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Nel paragrafo precedente si è osservato in che senso, del tutto rinnovato, il problema del sapere acquisisce una centralità decisiva nel De ratione. La critica al metodo cartesiano non è semplice rifiuto dell’ordo, ma è parte dell’ambizioso tentativo di costruire un sapere che assuma il punto di vista delle inclinazioni umane. Sempre impegnata su questi due versanti, dell’ordo e della natura umana, la disamina vichiana assume una precisa stratificazione concettuale, nella quale si è osservato la Critica avanzare dapprima la propria prerogativa logica e subito dopo mostrare la sua incapacità di inclusione del verosimile.

Così la Topica, per Vico ingiustamente trascurata, assume sempre più importanza, e non solo per il fatto di porsi come valida alternativa al metodo critico. Nel corso dell’orazione vichiana si può osservare infatti che questa forma di sapere non vive mai soltanto della luce riflessa dalla Critica. Al contrario, la sua funzione assume sempre i connotati della molteplicità che intende rappresentare. Ora come espressione dei verisimilia o delle corporum

imagines, che agli occhi dei “critici” moderni risultano inferiori alla ricerca del “primo vero”214. Ora come tramite della prudentia, ovvero espressione di tutti quegli aspetti incerti e “obliqui” che, come scrive Vico, fanno parte della vita pratica dell’uomo215; la Topica, intendo dire, si presenta sempre come forma di sapere posta in relazione ad altro. E ciò non dipende da una sua debolezza estrinseca, ma dalla natura stessa della sua costituzione, che non è circoscrivibile nell’ambito di pertinenza del metodo critico.

All’altezza di questa idea si inserisce la centralità complessiva assegnata alla questione della

ratio quale nucleo fondamentale di tutta la dissertazione. Vico assegna questo ruolo

privilegiato alla discussione sul metodo sin dall’esposizione programmatica degli argomenti del De ratione.

Tuttavia, proprio commentando i momenti preliminari dell’orazione, si è osservato come Vico assegni un posto privilegiato all’esercizio delle discipline letterarie. Mentre, infatti, la

ratio rimane il fulcro (via) dell’orazione, le studiorum materiae sono comunque incluse nel

quadro generale della trattazione. Delle discipline di studio, rappresentate da tutte le arti le

214 Ivi, p. 104, per la considerazione delle corporum imagines: «Denique nostri critici ante, extra, supra omnes corporum

imagines suum primum elocant verum».

101 scienze e le invenzioni, Vico specifica che esse vanno distinte ma non separate dai nuovi strumenti e sussidi della scienza (a novis sciendi instrumentis adiumentisque, si non separanda,

distinguenda sunt tamen)216. Qual è il senso di questa specificazione vichiana? E come va interpretata la posizione delle discipline letterarie una volta compresa la centralità del problema della ratio?

In linea d’ipotesi, si potrebbe dire che Vico stia cercando di sondare tutto l’ambito del sapere per poi indicare una distinzione tra ratio e materie di studio, che ha il fine di rivendicare il primato del metodo di scienza sulle altre forme di conoscenza. Un tale giudizio, però, metterebbe a tacere la complessità che appartiene alla rinnovata istanza teorica del De

ratione217.

216 Ivi, p. 94: «Et quo rem facilius intelligere totam possitis, illud internoscatis oportet, me non heic scientias scientiis,

artesque artibus nostras et antiquorum comparare: sed quid nostra studiorum ratio antiquam vincit, ecquid ab ea vincitur, et quo pacto, ne vincatur, disserere. Quare novae artes scientiaeque et nova inventa a novis sciendi instrumentis adiumentisque, si non

separanda, distinguenda sunt tamen: illa namque studiorum materies est; haec via et ratio, proprium nostrae dissertationis

argumentum» [il corsivo è di chi scrive].

217 Un tale giudizio sarebbe cioè riduttivo rispetto alla complessità del percorso vichiano. Contro le possibili semplificazioni

del mutamento concettuale vichiano si è espresso anzitutto N. Badaloni, Introduzione, op. cit., p. 327: «Vico disegna un quadro della scienza cartesiana, e ne confronta i risultati colla scienza antica e con quella precartesiana; il confronto riguarda anche attività di tipo umanistico, con attività di tipo scientifico; ma non si deve credere che Vico pensasse ad un contrapporsi di scienza e di humanitas; il problema è più vasto e riguarda in generale la questione della natura della mente e della sua attività. Vedere nell’orazione una contrapposizione di scienza e di humanitas sarebbe una incomprensione del problema storico di fondo che è in discussione». In stretta continuità con questa ipotesi si veda pure: B. de Giovanni, Il «De

nostri temporis studiorum ratione», op. cit., p. 165 e la nota 44: «Inaspettato forse, questo richiamo, per chi abbia l’immagine d’un

Vico rivolto lui stesso a una contrapposizione di scientia e humanitas, che è in realtà tutta fuori della sua prospettiva di allora; non per chi, con maggiore correttezza filologica, abbia presente che il vero problema vichiano, qui, non è affatto in una critica della scienza tout court, ma all’apposto, in un costruito e polemico rifiuto di quelle metafisiche del vero – che Vico denomina Critica e Analisi – le quali costringevano la scienza a passare da una esperienza in continua costruzione di sé, ad un sistema dove, come dice Vico, già le parti sono disposte, prima ancora che la ricerca abbia inizio». Su questa linea anche il giudizio di R. Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Liguori editore, Napoli 1980, pp. 184-185: «Non credo personalmente che il passaggio dalle Orationes al De ratione segni […] un salto assolutamente radicale ad una maturità sino allora inedita. Ma, d’altra parte, mi sembrerebbe altrettanto parziale e scorretto disconoscere che il De ratione apra una fase, certo in varie guise anticipata dentro l’impegno pedagogico-retorico delle Orazioni, eppure, a suo modo, profondamente nuova del discorso vichiano: novità di sicuro dialetticamente connessa – sia pure detto con la prudenza che ogni affermazione del genere deve sempre comportare – con il ricambio di poteri del 1707 e con il conseguente modificarsi e intensificarsi del rapporto tra intellettuali e istituzioni del Napoletano. Il fatto è che non sono tanto i contenuti (se pure anch’essi) della nuova orazione a cambiare, rispetto a quelli delle precedenti: quanto piuttosto il campo teorico che questi contenuti attraversa, le domande – per dirla con un maestro del pensiero contemporaneo – più che le risposte, il taglio più che gli oggetti». In tutti questi casi – che ho ritenuto opportuno riportare per esteso – si legge che per intendere la complessità del De ratione è necessario indagare come cambia il ‘quadro teorico’ del nesso tra discussione scientifica e esperienza umana. Nelle pagine che seguono cercherò di vedere come, affrontando la questione della ratio, Vico abbia posto molte volte in evidenza il nesso della Topica con la disciplina oratoria. La centralità assegnata a tale materia studio e la rivendicazione del sapere eloquente contribuiscono ad arricchire il rinnovato quadro teorico della filosofia civile seguita da Vico. Per questa ragione, nell’esposizione di queste elaborate analisi, credo non debba sfuggire una domanda, che mi pare possa interpretare,

Se si osservano le dinamiche che caratterizzano le trattazioni vichiane delle materiae studiorum nel prosieguo dell’orazione, si può notare come l’idea di Vico sia esattamente avversa a un primato indiscusso del metodo di scienza. Nel contesto di discussione della ratio le materie di studio vengono distinte, ma non per questo perdono la loro autonomia e validità teorica. È per esempio quanto avviene nel caso del rapporto tra geometria e fisica nel Capitolo IV, dove si assiste in re all’applicazione di tale istanza programmatica. Nei momenti iniziali, l’esposizione vichiana si basa sull’intento di distinguere le due discipline dallo strumento di scienza, in quel caso rappresentato dall’analisi218, ma ciò non preclude alla geometria e alla fisica la possibilità di essere concepite in un diverso rapporto con il sapere.

A questo punto, però, bisogna comprendere quale ‘posizione’ specifica le materiae studiorum assumono nel contesto della discussione sulla ratio. L’autonomia che esse guadagnano nei riguardi degli strumenti di scienza, lascia presumere che esse vengano a occupare un ruolo preminente nella riorganizzazione del sistema del sapere. Una più attenta analisi dei luoghi testuali, nei quali si è visto prima emergere l’istanza logica del problema del metodo, fornisce una conferma dell’importanza assunta dalle discipline di studio. La loro funzione è inequivocabilmente intrecciata con gli sviluppi della discussione sul sapere. Ed è in ragione di questo profondo legame che, per esempio, si osserva il nesso tra la Topica e la materia oratoria. Vico lo presenta nel Capitolo III, subito dopo aver dedicato spazio agli svantaggi (incommoda) della Critica: «Unde illa summa et rara orationis virtus existit, qua “plena” dicitur, quae nihil intactum, nihil non medium adductum, nihil auditoribus desiderandum relinquit. Natura enim incerta est, et praecipuus, immo unus artium finis, ut nos certos reddat, recte fecisse: et critica est ars verae orationis, topica autem copiosae»219.

almeno in linea generale, la cautela degli interpreti sopra citati nel non semplificare la natura complessa dell’opera del 1709. La domanda riguarda, per così dire, l’aspetto costituente del rapporto tra scientia e humanitas che sto affrontando in questo paragrafo. Una volta detto, infatti, che l’influenza dell’humanitas è evidente nel De ratione e che la sua presenza non è riducibile a un contrasto unilaterale con la discussione scientifica, resta da interrogarsi sul significato che questo tema assume una volta che esso viene posto in connessione con l’esercizio della Topica. Per quale ragione, cioè, Vico avverte l’esigenza di affiancare l’oratoria a quella forma di sapere che è in grado di rimediare agli svantaggi della scientia? Ritengo che anche questa sia una complicazione a cui bisogna porre attenzione, se si vuole davvero indagare la complessità del De ratione e il cambiamento concettuale che quest’opera rappresenta nel periodo giovanile vichiano.

218 In un’ottica più generale, estesa a tutte le discipline e non solo al caso specifico del rapporto tra geometria e fisica, un tale

rapporto si può osservare nelle pagine finali del Capitolo II del De ratione, quando Vico espone il nesso tra le singole arti o scienze e gli strumenti di studio. La distinzione programmatica tra ratio e materiae studiorum si applica anzitutto a questo contesto di discussione: G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 96: «Omnium scientiarum artiumque commune instrumentum est nova critica; geometriae analysis; physicae haec ipsa geometria, eiusque methodus, et nova fortasse mechanica; medicinae instrumentum est chemica, et ex ea nata spargirica; anatomiae microscopium; telescopium astronomiae; geographiae denique polaris lapidis urna».

103 Esiste una virtù somma e rara dell’orazione: essa, infatti, non lascia nulla di ciò che è desiderato dagli uditori (nihil auditoribus desiderandum relinquit), nulla che non sia aggiunto nel mezzo della discussione (nihil non medium adductum). In questo carattere di totale “pienezza” (plena), l’oratoria risulta in grado di assolvere il fine unico delle arti, al punto da diventare la disciplina che meglio riesce a contraddistinguere la Topica dalla Critica, l’arte del sapere vero dall’arte del sapere eloquente (critica est ars verae orationis, topica autem copiosae).

Si può osservare in questo frangente come le materiae studiorum assumano un ruolo di prim’ordine nell’ambito della riflessione della ratio. In questo caso specifico, la disciplina oratoria viene da Vico inserita nell’ottica di una riproposizione della questione del metodo: interpretando l’unico fine delle arti, l’oratoria assume sia la stessa finalità che appartiene allo studio in generale220, sia quella capacità di ‘completezza’ che Vico vede mancare alla Critica. Per quanto, infatti, il suo metodo sia in grado di considerare il verosimile e l’invenzione degli argomenti, la sua costituzione non può evitare la loro esclusione. In punta di penna, Vico decide di toccare un nervo scoperto: «Sed qui certe esse possunt videisse omnia»? Cosa dà, cioè, certezza all’operare del metodo critico?

La Topica, che ingiustamente viene trascurata, è in realtà ciò che viene in soccorso alle difficoltà del metodo critico. Nella congiunzione con l’oratoria, come “arte dell’orazione eloquente” (topica autem copiosae), il sapere topico finisce così per rappresentare quella “completezza” che rimane preclusa alla Critica e alla sua astratta disposizione analitica. L’incidenza dell’oratoria, che qui fa il suo ingresso nell’ambito della discussione sulla ratio, rimane prevalente anche negli sviluppi successivi dell’opera, quando cioè la Topica viene intesa come prudentia, ovvero espressione della vita civile dell’uomo.

Nel capitolo VII, Vico si impegna non solo nel chiarire la sua irriducibilità rispetto alla

scientia221, ma a far valere soprattutto il punto di vista di una sapienza che vive e opera nelle incertezze della vita quotidiana. In questo contesto, non è la forza della mente che si accresce con la sola ragione a tenere banco, ma l’animo che, invece, si lascia guidare dall’eloquenza dell’oratoria222. L’influenza di questa disciplina si avverte in modo evidente e sempre in

220 Il fine della disciplina oratoria finisce, così, per coincidere con il fine generale degli studi. Nel Capitolo I, Vico spiega che

il compito complessivo degli studi corrisponde al raggiungimento della veritas: ivi, p. 96: «Finis autem omnium studiorum unus hodie spectatur, unus colitur, unus ab omnibus celebratur, verita. Quarum rerum omnium sive facilitatem, sive utilitatem dignitatemque spectetis, nostra studiorum ratio omni procul dubio antiqua rectior esse meliorque videatur».

221 Come si legge in ivi, p. 132, quando Vico specifica l’incompatibilità di scientia e prudentia: «Non recte igitur, per heac, quae

diximus, ii faciunt qui iudicandi rationem, qua utitur scientia, in prudentiae usum transferunt: nam ii res recta ratione aestimant, et homines, cum bona ex parte stulti sint, non consilio, sed libidine vel fortuna reguntur: ipsi de rebus iudicant, quales esse oportuerit, et res, ut plurimum temere gestae sunt».

222 Così Vico descrive la differenza tra mens e animus in ivi, p. 136: «Quanto enim – inquiunt – praestat veris rerum

relazione a contesti concreti ed effettivi:

Eloquentia enim est officii persuadendi facultas: is autem persuadet, qui talem in auditore animum, qualem velit, inducat. Hunc animum sapientes sibi inducunt voluntate, quae mentis placidissima pedissequa est; quare eos sat est, doceas officium, ut faciant. At multitudo et vulgus appetitu rapitur et abripitur: appetitus autem est tumultuosus et turbulentus; cum enim sit animi labes, corporis contagione contracta, corporis naturam sequens, non movetur nisi per corpora. Itaque per corporeas imagines est alliciendus ut amet; nam ubi semel amat, facile docetur, ut credat223.

L’eloquenza ha il potere di muovere gli animi e i sapienti sono coloro che indirizzano con la volontà l’animo dell’uditore (animum sapientes sibi inducunt voluntate). Ed è sufficiente che loro insegnino il dovere perché lo mettano in pratica (doceas officium, ut faciant). L’azione dei sapienti si esercita sulla moltitudine e sul volgo che vivono immersi nella natura corporale, tumultuosa e turbolenta, dove non è possibile adottare il metro della recta ratione. Per essere effettuata, infatti, l’opera di persuasione del volgo deve essere eseguita attraverso l’utilizzo

illecebris et dicendi facibus animum flectere, quae ubi restrinctae sunt, rursus ad ingenium redeat. – Sed quid facias, si non

cum mente, sed cum animo tota eloquentiae res est: mens quidem tenuibus istis veri retibus capitur, sed animus non nisi his

corpulentioribus machinis contorquentur et expugnatur». Palese in questa descrizione vichiana il mutamento concettuale rispetto al modo in cui viene concepito il rapporto tra mens e animus nelle Orazioni inaugurali. Mettendo a confronto questo passo con quanto da Vico scritto nella I Orazione si può osservare come, nel 1699, egli abbia inserito la variante mentis

praeceptum all’espressione animi praeceptum presente nell’edizione del manoscritto ciceroniano. L’indicazione è di Gian

Galeazzo Visconti, che ha dimostrato l’interpolazione vichiana nelle pagine del Commentario, presente nell’edizione delle prime orazioni vichiane: Cfr., G.B. Vico, Le orazioni inaugurali, op. cit., p. 217 nota 2a e p. 78, per il passo vichiano a cui la modifica testuale fa riferimento. Se si guarda con la lente della filologia lo sviluppo teorico che Vico mette in atto nel De

ratione, si osserva che nel 1709 la differenza tra mens e animus viene liberata da qualsiasi elemento ‘mentalistico’, tanto da

rivelare una diversa e autonoma ripresa del ciceronismo, adesso svincolato dai lacci della concezione divina della mente. In linea di ipotesi lo lascia supporre non solo l’elogio nei confronti di Cicerone e dei tempi antichi in cui l’eloquenza era praticata come vera e propria filosofia: G.B. Vico, Opere, op. cit., p. 134: «Et quando olim triplex philosophia ab iisdem tradebant ad eloquentiam accomodate, unde a Lyceo Demonsthenes, ab Academia Cicero luculentissimarum maximi oratores linguam prodiere». Vastissima la presenza di Cicerone nel De ratione si manifesta nelle lodi verso la sua figura, ma anche nella definizione teorica dell’oratoria da Vico intesa come “arte di ritrovare gli argomenti”: ivi, p. 108; per l’ascendenza ciceroniana di questa definizione si veda quanto dice Battistini in ivi, p. 106 nota 1 (p. 1331). Alla luce di questi molteplici riscontri, sembra anche lecito chiedersi che cosa questa reintroduzione di Cicerone significhi e quali elementi teorici forniscano queste presenze testuali. La questione, che mi propongo di affrontare altrove, richiede una ricostruzione critica, sia testuale che storiografica, dei numerosi contributi sul tema. Il primo ad aver posto l’attenzione sul ciceronismo di Vico è stato A. Corsano, Umanesimo e religiosità in G.B. Vico, Laterza, Bari 1935; l’autore ha poi rielaborato la sua ipotesi nel successivo Id., G.B. Vico, Laterza, Bari 1956. La ripresa di queste posizioni in chiave critico-analitica è stata compiuta da N. Badaloni, Umanesimo e neoplatonismo nelle orazioni vichiane, «Società», a II, 5, 1946, pp. 202-215 e nella più ampia Id., Introduzione

a Vico, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 292-296. Per una prospettiva diversa sul tema, estesa anche al tentativo di rivendicare un

significato ‘filosofico’ dell’umanesimo vichiano, vanno ricordati anche i contribuiti di E. Grassi, Vico e l’umanesimo, Guerini e Associati, Milano 1992.

105 delle immagini corporee (per corporeas imagines est alliciendus), secondo cioè quell’indirizzo che appartiene alle contraddizioni della umana prudentia.

Esposto in questi termini, il rapporto tra sapientes e il vulgus è qui una riproposizione del nesso tra la Topica e l’oratoria224. Se, infatti, l’eloquenza e il suo potere nelle mani dei sapienti rimandano al carattere di “completezza” dell’orazione e alla sua capacità di assolvere il fine delle arti; la Topica assume qui le sembianze del vulgus, concepito come l’ennesima rappresentazione della molteplicità delle espressioni umane e delle immagini corporali. In questo rimando è degno di nota osservare come sia, ancora una volta, l’oratoria a dare effettività al sapere topico.

Come già osservato nel Capitolo III, dove il carattere di ‘completezza’ dell’oratoria riduce gli svantaggi del metodo critico, anche qui è l’azione disciplinare dell’oratoria ad assistere l’istanza del sapere topico. È infatti persuadendo il volgo, attraverso cioè un rapporto frontale e diretto con l’uditore, che l’oratoria riesce a far valere il punto di vista dell’incertezza della natura umana. E Vico non manca di soffermarsi in modo esplicito sull’efficacia esplicitamente politica dell’oratoria, la quale servendosi dell’eloquenza riesce a indirizzare il volgo verso la realizzazione della virtù225.

224 Sull’allargamento della dimensione Topica si è espresso in queste sezioni del De ratione si è espresso B. de Giovanni, Il

«De nostri, op. cit., p. 174: «Viglio dire che l’insistito richiamo alla probabilità non tanto discende dal contrapporsi di un

tentativo misologico a una cultura logico-analitica, svolto sul terreno di un differente mentalismo; ma è la conversione, verso la media humanitas presa nel pragmatismo e nelle tumultuose occasioni d’una mente legata alla natura del corpo e al suo ‘contagio, di un discorso e in senso più ampio di una cultura, che germina anzitutto dall’esigenza di vincere, autocriticamente, l’umanesimo retorico della sapientia». Più di recente, il valore filosofico e retorico di queste figure vichiane è stato osservato da D. Grossi, «Entro i ciechi labirinti». La metafisica dei ‘secondi veri’ nel De ratione di Giambattista Vico, «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici», XXVIII, 2014-2015, pp. 429-457, in particolare p. 451: «Non sembra allora più tenere neanche la diade saggio-humanitas, se ancora qui il prodursi del fatto storico e della consapevolezza umana è legata a