale egli giunge nel 1707. Bisogna sottrarsi alla preminenza del sapere divino e a una concezione riduttiva dello scibile umano, nelle sue espressioni naturali o di

191 Mi riferisco al passaggio in cui Vico scrive che Dio ha punito il peccatum genere umano: G.B. Vico, Le orazioni, op. cit., p.

192.

192 Ivi, p. 206: «Absolutam rerum divinarum scientiam humanarum prudentia sequitur». Dove si osserva il primato che Vico

assegna alla “scienza divina” sulla scienza delle “cose umane”. Per quanto riguarda, invece, la purificazione dell’uomo verso Dio, Vico parla dell’emergere dell’uomo “dal fango della materia” (ex materia luto): ivi, p. 202.

193 A riguardo cfr., ivi, p. 202 e p. 208. Mi riferisco al passo di chiusura della VI Orazione che ho già commentato nel

secondo capitolo, notando come qui Vico operi una netta ‘riduzione’ del carattere ‘vocale’ delle discipline acroamatiche, le quali non sono più definite come in precedenza «a doctoribus audienda sunt», ma semplicemente come «a doctoribus ediscendas».

91 ambito strettamente disciplinare194.

Il fatto stesso che l’incipit del De ratione si caratterizzi per la concezione dell’«homo finitum et

imperfectum» suggerisce l’intenzione di Vico di compiere un passo in avanti rispetto ai risultati

negativi raggiunti nelle opere precedenti. Pensare la mente dell’uomo a partire dalla sua imperfezione e debolezza vuol dire pensare la sua natura indipendentemente dal dominio della divinità, senza che alcuna predestinazione intervenga a segnare la strada che conduce al sapere. Che cosa allora di più adeguato a questo cambio di prospettiva, se non un confronto imparziale tra il sapere degli antichi e quello dei moderni con il quale stabilire un metodo adeguato alla natura dell’uomo?

In verità, quando Vico, sempre nel Capitolo I, introduce l’argomento che è alla base dell’opera, aiuta il lettore a comprendere che il cambiamento rispetto alle Orazioni inaugurali implica una maggiore profondità assegnata al discorso sul metodo. Ed è alla luce di questa prospettiva generale che vanno commentate le seguenti dichiarazioni:

«Et quo rem facilius intelligere totam possitis, illud internoscatis oportet, me non heic scientias scientiis, artesque artibus nostras et antiquorum comparare: sed quid nostra studiorum ratio antiquam vincit, ecquid ab ea vincitur, et quo pacto, ne vincatur, disserere. Quare novae artes scientiaeque et nova inventa a novis sciendi instrumentis adiumentisque, si non separanda, distinguenda sunt tamen: illa namque studiorum materies est; haec via et ratio, proprium nostrae dissertationis argumentum»195.

Più che l’esigenza di adeguare all’imperfezione della natura umana un percorso del sapere ormai privo dell’istanza divina, qui si osserva Vico introdurre un vero e proprio cambiamento concettuale. La ridefinizione della natura umana non conduce semplicemente al tentativo di guidare una discussione imparziale tra metodi passati e presenti. E questo Vico lo dice a chiare lettere, iniziando a spiegare che il confronto tra antichi e moderni non sta

194 Vico stesso nelle pagine della Vita sembra certificare questo esito, per così dire, negativo a cui egli era giunto nella VI

Orazione: G.B. Vico, Vita, op. cit., pp. 35-36: «Ed ove conoscano che naturalmente la morale pagana non basti perché ammansisca e domi la filautia o sia l’amor proprio, ed avendo in metafisica sperimentato intender essi più certo l’infinito che il finito, la

mente che ‘l corpo, Iddio che l’uomo, il quale non sa le guise come esso si muova, come senta, come conosca, si dispongono con l’intelletto umiliato a ricevere la rivelata teologia, in conseguenza di cui discendano alla cristiana morale, e così purgati, si portino finalmente alla

cristiana giurisprudenza» [il corsivo è di chi scrive]. Vico fa qui riferimento a ciò che nella VI Orazione contraddistingue il processo di purificazione dell’uomo, che negli ultimi stadi incontra proprio l’apprendimento della teologia morale e della giurisprudenza: Cfr. G.B. Vico, Le orazioni, op. cit., 206: «Hinc, eas edocti, morali theologiae facilem operam dabitis ut olim a confessionibus principum eos in ordinandis regendisque rebus publicis quam sapientissimis consiliis dirigatis. Porro ad iuris prudentiam addiscendam multo expeditiores agetis, quae ex morali, civili et Chtistianorum, tum dogmatum, tum morum doctrina ferme omnis derivat». Punto fermo di questo riferimento, però, rimane l’idea che è Dio a dover avere la precedenza sull’incapacità della natura umana.

semplicemente nel comparare, ma nel mettere al centro dell’esposizione la ragione (nostra

studiorum ratio), di modo che sia il punto di vista della mente dell’uomo a definire tanto i

termini della discussione quanto anche l’argomento stesso della dissertazione (dissertationis

argumentum). Non dunque il confronto delle discipline, rispetto al loro sviluppo moderno o

passato, determina la validità della ragione umana; al contrario, è per la loro connessione e dipendenza dalla centralità assunta dalla ratio che le singole arti e scienze hanno valore in sede metodologica196. L’antecedenza assegnata alla questione del metodo chiarisce che, nel

De ratione, Vico avanza anzitutto una prerogativa logica della ratio. Ed è in ragione di ciò, che

si comprende come l’abbandono della prospettiva unilaterale della VI Orazione nel rapporto uomo-Dio non corrisponda alla rinuncia di un fine unitario che guidi la discussione.

Pertanto, neanche il riferimento alle studiorum materies e al rapporto che intercorre tra le singole discipline (artes scientiaque) e la ratio vanno letti in un’ottica di continuità o di semplice approfondimento rispetto alle Orazioni inaugurali. Nella prossimità lessicale con un discorso che Vico ha portato avanti almeno dal 1701 fino al 1707, si celebra un distacco concettuale, di cui si possono qui osservare le prime tracce. Non si tratta, infatti, di una riproposizione tematica a riprova di un riconoscimento da parte di Vico per il valore degli studi letterari. E questo perché, alquanto specifico, il nesso della discussione sul sapere con gli studia literaria si accompagna al chiarimento circa il modo in cui le discipline vanno concepite in rapporto alla

ratio. Vico, infatti, specifica che esse vanno distinte e non, invece, separate dal metodo (si non separanda, distinguenda sunt tamen).

Da che cosa dipende l’idea di concepire le materie di studio come “distinte” ma non come “separate”? E perché Vico anche in sede introduttiva avverte l’esigenza di dover specificare che perlomeno esiste un modo errato – quello cioè della separazione – di intendere l’organizzazione delle discipline?

La risposta credo stia nel notare, anzitutto, come nel De ratione venga totalmente ripensata non solo la questione del sapere, ma anche il tema dell’organizzazione delle discipline di studio. Annotando che le materiae studiorum vanno “distinte” ma non “separate”, Vico sta cercando di rimediare a quella mancanza di rigore che aveva contraddistinto l’esposizione delle discipline di studio affrontata nella VI Orazione del 1707.

196 Ivi, pp. 92-94. É lo stesso Vico a dichiarare che l’argomento della ratio studiorum è nato dal constatare come tra le

discipline antiche e moderne si ripartiscano vantaggi e svantaggi: «Multa enim nobis detecta, antiquis penitus ignorata: et multa antiquis gnara, nobis prorsus incognita: complures nobis sunt facultates, ut in alio literarum genere proficimus; complures illis, ut in alio fuere: illi toti in aliquibus artibus excolendis, quas nos fere negligimus; nos in quibusdam, quas illi plane contemperunt: multae illis commode unitae doctrinae, quas nos discerpsimus, et aliquot nobis, quas illi divisas tractarunt: tandem non paucae duntaxat speciem mutarunt et nomen. Quae mihi res argumentum apud vos, ingenui adolescentes, disserendum praebuerunt: Utra studiorum ratio rectior meliorque, nostrane, an antiquorum?».

93 In quel tentativo si è visto, infatti, come Vico avesse posto, dapprima, la differenza tra genera e species, e in seguito quella tra le materie acroamatiche ed essoteriche. Aveva, però, mancato di stabilire quali relazione intercorressero tra tutti questi elementi che sono parte dell’artium

scientiarumque orbem. Tale mancanza trova precisa giustificazione nel primato assegnato al

processo di purificazione divino: è infatti alla sapienza divina che spetta, comunque, il compito di purificare la natura umana e colmare la distanza che la separa dal sapere.

Pertanto, la ‘predilezione’ per le sole discipline essoteriche, ovvero quelle che hanno storia, non ha nulla a che vedere con l’idea idealistica di una presunta scoperta vichiana del sapere storico. Esse in realtà risaltano solo perché sono le uniche che sembrano mantenere intatto il loro statuto, mentre, invece, le discipline acroamatiche subiscono la riduzione alla brevitas divina.

A queste incertezza ora Vico cerca di porre rimedio, ma l’indagine merita di essere seguita, anzitutto, sul versante della questione della ratio, che è il primo vero cambiamento concettuale operato da Vico. Una volta chiaritone il significato, si potrà fare un passo in avanti e interrogarsi sul modo in cui il tema degli studia literaria si ripresenta in relazione a una rinnovata concezione del sapere.