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Il De ratione nell’epistola a Edouard de Vitry

Il dovere che anima il nuovo e rinnovato impegno accademico non ha nulla, in fondo, di prettamente personale. Nella pagina della Vita sopra commentata non c’è, come pure si è pensato, un atteggiamento di Vico motivato da peregrina ambizione di letterato, ancora tutto immerso nello studio autonomi e solitari dei classici. C’è, semmai, l’espressione di una rinnovata coscienza del ruolo dell’intellettuale178. Basta analizzare con attenzione le Epistole per trovare adeguata conferma di tale atteggiamento mentale. Nei molteplici contatti con gli intellettuali e uomini di potere si può osservare come Vico si faccia promotore di una maturata coscienza politica e filosofica dei problemi del suo tempo179. In particolare, sempre per rimanere in anni coevi alla redazione del giudizio della Vita sopra commentato, è interessante analizzare la lettera a Edouard de Vitry del 20 gennaio 1726. La riproposizione dell’idea del libro, quale strumento capace di incidere sulle vicende umana, dimostra un primo legame con l’insieme di valutazioni che Vico compie nel racconto autobiografico a proposito del fallimento delle Orazioni inaugurali e la novità del De ratione180.

178 La lettura delle opere vichiane in chiave ‘personalistica’ è stata sostenuta da A. Corsano, Umanesimo e religiosità in G.B.

Vico, Laterza, Bari 1935, pp. 12-13 in particolare. In questo suo primo impegno esegetico, Corsano intendeva mostrare che

l’isolamento di Vico a Vatolla fosse significativo di due aspetti fondamentali: il primo è l’incidenza di una crisi religiosa, dovuta al processo contro i suoi ‘amici’ ateisti, che ava colpito la sensibilità di Vico, al punto da convincerlo a lasciare Napoli; il secondo è la conseguente immagine di un Vico dedito a uno studio “intimo e fervido” dei classici latini. Per le critiche a tale prospettiva ‘personalistica’ si veda l’accurata analisi storica di F. Nicolini, Di un’asserita crisi religiosa del Vico, in Id., La giovinezza di Giambattista Vico, Il Mulino, Napoli 1992, pp. 25-26 in particolare. A partire dalla seconda metà del Novecento in avanti, si assiste all’incremento di una serie di studi che chiariscono in che modo la nuova consapevolezza del ruolo dell’intellettuale è dovuta al mutamento del ruolo del “ceto intellettuale”. Per riassumere il significato civile di questa svolta e la sua importanza per Vico conviene riferire le parole in merito di B. De Giovanni, «De nostri temporis studiorum

ratione», op. cit., pp. 148-150: «Il dato sicuro di questi ultimi anni del viceregno spagnolo, è il legarsi di cultura e politica in un

nuovo vincolo, caratterizzato da una richiesta di partecipazione del ceto civile (e in esso, con particolare vigoria, del ceto intellettuale) al governo del viceregno, e soprattutto alla formazione di quei quadri giudiziari e amministrativi che, nelle carenze dell’autorità centrale, eran poi quelli intorno ai quali s’articolava gran parte del pubblico potere […] Voglio dir subito, che questa diversa collocazione del ceto civile si articola intorno ad un complesso ripensamento di temi culturali e politici non distaccati fra loro, ma complessivamente idonei ad esprimere, appunto, i nuovi dati del rapporto che s’andava delineando nella società».

179 Per una panoramica dei contenuti filosofici riferiti nelle lettere vichiane si veda M. Sanna, Le epistole vichiane e la nascita

dell’idea di scienza nuova, op. cit., pp. 119-129.

180 G.B. Vico, Epistole, op.cit., pp. 131-133. La corrispondenza di questa lettera con il passo della Vita sopra commentato è

stata osservata da A. Battistini, Opere, op. cit., p. 1277 (p. 36 nota 3). Nell’apparato di Note alla Vita, Battistini infatti specifica che la denuncia nei riguardi delle Orazioni inaugurali, quali come libri inutili alla comunità, si ripresenterà tale e quale nell’epistola al padre De Vitry e nel Capitolo XIII De ratione. Sulla base di questa connessione testuale, che mi propongo di analizzare nel prosieguo del capitolo, credo si possa avviare anche una riflessione sul fatto che, per Vico, la

85 Rileggendo la lettera si può notare quanto il compito di rendere effettuale il sistema del sapere diventi oggetto di costante preoccupazione per le sorti delle opere letterarie. Le riflessioni che Vico invia al destinatario hanno così decisivo valore teorico, per il fatto di essere sempre tutte rivolte al tentativo di ristabilire un nesso tra il sapere e il potere.

La lunga digressione che segue ai convenevoli d’apertura è una vera e propria attestazione dello stato di crisi in cui versano gli studi letterari. E poco importa se essa, poi, eccede i termini della lettera e lascia trasparire una confidenza forse inaspettata per il padre De Vitry181. Lo stato di crisi della cultura minaccia le sorti dell’Europa intera e non c’è «umano scorgimento» che sia in grado di porre rimedio alla fine della Repubblica delle Lettere182. Restano solo i segni di questa decadenza che Vico si sofferma a descrivere con grande minuzia: lamentando il disinteresse dei principi verso la gloria che si può raggiungere attraverso la penna eccellente dello scrittore o denunciando il funesto presagio di una libreria rimasta inosservata e venduta183. Sono episodi che rasentano la cronaca dell’Europa del suo tempo, ma che in modo alquanto diretto fanno da cornice alla consapevolezza filosofica che anima il problema relativo agli studi letterari.

La ragione vera della crisi sta nel fatto che lo studio letterario è ormai separato e sconnesso rispetto alla sua concreta ed effettiva funzione civile. Vico non manca di sottolineare con forza questo punto, che è anche il giusto motivo d’interesse per questa lettera:

i Filosofi hanno intorpiditi gl’ ingegni col metodo di Cartesio; per lo qual solo vaghi della lor chiara e distinta percezione, in quella essi senza spesa, o fatiga ritrovano pronte ed aperte tutte le Librerie: onde le Fisiche non si pongono al cimento, per vedere se reggono sotto l’esperienze: le Morali non più si coltivano sulla massima, che la sola comandataci dal Vangelo sia necessaria: le Politiche | molto meno approvandosi dapertutto che bastino una felice opacità per comprender gli affari, ed una destra

preoccupazione per gli studi letterari e la funzione dei libri costituisca il primo ingresso per la comprensione della ‘scrittura’ come problema filosofico.

181 Ivi, p. 133. Come lo stesso Vico ammette in chiusura, scusandosi con il destinatario: «Mi perdoni V(ostra) R(everenza) se

ho ecceduti i giusti termini della Lettera con alquanto di confidenza».

182 Ivi, p. 131: «di questa Città io posso darle questa novella, che da savj uomini qui si vive persuaso, che se la Provvidenza

Divina per una dell’infinite sue occulte, e ad ogni umano scorgimento nascoste vie non l’invigorisca e rinfranca, sia già verso il suo fine la Rep(ubblica) delle lettere». Palese qui il riferimento di Vico alla concezione della Divina provvidenza che proprio nella Scienza Nuova del 1725 occupa un ruolo centrale negli interessi del filosofo napoletano. Tuttavia, come cercherò di mostrare a breve, nella lettera non mancano anche preziosi riferimenti che rendono ‘necessario’ il rimando al De

nostri temporis studiorum ratione.

183 Ibidem: «lo che dà pur troppo evidentem(en)te ad intendere che oggi i Principi nemmeno dal loro interesse della loro

Gloria si muovono più a conservare non che a promuovere le Lettere. Ne viene anche ciò confermato col fatto funesto a tutta la Rep(ubblica) Letteraria, che nella Grecia di questo nostro Mondo presente (dico la nostra Francia) la celebre Libraria del Cardinal dal Reàn non ha trovato compratore che intera la conservasse; ed ha dovuto vendersi, per essere lacciata a Mercadanti Olandesi».

presenza di spirito, per maneggiarli con vantaggio: Libri di Giurisprudenza Romana colta si fan vedere e piccoli, e radi dalla sola blanda: la Medicina entrata nello scetticismo si sta anche sull’Epoca dello scrivere. Certamente il fato della Sapienza Greca andò a terminare in Metafisiche, niente utili se non pur dannose alla civiltà; ed in Matematiche tutte occupate in considerar le grandezze, che non sopportano riga e compasso, le quali non hanno niun’uso per le Mecaniche184.

Sembra di leggere un corollario all’orazione del 1709. E non solo per il palese e critico riferimento al principio cartesiano della conoscenza “chiara e distinta”, che è parte costituente della discussione vichiana sulla ratio studiorum. Ancora più di questo primo esordio, nell’economia generale del brano citato, pesa il fatto che questo metodo abbia delle conseguenze sul modo in cui le discipline di studio vengono praticate. Il nesso tra il criterio cartesiano e le singole materie ripropone ciò che nel De ratione si articola nel nesso tra gli strumenti (instrumenta) della scienza e la ricerca del primo vero.

La relazione ha una propria intrinseca necessità, perché se è vero che chi apprende opera secondo i criteri stabiliti dalle regole, questo significa che al criterio con il quale si stabilisce certezza assoluta, anche nell’atto di dubitare, viene riconosciuto un’antecedenza logica, alla base di ogni pratica disciplinare. Nel De ratione Vico ripartisce questi passaggi in due diversi momenti: dapprima scrivendo, nel Capitolo I, che «Instrumenta enim ordinem complectuntur»185, ovvero stabilendo la connessione tra i singoli elementi di scienza e l’istanza dell’ordo; e poi esplicitando, nell’incipit del Capitolo II, l’effettiva ascendenza di tale idea di ordine con la definizione di matrice cartesiana della critica, la quale stabilisce il modo in cui nelle singole discipline si dispongono gli strumenti di scienza186.

Si inizia così a intravedere in retrospettiva, all’altezza di un giudizio tardo rispetto alla pubblicazione dell’orazione, la centralità che Vico assegna al De ratione, l’opera che ha il compito di mettere in questione il dominio della Critica su tutte le discipline del sapere. Il riferimento dettagliato alle singole materie di studio non fa, poi, che rimandare a ulteriori

184 Ivi, p. 132.

185 G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 94.

186 Ivi, p. 98. Così recita il passo vichiano: «Etenim critica id nobis dat primum verum, de quo, vel cum dubitas, certus fias;

et quo omnem prorsus Academiam novam profligasse existimatur. Analysis autem mira methodi facilitate problemata geometrica antiquis insoluta dissolvit». E’ opportuno qui sottolineare come, nella critica, lo strumento prediletto per la geometria sia l’analisi. Vico, infatti, si impegnerà alla critica di questo nesso, sia nei riguardi della fisica (Capitolo IV) che della geometria (Capitolo V), in ragione della sua costitutiva astrattezza. Si osservi come questo ordine di questioni si ripresenti nel passaggio vichiano sulle “matematiche”, contenuto nella lettera a Edouard de Vitry sopra citata. In particolare, il fatto che esse «non hanno niun’uso per le Mecaniche» ripropone un motivo che era già del De ratione, quando Vico sosteneva che l’uso della meccanica non ha alcun legame con l’analisi applicata alla geometria: Ivi, p. 124: «Sed illud ambigere per haec, quae diximus, licet, qui novissime mechanicam adauxerunt, ne non id ipsa geometriae vi, et sua ingeniorum felicitate magis, quam ulla analysis ope praesiterint».

87 connessioni con l’orazione del 1709187. Di questa concisa testimonianza vichiana non deve, però, passare inosservato un altro nesso teorico, che consente di dare una consistenza diversa alla consapevolezza filosofica del problema che è al centro del De ratione. Descrivendo il legame del metodo cartesiano con il modo in cui le singole discipline vengono praticate, Vico scrive che, in tal modo, esso stabilisce di tenere «pronte e aperte tutte le Librerie». La metafora ha certamente il compito di restituire il senso di ordine (ordo) che le materie di studio subiscono con l’ausilio del metodo. Da un punto di vista prettamente scientifico, infatti, l’indagine sul primo vero stabilisce che è l’analisi a costituire la pratica di studio e a determinare, per esempio, che la fisica non ha bisogno dell’esperimento o che la medicina ha bisogno delle regole e non di considerare ogni volta i sintomi particolari.

Tuttavia, l’immagine delle materie di studio come elementi di una libreria che raccoglie tutto lo scibile umano consente di interpretare, anche in termini non strettamente scientifici, il modo in cui il metodo condiziona lo studio delle singole discipline.

Nella metafora libraria le materie di studio, prima ancora di essere instrumenta di scienza sono anzitutto libri. Nel passo dell’epistole Vico si sofferma a descrivere le conseguenze provocate dall’esercizio del metodo cartesiano, denunciando il fatto che in questo modo i «Filosofi hanno intorpiditi gl’ingegni». Ma che cosa significa questo nel caso delle discipline di studio considerate come libri? Quale conseguenza ha l’adozione del metodo cartesiano nei riguardi dell’oggetto libro? Sul doppio versante di un ragionamento che Vico conduce sia su un piano scientifico che su una prospettiva letteraria, mi pare di poter individuare un punto di convergenza tra questi due diversi aspetti. C’è una forte connessione tra l’istanza scientifica e quella relativa alle materie di studio come libri. In entrambi i casi, infatti, l’ordo condiziona l’esercizio delle discipline, stabilendo in che modo vadano organizzati anche i singoli contenuti delle materie di studio.

Nel caso dei libri, tale operazione metodica subisce una determinata sfumatura concettuale,

187 Il metodo cartesiano, si legge nella lettera, “intorpidisce” tutte le materie di studio. Un confronto testuale tra quanto

detto nella lettera e il modo in cui nel De ratione Vico affronta questi temi dà ulteriore prova del legame di questo brano con l’orazione del 1709. Per esempio, la Fisica, che sotto l’egida cartesiana rinuncia al cimento, ricorda quanto Vico dice sui “fisici moderni” e sulla loro concezione della fisica, considerata alla stregua del metodo geometrico: Cfr. ivi, p. 114. Per quanto riguarda la Morale trascurata, Vico nel 1709 scrive: ivi, p. 130: «Sed illud incommodum nostrae studiorum rationis maximum est, quod cum naturalibus doctrinis impensissime studeamus, moralem non tanti facimus». Per quanto riguarda la Politica, ridotta a mera valutazione di vantaggi, nel De ratione Vico ripropone questa visione particolaristica dello stolto, che non è in grado di possedere il vero in forma universale: Cfr. ivi, p. 132. La giurisprudenza romana, poi, denigrata è nel De

ratione, invece, attivamente pensata e riabilitata in tutto il Capitolo XI: ivi, pp. 158-196. Infine, la Medicina, condannata allo

scetticismo, viene nel 1709 così descritta nella sua concezione moderna: ivi, p. 128: «Hodie ab uno aliquo explorato vero nostras de physicis argumentis dissertationes deducimus: signa vero et iudicia verisimilia sunt, quae longa observatione colliguntur».

perché l’effetto del metodo sui singoli contenuti delle discipline si osserva nei riguardi della loro ‘scrittura’, del modo in cui cioè essi vengono organizzati e resi utili all’apprendimento188. Credo non sia improprio dire che nelle pagine della lettera al Padre de Vitry, Vico si sia avvicinato in maniera evidente a questa idea quando, parlando della medicina, ha definito l’esito scettico di tale disciplina come uno stare sull’epoca dello scrivere.

In linea d’ipotesi, l’espressione conferma non solo la tendenza a interpretare la discussione scientifica in connessione con la prospettiva di un utilizzo delle discipline letterarie. La valutazione della medicina come libro pensato in relazione alla sua scrittura ha anche un significato più profondo. La parola “epoca” viene, infatti, usata da Vico nel senso greco del termine epoché, ovvero con il significato di “sospensione del giudizio” 189. Pertanto, nel caso della medicina l’esito scettico che è espresso dal silenzio circa la natura dei morbi (l’epoché) viene considerato negli effetti che esso genera nella scrittura, la quale viene per l’appunto resa oggetto della sospensione del giudizio.

Se si tiene presente quanto detto da Vico nel passo della Vita a proposito della novità del De

ratione con queste valutazioni relative al nesso tra il metodo degli studi e la ‘scrittura’, l’opera

del 1709 si vede riconoscere la sua importanza anzitutto come libro che ha il compito di incidere sulle sorti delle vicende umane.

Il tentativo di ristabilire il nesso tra potere e sapere sembra fare tutt’uno con il fatto che tale questione diventi anche oggetto di riflessione sulla ‘scrittura’. La suggestione emerge proprio

188 Per un ulteriore riferimento all’ipotesi di lettura che qui propongo, credo opportuno rimandare al contributo di J.

Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, presentazione di T. De Mauro, tr. it. D. Di Cesare, Laterza, Bari 1996, pp. 7-36, in particolare p. 22, dove il rapporto di distanza rispetto a Cartesio viene riletto alla luce dell’importanza che Vico assegna ai libri e al mondo delle lettere: «Il cammino del Discours de la méthode è dunque un cammino di purificazione, un lavaggio del cervello dopo il quale non resta che l’Io puro, la res cogitans. Nel pensiero puro non è più registrato nulla. Non vi sono più lettres, di “caratteri”, né lettere, né caratteri; la tavola è cancellata: tabula rasa. A questa vuota autocertezza del pensiero Vico oppone la propria alternativa, ossia la certezza del sapere del mondo civile fatto dagli uomini che consiste proprio di segni grafici, di lettres, di “caratteri” scritti sulla tavola dello spirito, sulla Tavola delle cose civili». Trabant non manca di integrare questa idea con i passaggi testuali della Vita, nei quali Vico parla dell’importanza del “mondo civile”, tutto ciò che va sotto l’ambito della filologia che lo studioso tedesco così definisce: ivi, p. 16: «La vichiana scienza nuova del

mondo civile ruota non già intorno alla “filologia” in quanto tale, ai fatti storici nella loro individualità e nel loro concreto

essere-così, bensì intorno al sistema celato in questi fatti concreti, intorno all’universale e all’eterno, onde “meditare questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna”». Senza affrettare i tempi di una discussione sulla ‘filologia’ vichiana, mi limito ad evidenziare come in questa definizione (filologia come “sistema celato nei fatti concreti”) data da Trabant una forte assonanza con quanto in questa ricostruzione del periodo giovanile si dice a proposito della scrittura e delle discipline acroamatiche come parte del sistema del sapere.

189 L’indicazione è di Battistini: ivi, p. 327 nota 12. Proprio nelle note al brano della lettera che sto commentando, c’è il

rimando a un passo della Vita nel quale, in maniera pressoché identica, Vico ripropone l’espressione: ivi, p. 24 e nota 3: «La medicina, per le stesse mutazioni de’ sistemi di fisica, era decaduta nello scetticismo, ed i medici avevano incominciato a stare sull’acatalepsia o sia incomprendevolità del vero circa la natura dei morbi, e sospendersi sull’epoca o sia sostentazion

89 da quanto detto sino ad ora, ma è ancora preso per giungere a conclusioni affrettate. Dapprima conviene una precisa e attenta disamina dell’orazione, che sciolga i dubbi circa la possibile convenzionalità di questo approccio vichiano all’idea del libro e della sua funzione190.