• Non ci sono risultati.

L’orazione De nostris temporis studiorum ratione è l’opera tra le più significative della fase giovanile di Vico. In essa troviamo testimonianza di una svolta decisiva rispetto alle orazioni che iniziano nel 1699 e, più in generale, la nascita di una profonda coscienza filosofica che in questa prolusione prende forma e che rimane invariata nelle future opere. Anche a più di un ventennio di distanza, quando con la già avvenuta pubblicazione della prima Scienza Nuova Vico ha ormai maturato l’idea della Storia Ideal Eterna159, si osservano ripresentarsi, almeno negli interessi di fondo, temi e problemi per primi riferiti nell’orazione del 1709. Ed è questo il caso non solo delle Epistole160, ma anche della più tarda orazione intitolata De mente heroica,

159 Si tenga presente a riguardo la definizione della Storia Ideal Eterna contenuta nella prima Scienza Nuova risalente al 1725 e

poi al 1730: G.B. Vico, La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, p. 103 e p. 491. La definizione si ripete anche se la riscrittura pressoché completa dell’opera nella seconda edizione comporta l’introduzione di nuovi elementi testuali e iconografici che hanno tutto un loro significato teorico. A tempo debito, mi propongo di analizzare lo sviluppo delle cosiddette “Scienze Nuove”. Per il momento è sufficiente aver ricordato a quale novità filosofica approda Vico nelle opere della maturità.

160 Faccio riferimento all’edizione G.B. Vico, Epistole. Con aggiunte le epistole dei suoi corrispondenti, a cura di M. Sanna, Opere di

Giambattista Vico, XI, Morano, Napoli 1992. Un dato rimane, infatti, ineludibile in queste testimonianze, come ha scritto M.

Sanna, Le epistole vichiane e la nascita dell’idea di scienza nuova, «Bollettino del centro di studi vichiani», XXIV-XXV, Napoli 1994, pp. 119-129, in particolare p. 120: «l’epistolario conferma l’opinione del Nicolini fondata sul fatto che “per nessuno altro periodo della vita mentale del Vico si trova di fronte tanta penuria di documenti” come per gli anni che vanno dal 1713 al 1720. Ci sentiamo di condividere questa opinione corroborati anche dal fatto che tutte le lettere vichiane di un certo spessore filosofico siano tutte state scritte dopo il 1725; è, infatti, a partire dall’epistola spedita da Vico a Gherardo degli Angioli che il tono contenutistico delle sue missive muta, quasi a dimostrazione della compiutezza di un sistema filosofico ancora immaturo negli anni precedenti. Il termine “scienza nuova” compare solo a partire dal 1729 nella lettera all’avvocato Estevan e giammai si parla di “arte critica” […] il corpus complessivo delle epistole sollecita a dividere tre gruppi esemplari e significativi che rappresentino il confluire di omogenee sezioni di argomenti, e cioè le lettere di commento alla pubblicazione della Sinopsi e quelle seguenti all’uscita del De constantia e del De Uno (1720-1723), le epistole depositarie del progetto di una nuova scienza (1724-1725) ed infine, di non minore importanza, le missive accompagnatorie dell’invio degli esemplari a mostrare a loro commento (1725-1730), dedicate anche e soprattutto ad affrontare il problema della ristampa dell’opera». S’intende quindi il valore delle Epistole per la ricostruzione ad ampio raggio del pensiero vichiano, che credo possano anche illuminare in retrospettiva alcuni aspetti centrali dell’orazione del 1709. In particolare, nel corso del presente capitolo, l’analisi della lettera al Padre de Vitry credo sia fondamentale per intendere quale preoccupazione anima

dove si riscontra una sorprendente continuità teorica con il De ratione: «Aliquid est a vobis expectandum longe praestantius. Sed quid isthuc? – mirabundum aliquis vestrum inquiet: – a nobis huamna conditione maiora petis? – Isthuc numero ipsum, sed ita maiora ut sint tamen vestrae naturae convenentia. A vobis, inquam, expectandum ut literarum studiis operam detis, qua vestram mentem explicetis heroicam et sapientiam ad generis humani felicitatem instituatis»161. La continuità sta tanto nella forma del componimento, quanto soprattutto nel suo contenuto programmatico: Vico invita gli studenti a dedicarsi verso ciò che è maggiore (maiora) e tuttavia conveniente alla loro natura umana (tamen vestrae naturae convenentia). L’esortazione a coltivare il carattere eroico della mentem e le conoscenze che sono in potere dell’uomo è una chiara riproposizione della convergenza (la convenentia per l’appunto) teorizzata nel De ratione tra il demonstrare e il facere162.

Alzando lo sguardo da questa breve panoramica testuale, per riferire della fortuna dell’orazione vichiana del 1709, non sorprende d’altra parte osservare come, vastissima, la bibliografia informi di una miriade di studi critici che da qui prendono le mosse e che si sviluppano in percorsi disparati: dalla gnoseologia alla retorica, dall’ermeneutica, alle indagini più strettamente storico-filosofiche sul contesto culturale163.

l’articolazione del problema teorico del De ratione. Sulla lettera all’avvocato Estevan tornerò, invece, in seguito con il tentativo di mostrare come anche per il Vico della maturità rimanga forte l’idea dell’eloquenza quale forma di sapere.

161 Per il De mente heroica faccio riferimento all’edizione: G.B. Vico, Varia. Il De mente heroica e gli scritti latini minori, a cura di G.

G. Visconti, Opere di Giambattista Vico XII, Il Mulino, Napoli 1996, p. 140.

162 Per il passo del De ratione si veda: G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 116 nei passaggi in cui Vico parla del rapporto tra

geometria e fisica. Da un punto di vista storiografico, è stato Biagio de Giovanni a insistere sulla connessione tra De ratione e

De mente heroica: si veda, per esempio, B. de Giovanni, Il «De nostri temporis», op. cit., p. 164. A fronte di questa ipotesi credo

però opportuno sottolineare che il raffronto tra queste due lontane orazioni non sia soltanto rivelatore del riprensentarsi della questione della mens e della ratio studiorum. Proprio nel passo sopra citato, infatti, si osserva come in corrispondenza con questo primo nesso, ci sia anche l’esplicito riferimento agli studia literaria. Come cercherò di mostrare nelle pagine che seguono questo tema nel De ratione viene totalmente ripensato rispetto al modo in cui era stato affrontato nelle Orazioni

inaugurali, e si appresta a diventare un argomento centrale per intendere la rinnovata centralità dell’oratoria e delle cosiddette

discipline “acroamatiche”.

163 Il punto di inizio di queste ricerche, che si sono sviluppate in ambito nazionale e internazionale, è rintracciabile, almeno

in linea di principio, nelle coordinate storiografiche che sono state indicate da P. Piovani, Per gli studi vichiani, in AA.VV.,

Studi in onore di Antonio Corsano, Laicata Editore, Lecce 1970, pp. 605-628, in particolare p. 661. Nel saggio – poi pubblicato

l’anno successivo nel primo numero del «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» – Piovani sostiene che la svolta metodologica è databile a partire dal 1947, nell’anno in cui venivano pubblicati i capitoli vichiani della Storia dei generi letterari di Garin e l’Introduzione allo studio di G.B. Vico di Franco Amerio: «Davvero, a mettere una accanto all’altra, esclusivamente per ragioni di cronaca e di cronologia, la menzionata opera di E. Garin e la menzionata opera di F. Amerio, viene fatto di segnalare il 1947 come la data più idonea a registrare il passaggio da un atteggiamento metodologico a un altro, negli studi vichiani». Già a questa altezza, s’intende bene come per Piovani lo studio delle opere vichiane rimandi al problema di stabilire una nuova metodologia di studio. E questo fatto conviene segnalare, perché indica come negli studi vichiani l’esercizio filologico iniziasse ad essere inteso non più soltanto come mera erudizione, ma con un preciso valore teorico. Mi pare di poter trovare conferma di tale orientamento nel giudizio di favore che, nelle stesse pagine del saggio, Piovani rivolge

77 Il De ratione è così diventato punto di passaggio obbligato per tutte quelle esperienze di studio che passano attraverso veri e propri itinerari di pensiero e che finiscono per attribuire a Vico posizioni precise nel quadro della filosofia moderna e contemporanea. Questo dato, piuttosto che semplificare, registra subito una difficoltà preliminare per l’indagine che mi appresto qui ad avviare: perché certo sarebbe inessenziale pensare di poter fare i conti con queste letture in sede introduttiva, ignorando che esse presuppongono in realtà un elaborato e determinato accesso al testo. Da dove iniziare dunque?

Se un ingresso elaborato al testo rende più ardua una lettura a ‘campo aperto’ dell’orazione svincolata, almeno in linea preliminare, da presupposti che costringono i testi dell’Autore in determinate istanze teoriche, è opportuno allora adottare in sede preliminare un profilo più modesto, ma non meno efficace, nell’intento di segnalare dei primi punti teorici, che siano la base per uno sviluppo critico più ampio e, si spera, profondo dell’opera vichiana.

Da questo punto di vista, i primi due capitoli del presente lavoro sono stati istruttivi per comprendere quali conseguenze si celano dietro il legame ‘necessario’ dei testi dell’Autore con i successivi sviluppi del suo pensiero. La disamina critica delle letture speculative di Donati e Gentile ha rivelato come lo storicismo idealistico, applicato alla lettura della VI Orazione, abbia impedito un’adeguata valutazione teorica dell’importanza che Vico attribuisce agli studia literaria. In particolare, soprattutto nel caso di Gentile, si è osservato come, rinchiusa nelle maglie della logica dell’astratto, la considerazione delle discipline di studio abbia comportato una sottovalutazione, anche culturale164, della riflessione vichiana

alla figura di Fausto Nicolini: ivi, p. 366: «si potrebbe dire che l’erudizione di Nicolini implica, senza volerlo, la smentita di quanto è tenacemente di Spaventa nelle proposte critiche della storiografia idealistica: se guardato biograficamente nel tempo suo, se studiato in sé e per sé, nei suoi testi e nei suoi propositi, se osservato in relazione col retroterra culturale e politico cui appartiene, Vico cessa di essere l’ottocentista anticipato e l’antisettecentista incontaminato che una linea esegetica ha voluto». Se ragionata l’erudizione storica di Nicolini può, dunque, fornire una visione complessiva del pensiero vichiano, addirittura diversa dall’idea crociano-gentiliana di un Vico ‘precursore’ della filosofia idealistica. Stesso giudizio si trova anche in: Id., Elogio di Nicolini, Morano, Napoli 1967, p. 74: «Come negare, per esempio, a proposito dello storicismo vichiano, che la prima erosione della tesi crociana di un Vico pre-romantico, estraneo e avverso al secolo suo, abbia le proprie radici involontarie nella penetrazione con cui Nicolini ha dettagliatamente descritto, in Napoli e nei rapporti con Napoli, il mondo in cui Vico visse e i fermenti culturali presenti in quel mondo?».

164 Da un punto di vista storiografico, non è un caso, infatti, che negli studi vichiani l’attenzione al tema del linguaggio sia

alquanto tarda rispetto ai primi significativi studi sul periodo giovanile di matrice idealistica. A segnare un’inversione di tendenza rispetto a questi risutlati sono i contribuiti di Antonino Pagliaro e Tullio De Mauro. A. Pagliaro, La dottrina

linguistica di G.B. Vico, «Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei», VIII, Roma 1959, pp. 379-486; saggio poi ristampato con

modifiche soprattutto relative alla sezione sulla “Discoverta del vero Omero” e dal titolo Id., Lingua e poesia secondo G.B. Vico, in Id., Altri saggi di critica semantica, G. D’anna, Messina-Firenze 1961, pp. 299-444; si veda anche T. De Mauro, Giambattista

Vico dalla retorica allo storicismo linguistico, «La Cultura», VI, 1968, pp. 167-183. È opportuno anche ricordare che lo sviluppo di

queste tesi nasce da un’esplicita critica all’idea di linguaggio sostenuta da Croce. Per un accenno critico alle posizioni di Croce si veda: T. De Mauro, Origine e sviluppo della linguistica crociana, «Giornale critico della filosofia italiana», XX, 1954, pp.

sul linguaggio, di cui invece nell’orazione del 1707 già si iniziano intravedere delle prime e significative tracce165.

Sulla base di questo orientamento, che ha condotto a una pressoché totale rivalutazione del ruolo della VI Orazione nel quadro generale delle prime prolusioni vichiane, è bene iniziare l’analisi del De ratione a partire dalle vicende che hanno spinto Vico alla composizione dell’opera.

L’analisi di alcune testimonianze tratte dalla Vita e dall’Epistolario consente di comprendere come l’importanza che Vico attribuisce all’orazione del 1709 sia dovuta a un duplice approfondimento teorico, riguardante sia la questione del sapere che la connessa utilità delle discipline letterarie. Il raffronto di tale rinnovata riflessione con il precedente insieme di prolusioni relative agli anni che vanno dal 1699 al 1707 è utile, ma di per sé non basta a cogliere la profondità filosofica a cui Vico perviene negli anni di poco successivi alle Orazioni

inaugurali.

Se, infatti, resta invariato il compito pedagogico che l’opera si propone di affrontare166, cambia completamente il modo in cui tale indirizzo viene perseguito. La riflessione sulla ratio

studiorum e la critica a quelle forme di sapere che astraggono dalla molteplicità

dell’espressione umana assume i connotati di un problema logico. Vico, cioè, si impegna a

376-391 e Id., Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1970, pp. 103-126. L’approfondimento della posizione crociana richiede, però, una trattazione a parte, dove spiegare la costituzione e le aporie inerenti al nesso tra espressione estetica e linguistica. Mi propongo di affrontare in seguito questo tema, la cui analisi dettagliata credo possa anche fornire una periodizzazione più ampia rispetto a quella qui indicata. In particolare, oltre ai sopramenzionati contributi di De Mauro e Pagliato, andrebbe infatti annoverato anche il nome di Antonio Corsano che, addirittura in anni precedenti (precisamente nel 1954), andava sviluppando posizioni simili in un’ottica totalmente critica nei riguardi dell’Estetica crociana.

165 In termini di linguaggio, infatti, va considerata la definizione vichiana delle discipline “acroamatiche” nella VI Orazione,

se è vero che, come si è cercato di dire in precedenza, esse alludono all’orientamento “vocale” o auditivo delle materie di studio. A sua volta questa definizione rimanda all’eloquentia, ovvero alla facoltà naturale dell’uomo che è corrispettiva a questa idea. A riguardo si si veda: G.B. Vico, Le orazioni inaugurali, op. cit., p. 194, dove il linguaggio viene definito come del

digne loqui, ovvero il “parlare in modo ornato”.

166 In linea preliminare l’istanza pedagogica si evince anche dal sottotitolo dell’opera: G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 88:

«Dissertatio in regia regni neapolitani academia XV kal. Nov. Anno MDCCVIII ad literarum studiosam iuventutem solenniter habita deinde aucta». Esplicito il richiamo ai giovani e agli studi letterari, ma non va dimenticato che la storia del manoscritto vichiano è più complicata di quanto sembri. Accanto, infatti, all’edizione di riferimento, probabilmente mandata alle stampe da Vico presso l’editore Felice Mosca tra il marzo e l’aprile del 1709, Fausto Nicolini ha segnalato la presenza di un altro codice conservato presso la biblioteca di Napoli. Si tratta di documento contenente le Orazioni inaugurali e lo stesso De ratione che però presenta emendazioni più tarde – secondo Nicolini risalenti all’aprile-maggio 1709 e i primi mesi del 1710 – e un titolo affatto diverso, di gran lunga più vicino alla VI Orazione. Per le informazioni qui riassunte si veda: B. Croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, vol. I, Ricciardi, Napoli 1947, pp. 10-14. E qui interessa richiamare queste notizie, perché esse testimoniano il travaglio intellettuale che ha accompagnato la pubblicazione del De nostri temporis studiorum ratione, l’oscillazione di quest’opera tra la novità che esso rappresenta e il percorso fino a quel momento tracciato da Vico nelle precedenti Orazioni inaugurali.

79 dimostrare la possibilità di un ordo che sia in grado di rendere intellegibili tutti quegli elementi fantasiosi e corporali (i verosimilia o le cosiddette vera secunda), che contraddistinguono la natura imperfetta dell’uomo. Curioso è il fatto che, preparandosi a ingaggiare questa battaglia contro il primato della “chiarezza e distinzione” cartesiana, il filosofo napoletano non rinunci a pensare alla sua opera quale libro che sia in grado di incidere sulle sorti dell’Europa e sulle vicende politiche della Napoli del suo tempo. La tendenza a considerare i pensieri espressi nell’operetta del 1709 come espressione dell’oggetto “libro” o a esporre il sistema moderno del sapere adottando la figura della “libreria” non sembrano poter essere relegati a un mero esercizio stilistico. Piuttosto, un tale argomentare è il segno di un invariato interesse per gli

studia literaria, che nel De ratione ritorna con prepotenza, al punto da diventare elemento

costitutivo della definizione programmatica dell’opera.

Le materiae studiorum – scrive esplicitamente Vico – sono distinte, ma pur sempre parte integrante della discussione sulla ratio. E questo pensiero, che aiuta ad osservare il ruolo centrale assunto dalla disciplina oratoria per il primato della Topica, suggerisce anche che il problema del metodo, per essere risolto, deve essere assistito da un’istanza pratica. Una volta stabilito che la critica al metodo cartesiano è più propriamente intesa come una “critica della Critica” (o meglio: contestazione dell’istanza analitica di questo metodo) e che questo atteggiamento non indica, pertanto, l’abbandono dell’ordine, quanto piuttosto la sua ricostruzione a partire dalle inclinazioni della natura umana; una volta inteso, poi, che il primato della Topica non significa un’opposizione esteriore al percorso della scientia o peggio un abbandono dell’ambizione di fondare l’unità del sapere umano e divino.

Nel momento in cui tutto questo è stato chiarito e adeguatamente compreso con opportune analisi testuali, che cosa garantisce che questo risultato non sia ancora un’astrazione analitica del pensiero? Che cosa garantisce, cioè, che tutto questo ragionare sulla forma concreta del sapere sia il sapere concreto stesso? Perché questo ragionare e il De ratione in quanto tale, come opera pensata per essere utile alla “Repubblica delle Lettere”, non corrisponde a quella

ars divinandi che Vico vede realizzarsi nelle velleità dell’analisi?167

La presenza delle materie di studio nel contesto di discussione sulla ratio allude proprio al tentativo di rimediare a questo possibile equivoco, che Vico si propone di arginare con una profonda riflessione sulla ‘scrittura’168.

In due luoghi testuali diversi, dapprima nei riguardi dell’oratoria come arte di trovare “i

167 Questa particolare accezione dell’analisi come ars divinandi o machinam si trova in G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 124. 168 Nel corso di questo capitolo e nel prossimo, cercherò di mostrare come la definizione che Vico assegna all’attività di

scrittura non sia assimilabile né all’idea sviluppatasi nel dibattito angloamericano della cultural history da autori come Walter J. Ong; né alle prospettive teoriche della New rhetoric proposte dalla riflessione di Chaïm Perelman.

luoghi degli argomenti” (argomentorum loci), in seguito nei riguardi della geometria, liberata dal dominio dell’analisi169, la scrittura si configura come struttura di un ordine fondato sui suoi elementi interni.

La centralità di questo aspetto sembra così costituire una delle novità fondamentali a cui Vico approda nel De ratione: «la nuova scoperta ed utile al mondo delle lettere»170 che sembra ancora meglio chiarire attraverso quale istanza teorica il filosofo napoletano giunge alla nota elaborazione del verum-factum e alla germinale articolazione del problema di una Storia Ideal eterna. Che cosa la definizione di ‘scrittura’ abbia in comune con questi problemi sarà opportuno riferire a tempo debito. Per adesso conviene non anticipare troppo gli elementi di un discorso ormai prossimo a iniziare.

3.2 La ragione di un’urgenza. La pubblicazione del De nostri temporis