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Rinascita della retorica e riflessione sulla scrittura nel De nostri temporis

Nel breve arco di tempo che separa la VI Orazione del 1707 dalla pubblicazione del De nostri

temporis studiorum ratione nel 1709, Vico ripensa totalmente l’insieme delle relazioni che

compongono il tema dell’artium scientiarumque orbem. Più precisamente, quando egli pone, nel Capitolo III dell’orazione, in modo diretto il nesso dell’oratoria con la scrittura, e concepisce tale rapporto in luogo di ‘inversione’ della Topica sulla Critica, sta in realtà mettendo appunto una rivalutazione strutturale delle discipline “acroamatiche” e della loro funzione. Sono emblematiche le parole di Vico e conviene riprenderle per vedere in atto gli effetti di questo vero e proprio mutamento concettuale. Una volto posto il rischio che la Critica «renda i giovani incapaci di eloquenza» (nostra criticaadolescentes reddat eloquentiae ineptiores)289, ecco che l’oratoria e la sua connessione con l’attività di scrittura assumono il compito di fondare il sapere verosimile della Topica e tutto l’insieme di espressioni della natura umana che, altrimenti, rischierebbero di essere esclusi dal metodo cartesiano. Vico è esplicito a riguardo: «Deinde in topica, sive medii inveniendi doctrina exerciti («medium» Scholastici dicunt, quod Latini «argumentum» appellant), cum iam norint omnes argumentorum locos in

disserendo, ut scribendi elementa percurrere»290. Il carattere di completezza dell’oratoria, che è in grado di fornire una conoscenza di tutti i “luoghi degli argomenti”, corrisponde alla stessa capacità della scrittura di percorrere i propri elementi interni.

Le conseguenze di questa operazione si ripercuotono su tutto l’arco del pensiero giovanile, perché con l’inclusione dell’oratoria e della scrittura nell’ambito della discussione sulla ratio, Vico rimedia anche alle principali incertezze teoriche che hanno caratterizzato le sue prime riflessioni sul sapere e la natura dell’uomo. È opportuno fare maggiore luce su questo punto, evidenziando in modo particolare le due novità principali che sono alla base del mutamento concettuale vichiano.

289 G.B. Vico, De nostri, op. cit., 104. 290 Ivi, p. 106 [il corsivo è di chi scrive].

139 La prima consiste nella rinnovata funzione che la disciplina oratoria viene ad assumere nel

De ratione. Essa, infatti, viene da subito insignita del compito di stabilire un ordine topico del

sapere che si fondi sui contenuti specifici della natura umana. In particolare l’idea – che Vico sviluppa anche nel Capitolo VII quando spiega che l’eloquenza corrisponde a un potere di persuasione che coinvolge l’animo più che la mente291 – di associare eloquentia a officium riporta alla mente le parole che Vico aveva posto a esergo della VI Orazione, incentrando la sua discussione sulla natura corrotta dell’uomo e sul bisogno di costruire un ciclo delle arti e delle scienze.

Nel 1707, eloquentia scientia e virtus sono considerate officia della sapienza, per via della loro capacità di rimediare alla debolezza dell’uomo292. Le tre facoltà hanno il compito di correggere la natura umana con l’ausilio delle discipline di studio: così la mente dell’uomo deve essere soccorsa dal vero (mentem vero), l’animo dalla virtù (animum virtute) e il linguaggio dall’eloquenza (linguam eloquentia conformet)293.

Quando nel De ratione Vico attribuisce un ruolo preminente all’oratoria mantiene l’idea che questa disciplina svolga anche la funzione di indirizzare il corretto utilizzo delle facoltà umane.

Tuttavia, rispetto alla VI Orazione cambia completamente il senso in cui questo compito viene svolto. Mentre, infatti, nella VI Orazione l’esercizio delle discipline di studio è tutto rivolto al fine di ‘emendare’ la natura corrotta dell’uomo, nel 1709 questa esigenza viene meno, perché, come si può osservare nel caso dell’oratoria, essa ha proprio il compito (officium) di sostenere e non eliminare l’impotenza dell’uomo294, di persuadere cioè il volgo con gli stessi elementi che sono parte della sua imperfezione.

291 Ivi, p. 136: «Sed quid facias, si non cum mente, sed cum animo tota eloquentiae res est: mens quidem tenuibus istis veri

retibus capitur, sed animus non nisi his corpulentioribus machinis contorquetur et expugnatur. Eloquentia enim est officii persuadendi facultas: is autem persuadet, qui talem in auditore animum, qualem velit, inducat».

292 Così recita il passo vichiano della VI Orazione: G.B. Vico, Le orazioni inaugurali, op. cit., p. 196: «Tria ipsissima sapientae

officia: eloquentia stultorum ferociam cicurare, prudentia eos ab errore deducere, virtute de iis bene mereri, atque eo pacto pro se quemque sedulo humanam adiuvare societatem. Quae qui faciant, ii sane multum supra homines, parum, fa sit dicere, infra numina viri sunt, quos non fucata nec fluxa, sed solida et vera gloria consequitur, nempe fama meritorum, quo fieri a quoque possit, ampliorum, longe lateque pervagata».

293 Si noti come nella VI Orazione, per indicare il compito della sapienza di ‘correggere’ la natura umana, Vico usi il vero

“emendet”, che meglio evidenzia la volontà di utilizzare le discipline di studio al fine di eliminare le imperfezioni dell’uomo:

ibidem: «qui in hisce studiis ad sapientiam non spectat, hoc est ea non excolit ut suam emendet naturam, et mentem vero,

animum virtute, linguam eloquentia conformet, quo et sibi constet homo, et humanam, quantum ab eo est, iuvet societatem, is saepe alius est, alium profitetur; sape multis hiscit arti necessariis, quam profitetur».

294 G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 136. Il fatto che poi Vico definisca questo stato di debolezza come “ordinario” è un

ulteriore indizio di quanto nel 1709 sia cambiata l’idea dell’imperfezione dell’uomo rispetto al quadro teorico delle Orazioni

In questo preciso rovesciamento della funzione assegnata all’oratoria consiste anche la sua rivalutazione nell’ambito della ratio studiorum.

Da un punto di vista strutturale, questa ipotesi è del tutto compatibile con l’esigenza programmatica del De ratione di non ‘separare’ le materie di studio dalla discussione sul sapere. Con questa istanza, infatti, viene totalmente destituita quella rigida distinzione tra l’ordine disciplinare il fine sapienziale degli studi che contraddistingue la VI Orazione295. La netta inversione di tendenza che caratterizza l’opera del 1709 si verifica proprio nelle dinamiche del rapporto tra la Topica e l’oratoria.

Rivendicando cioè l’utilità dell’oratoria per il primato del sapere topico, Vico sta nei fatti operando una totale rivalutazione del ruolo delle cosiddette discipline “acroamatiche”. Il loro carattere vocale o auditivo non rimane più in quell’ambiguità teorica con cui l’argomento viene affrontato nella VI Orazione. Sebbene Vico infatti nel 1707 annoveri le discipline “acroamatiche” nell’ambito della costruzione del ‘ciclo’ delle arti e delle scienze, manca di definire qual è il loro ruolo, sia rispetto alle materie che hanno storia (le cosiddette discipline “essoteriche”), sia rispetto alla distinzione tra il carattere generale (genera) e specifico (species) delle discipline di studio296. A fronte di tale incertezza, che solo lo statuto divino della sapienza è in grado di arginare, si assiste alla soppressione della loro natura vocale297. In netta controtendenza rispetto a questo esito negativo nelle pagine del De ratione, in cui Vico spiega il valore dell’oratoria, si giunge alla totale rivalutazione dell’eloquenza e del suo carattere essenzialmente vocale298. L’importanza attribuita all’uditorio e in generale alla più ampia dimensione auditiva indicano una delle più grosse novità concettuali che Vico porta a compimento nell’opera del 1709299.

295 Che fosse proprio la separazione tra il fine degli studi e l’ordine degli studi a caratterizzare la VI Orazione, lo si evince da

quanto Vico dichiara nella Vita: G.B. Vico, Vita, op. cit., p. 34.

296 Le due distinzioni in ambito disciplinare si trovano rispettivamente in G.B. Vico, Le orazioni, op. cit., p. 200 e p. 202. 297 Ivi, p. 208: «At quia haec studia, natura coniuncta et quo enarravimus ordine disposita, hominum vicio scissa saepe et

turbata sunt, multa videntur, at re ipsa non multa, sed eadem deprehendas multiplicata. Artium enim institutiones et scientiarum doctrinae, quas acroamaticas censuimus et a doctoribus ediscendas, si nihil in aliis aliunde forinsecus accersatur (quid enim opus est accersiri, si omnia suo quaeque loco dispensate eodcentur?) sunt ferme omnes brevissime. Scientiarum artiumque historias exotericas esse existimavimus ut eas per vosmet ipsos erudiri possitis». Come già mostrato nel secondo capitolo della Prima Parte, qui si osserva la soppressione del carattere vocale e auditivo, essendo che la definizione delle discipline acroamatiche come «a doctoribus audiendae sunt» viene sostituta da quella «a doctoribus ediscendas».

298 Mi riferisco in particolare al passo in ivi, p. 108, dove chiaramente si può osservare il primato che Vico assegna

all’oratoria, intesa per l’appunto come una materia a orientamento essenzialmente vocale: «A haec, tota eloquentiae res nobis cum auditoribus est, et pro eorum opinionibus nos nostrae orationi moderari debemus, et natura comparatum est ut saepe qui pollentissimis rationibus non moventur, iidem aliquo levi argumento de sententia deiiciantur». Per un’ulteriore conferma della derivazione disciplinare di questo passo si veda quanto scritto da Battistini in ivi, p. 108 n. 1 (p. 1332).

299 L’ipotesi che Vico abbia portato a compimento una vera e propria “rivalutazione” dell’oratoria è tesi ampiamente

141 La seconda novità, invece, è rappresentata dalla concezione della scrittura, di cui si può osservare anzitutto una definizione meno approssimativa di quella fornita nella VI Orazione. Nel De ratione Vico scrive che questa attività consiste nel “percorrere gli elementi di scrittura” (elementa scribendi percurrere). In maniera analoga all’oratoria, essa contribuisce a costituire l’ordine del sapere fondato sul punto di vista delle species. La novità di questa esposizione si comprende considerando la diversa collocazione strutturale che riguarda il nesso della scrittura con le species.

Mentre, infatti, nel 1707 la connessione tra il carattere ‘specifico’ delle discipline e l’attività di scrittura si spiega in ragione di un legame con la storia tutto raccolto nell’accezione delle discipline “essoteriche”300; nel De ratione, invece, il rapporto della scrittura con le species si arricchisce di ulteriori elementi.

Anzitutto, si osserva una spiegazione più chiara del carattere ‘specifico’ del sapere. Una volta che la scrittura viene definita come attività di connessione degli elementi interni, il legame con le species non viene più soltanto limitato alla semplice constatazione che ci sono discipline a carattere generico e discipline conscriptae. Il nesso della scrittura delle species si consolida nel legame tra questa attività e i suoi contenuti interni, ovvero quelli che Vico chiama gli elementa

scribendi.

Questa prima modifica afferisce a un cambiamento teorico strutturale, perché il nesso delle

species con gli elementa scribendi si estende anche all’oratoria e agli argomentorum locos.

Ed è in questa prospettiva, che è possibile osservare il secondo elemento di novità che contraddistingue il De ratione dalle Orazioni inaugurali.

Il nesso della scrittura con l’oratoria indica che, a distanza di due anni, tale attività non è più concepita in relazione all’ambito “essoterico”. Questa idea, che come si è visto rappresenta l’esito finale del ragionamento vichiano condotto nella VI Orazione, viene completamente stravolta. Nel De ratione, la scrittura è, in realtà, connessa alla dimensione “acroamatica”, in

vichiano, da A. Battistini-E. Raimondi, Le figure della retorica, Einaudi, Torino 1990, pp. 205-215, che hanno indicato l’istanza antropologica che anima la riabilitazione della retorica. Un’ulteriore conferma di questa linea di ricerca è rappresentata dal più recente contributo di D.L. Marshall, Vico and the transformation of rhetoric in early modern europe, Cambridge University Press 2013. Da questa disamina monografica, Vico risulta addirittura come il principale protagonista della riabilitazione retorica nella prima età moderna. Procederò a una più dettagliata analisi di questo contribuito e del significato euristico attribuito alla parola “trasformazione” nel prossimo capitolo. Per adesso basti aver individuato un altro e fondamentale tassello degli studi vichiani della seconda metà del Novecento. A tali studi in ambito retorico, infatti, va ascritto il merito di aver mostrato come il mutamento concettuale vichiano riguarda anche il ripensamento totale del rapporto eloquentia-scientia e non solo quello del rapporto mente-corpo, su cui hanno concentrato i loro sforzi le letture di Badaloni, de Giovanni e Donzelli.

300 Si ricordi qui infatti quello che Vico scrive nel caso della lingua latina e della fisica: la storia di queste discipline segna la

vera forma di apprendimento, perché tali storie sono anche soggette all’attività di scrittura: G.B. Vico, Le orazioni inaugurali, op. cit., p. 200: «De physicis phaenomenis et historiae conscriptae sunt et scribuntur in dies» [il corsivo è di chi scrive].

stretto rapporto cioè con l’orientamento vocale delle discipline di studio.

Non poche sono le conseguenze di questo mutamento da un punto di vista storiografico301. E non meno rilevanti sono anche i risvolti testuali su cui ho cercato di far luce tracciando questa breve storia lessicale e dalla quale dovrebbe risultare, in un modo forse inedito, l’importanza di questa orazione nell’intero arco del pensiero giovanile vichiano.

301 Non è inappropriato, credo, il rimando all’indagine filosofica sulla scrittura compiuta da J. Derrida, Della grammatologia, tr.

it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Jaka Book, Milano 1969, pp. 5-30, in particolare p. 14 e p. 18 dove l’autore cerca di spiegare come dal nesso tra “logocentrismo” e “fonocenetrismo” discenda il ruolo secondario che la tradizione occidentale ha attribuito alla scrittura. La scelta vichiana di associare l’attività di scrittura alle discipline a carattere vocale sembra procedere in un dialogo ideale con Derrida, il quale, peraltro, non manca di rilevare l’importanza di Vico e la sua scoperta del nesso tra ‘parole’ e ‘scrittura’: ivi, p. 125 n. 5. Per un’analisi critica dell’interpretazione vichiana di Derrida si veda: J. Trabant, La scienza, op. cit., pp. 119-138. La riflessione vichiana sulla scrittura potrebbe anche interessare la discussione che ha caratterizzato parte del dibattito anglo-americano della Cultural History. A tal riguardo, si noti, per esempio, la concezione che Walter J. Ong ha dato della scrittura: W.J. Ong, Orality and literacy. The technologizing of the Word, Methuen, London-New York 1982, p. 82: «Writing is in a way the most drastic of the three technologies. It initiated what print and computers only continue, the reduction of dynamic sound to quiescent space, the separation of the word from the living present, where alone spoken words can exist». E se si associa questa definizione della scrittura come ‘tecnologia” con quanto da Ong detto a proposito delle novità che tale attività porta con sé nei contesti editoriali (pp.117-123), viene da pensare che in questo senso per Ong la scrittura è e rimane soltanto una concezione “essoterica”, relativa cioè all’ambito pubblico. Rispetto a questo indirizzo, Vico procede in nette controtendenza, essendo il suo tentativo quello di concepire la scrittura in stretta connessione con il carattere ‘vocale’ delle materie di studio. Per un approfondimento sulla scrittura, nelle sue definizioni filosofiche e storico-culturali, rimane fondamentale il riferimento a C. Sini, Etica della scrittura, Il Saggiatore, Milano 1992.

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TERZA PARTE

CAPITOLO V

La fortuna di Vico tra gnoseologia e filosofia.

Croce e Gentile interpreti del De antiquissima italorum

sapientiae

5.1. Premessa

A rileggere oggi le pagine dei saggi di Croce e Gentile su Vico, non si può nascondere una certa difficoltà a indicare quali aspetti di questa analisi possano consentire un ritorno più coscienzioso e profondo ai testi vichiani. Risulta difficile capire che cosa queste due autorevoli interpretazioni possano mai aggiungere di ‘nuovo’ alla comprensione di Vico, anzitutto perché appare ormai lontana dagli sviluppi attuali degli studi vichiani l’idea che la scrittura di Vico e le sue opere siano ‘estrinseci’ quando lontani dalla loro “interna struttura logica”302; che i suoi pensieri siano addirittura eclettici o ironici quando non adeguati a un coerente sviluppo gnoseologico303. In secondo luogo, risulta difficile intendere l’attualità di

302 L’espressione si trova in G. Gentile, Studi vichiani op. cit., p. 106: «Il suo pensiero filosofico fondamentale, per motivi

estranei alla sua interna struttura logica, ci è presentato in una forma più atta a deviare l’attenzione da esso che non a fermarvela sopra e concentrarvela». E questo giudizio non può che risultare distante da Vico, se si considera la vera e propria opera di ‘restauro’ svolta nei riguardi della sua scrittura, riabilitata a seguito dell’operazione di normalizzazione ‘manzoniana’ delle edizioni Nicolini. La prova di questa inversione di tendenza è testimoniata anzitutto dalle edizioni critiche delle due ‘Scienze nuove’ del 1730 e del 1744, che hanno contribuito a una netta inversione di tendenza e valorizzazione della scrittura ‘iconografica’ di Vico: G.B. Vico, La Scienza Nuova 1730, a cura di P. Cristofolini e con la collaborazione di M. Sanna, Opere di Giambattista Vico VIII, Guida, Napoli 2004 ; Id., La Scienza Nuova 1744, a cura di P. Cristofolini e M. Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013. Si veda inoltre: Id., Giambattista Vico, a cura di M. Sanna e F. Tessitore, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000; Id., La Scienza Nuova nelle tre edizioni del 1725, 1730

e 1744, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012. A questo ampio insieme di riferimenti mi sembra possa

anche essere da sostegno l’ipotesi che ho cercato di articolare nelle due precedenti parti del presente lavoro, per cui l’attività di scrittura per Vico rappresenta, sin dal periodo giovanile delle Orazioni, una costante preoccupazione teorica in vista della costruzione del sapere.

303 È quanto, per esempio, si legge in B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., p. 22: «A chi legge queste e altrettanti

descrizioni e celebrazioni vichiane del procedere matematico, par d’avvertire come un’ombra d’ironia, se non proprio internazionale, certamente risultate dalle cose stesse». Si aggiunga poi come lo stesso Croce non abbia mancato di attribuire a Vico la mancata chiarezza circa i suoi ordini di idee: ivi, p. 45: «L’oscurità, la vera oscurità, quella che si avverte nel Vico, e che a volte avvertiva egli stesso senza riuscir mai a trovarne la causa, non è superficiale e non nasce da cagioni estrinseche o

questi giudizi perché su di essi sembra ripresentarsi inalterato un rigido schematismo – sia esso rappresentato dal ricorso agli spaventiani ‘precorrimenti’ o dall’urgenza di un ‘sistema’ dell’estetica – dove solo l’idealismo sembra consentire di ricondurre Vico a se stesso e alla sua più intima comprensione.

Eppure, se il lettore si fermasse qui, agli aspetti teorici che in fondo sia Gentile che Croce pur condividevano con la cultura del suo tempo304, si commetterebbe il grosso errore di non intendere a quale punto sia giunta la consapevolezza storiografica in materia di vichismo idealistico, dimenticando peraltro che su entrambi questi aspetti la storiografia si è già ampiamente espressa, segnalando valore e limiti di tali interpretazioni305.

accidentali, ma consiste veramente in oscurità d’idee, nella deficiente intelligenza di certi nessi e nella sostituzione di nessi fallaci, nell’elemento arbitrario che per ciò s’introduce nel pensiero, o, per dirla nel modo più semplice, in veri e prorpi errori».

304 Per le notizie circa l’avvicinamento di Gentile agli studi su Vico e il rapporto di questi con le idee di Croce si veda: A.

Savorelli, Alle origini degli Studi vichiani, in Id., L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Le Lettere, Firenze, 2003, pp. 221-254, in partcolare p. 234 dove la differenza rispetto a Croce inizia a essere segnata sulla base della maggiore attenzione che Gentile dedicata al Vico delle Orazioni inaugurali: «Detto ciò, è difficile sostenere che il corso di Tocco non abbia lasciato qualche traccia nel maturo Gentile degli Studi vichiani. È da Tocco che Gentile ha ricevuto il primo impulso ad indagare su quel ‘Vico giovane’ che appare quasi esclusivamente al centro dei suoi lavori storiografici, con le novità e insieme i limiti che questa scelta comporta». Su tali vicende della lettura gentiliana di Vico, ritengo opportuno rimandare all’importanza attribuita agli epistolari e carteggi di Gentile sottolineata da F. Tessitore, Gentile e Vico nel “Manuale”

del D’Ancona, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», V, 1975, pp. 130-142. Da un punto di vista storico-culturale, poi,

non va dimenticato che l’insistenza di Croce per una lettura ‘idealistica’ era motivata dalla volontà di non compromettere il senso autentico dell’idealismo con una sua lettura deteriore, quale quella che emergedalle pagine della rivista «Leonardo» diretta da Prezzolini e Papini. Un accenno significativo a questa polemica è contenuto nella recensione che Croce dedica alla rivista: B. Croce, [Recensione a:] Leonardo; pubblicazione periodica, «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 1 1903, pp. 287-291, in particolare p. 289 dove Croce fa riferimento proprio a Vico per spiegare il senso del vero ‘idealismo’. Su questo atteggiamento di Croce si veda il giudizio di E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari 1959,