Nel brano del Capitolo III in cui Vico rivendica il primato della Topica sulla Critica, si assiste all’introduzione di due elementi, l’oratoria e la scrittura che, come già visto, hanno una forte attinenza con la questione della ratio. La presenza delle materiae studiorum nell’ambito della discussione sul metodo giustifica l’importanza attribuita alla disciplina oratoria, che Vico si impegna ad esaminare sia per quel che riguarda la definizione, sia nel ruolo generale che essa
250 Nell’ambito degli studi vichiani non sono molti gli studiosi che hanno insistito sulla rilevanza della riflessione sulla
‘scrittura’ nell’opera di Vico. Due autori, però, fanno particolare eccezione rispetto a questo vero e proprio ‘vuoto’ di ricerca. Ad insistere sul ruolo della scrittura e sull’incidenza di questo aspetto per la costruzione vichiana della Logica Poetica è stato J. Trabant, La scienza, op. cit., pp. 43-44, dove l’autore osserva che il significato della parola caratteri, di cui Vico fa largo uso nelle diverse redazioni della Scienza Nuova, ha un legame diretto con l’attività di scrittura: «il verbo
charássein, che è alla base dell’espressione “carattere”, come i verbi latini e greci in uso per “scrivere”, scribere e gráphein, indica
l’incidere che diviene azione dello scrivere. I “caratteri” sono anche segni della scrittura, lettere, grámmata. Questo nesso diviene particolarmente chiaro nel passo già citato della prima Scienza Nuova in cui Vico introduce i caratteri poetici, inserendoli in una serie insieme ad altri “caratteri”, ossi altri elementi grafici, originarie forme grafiche, cioè insieme alle lettere, ai caratteri della grammatica e ai caratteri disegnati della geometria». Tale prospettiva di lettura, incentrata sullo studio dell’origine del linguaggio, ha trovato ampissima trattazione nei lavori di Vincenzo Vitiello. A riguardo, infatti, si veda: V. Vitiello, Vico nel suo tempo, G.B. Vico, La scienza nuova, op. cit., p. CL, dove l’autore spiega cosa si deve intendere quando si parla della lingua dei primi uomini: «I “geroglifici” di cui qui ci parla Vico, sono gli “atti o corpi”, “co’ quali si truovano aver
parlato tutte le Nazioni nella loro prima barbarie” (SN44, degnità LVII, p. 875). Facciamo attenzione: Vico qui dice che con
questi atti o corpi, e cioè con questa scrittura del corpo, hanno “parlato” le nazioni nella loro prima barbarie. Parlato – dice. E va preso alla lettera. I geroglifici sono “voci monosillabiche”. Non solo scrittura, né solo suono, ma insieme suono e scrittura,
scrittura e suono». Tale nesso, che per Vitiello costituisce la novità della riflessione di Vico sul linguaggio nella maturità, è di
particolare importanza per l’ipotesi di ricerca che sto cercando di sviluppare. Nel periodo giovanile, oratoria e scrittura rappresentano, infatti, un’anticipazione di questo nesso, che ha tutta una sua storia nel passaggio dalla VI Orazione al De
ratione. Con un elemento di distinzione importante, però, giacché tra il 1707 e il 1709 il carattere ‘vocale’ dell’oratoria
interessa un recupero dell’eloquentia che è tutto interno a una forma di umanesimo ciceroniano, del tutto rivista nelle tarde redazioni della Scienza Nuova. In linea generale, tale prospettiva esaurisce solo una delle possibili direzioni di ricerca sviluppate da Vitiello: si veda, per esempio, Id., Parlare scrivendo-cantando. Con Vico, alle origini del linguaggio, «Annuario filosofico», 18, 2002, pp. 89-102 sul rapporto di queste riflessioni vichiane con Nietzsche, già in precedenza affrontate in Id., La favola di Cadmo, op. cit., pp. 43-48 ; oppure i saggi raccolti nel volume Id., Vico. Storia, linguaggio, natura, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, pp. 57-75 in particolare per le questioni qui esposte.
119 viene ad assumere nella critica al metodo analitico.
Conviene tener presente questo duplice versante d’analisi che fa da contrappunto alla disamina della scrittura, l’altra attività connessa a questa prima disciplina. Nelle pagine del Capitolo III, infatti, si evince soltanto la definizione di questa attività come capacità di «percorrere gli elementi di scrittura», ma nulla di più viene detto relativamente al ruolo che essa viene a svolgere nei riguardi della Topica e della Critica.
In vista di un adeguato approfondimento, cerco quindi di procedere per via indiziaria, soffermandomi anzitutto sull’ampia attenzione che Vico dedica alla disciplina oratoria. L’impressione è che, analizzando la sua collocazione privilegiata nel quadro del discorso vichiano, si possa sciogliere l’enigma che avvolge la scrittura e la sua inattesa presenza nella questione del metodo del sapere.
Dell’oratoria si è osservata questa prima definizione: abilità di coloro che «conoscono tutti i luoghi degli argomenti» (norint omnes argumentorum locos). L’annotazione vichiana risulta puntuale, anzitutto per il fatto di specificare il modo in cui si articola quella priorità naturale (prior natura) della argumentorum inventio sul giudizio di verità (veritate diiucidatio), che è posta alla base del sapere topico. Una volta che l’oratoria viene messa in relazione al tentativo di rivendicare il primato della Topica sulla Critica, ecco che si comprende anche perché a questa disciplina venga riconosciuta quella rara virtù, detta “piena”, capace di non lasciare nulla fuori di sé. Scrive, infatti Vico: «illa summa et rara orationis virtus existit, qua “plena” dicitur, quae nihil intactum, nihil non in medium adductum, nihil auditoribus desiderandum relinquit»251. L’oratoria non lascia nulla di intentato ed è in grado di arrivare laddove la Critica fallisce. La sua definizione come capacità di “conoscere i luoghi degli argomenti” indica chiaramente che essa è in grado di scardinare il meccanismo della Critica a partire dai contenuti, dai “luoghi degli argomenti” che il metodo critico non è in grado di ‘vedere’. Ma oltre a questa prima specificità della disciplina oratoria di non lasciare «nulla che non sia aggiunto nel medio» (nihil non in medium adductum), Vico non manca anche di dire che essa consiste nel «non lasciare nulla che sia desiderato dagli uditori» (nihil auditoribus desiderandum). Proprio la comparsa di questo termine è indicativo del ruolo che l’oratoria viene a svolgere. Essa, cioè, appare anzitutto come risultato di una decisiva “trasformazione” rispetto alla direzione moderna degli studi252. È sulla base di questa operazione d’inattualità, si è tentati di
251 G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 106.
252 Indicativo di questa prospettiva quanto scritto da Battistini in ivi, p. 1332 (p. 108 nota 2): «Vico restituisce alla retorica il
carattere di oralità posseduto in età classica, prima che essa subisse, per cause soprattutto politiche, il processo di “letteraturizzazione” tipico dell’età moderna e quindi anche del Sei-Settecento». Il riferimento al termine “letteraturizzazione” è un rimando esplicito al contributo di V. Florescu, La retorica nel suo sviluppo storico, Il Mulino 1971, p. 107, dove lo studioso traccia un’interessante ricostruzione storica della retorica e del modo in cui la sua funzione cambia
dire, che Vico associa l’oratoria all’uditorio e al carattere essenzialmente vocale che è alla base di questo rapporto. Sempre nel Capitolo III si legge che «tota eloquentiae res nobis cum auditoribus est, et pro eorum opinionibus nos nostrae orationi moderari debemus»253 e questa affermazione, oltre che confermare la scelta vichiana di riproporre il modello classico dell’oratoria, aiuta a intendere in modo più preciso come tale disciplina fornisca un rimedio agli svantaggi del metodo analitico.
L’importanza dell’uditorio, continua Vico, sta nel fatto che esso costringe l’oratore ad adattare le sue opinioni a vantaggio delle opinioni altrui. E tale attività funge da premessa a uno sviluppo ulteriore, perché, una volta detto che l’oratore deve disporre le proprie
nella modernità. Con il termine “letteraturizzazione”, Florescu intende rinvenire il fenomeno di decadimento che la disciplina retorica subisce nella modernità: «la retorica si riduce ad una tecnica del linguaggio elegante, non necessariamente convincente, perché la persuasione perde ogni importanza. Ma l’eleganza ricercata della comunicazione può intralciare il processo di chiarificazione e distinzione delle nozioni: la retorica dunque non soltanto risulta inutile ma anche nociva». Ricostruzione storica questa, che ha come compito fondamentale quella rivalutazione ‘teorica’ della topica e della retorica, iniziata nella metà degli anni Cinquanta dalla New Rhetoric e dalla figura di Chaïm Perelman. A questo ambito di studi mi propongo di dedicare un’attenzione specifica, soprattutto per quel che riguarda l’intreccio tra retorica e logica. Per rimanere, invece, nel contesto storico della trasformazione della retorica, degna di nota è la disamina critica compiuta da D.L. Marshall, Vico and, op. cit., pp. 68-102, in particolare p. 84: «The Neapolitan is, this, able to locale innovation in reception. But he locates innovation not only in figures, but also in the nodes of divergent opinion that accrete around contentious issues- loci. We turn now to his appropriation of classical topics. Here, too, his enphasis is on activity: Auditors do not passively receive metaphor, they construe metaphor; likewise, inquiry does not simply receive experience, it experiments with it. In his reinvention, the ars topica is inquiry driven by tactics oriented toward contention. In place of the forum – where orator and auditor may meet – Vico substitutes the topos as a “virtual” ground ofencounter, where arguments and not individiduals confront ne another. Impersonal in its orientation, the Vichian ars topica is a very precise instance of his general sublimation of rhetoric». In questo passaggio testuale, riferito nello specifico all’importanza retorica delle Institutiones
oratories, si possono ricavare le due principali tesi sostenute nel libro: la prima è l’idea che la rivalutazione dell’oratoria si basa
sul rapporto tra loci, uditore e oratore, in una relazione che è “virtuale” e “impersonale”, perché basata su argomenti e non più individui singoli. La seconda, invece, riguarda l’impostazione generale della ricerca, basata sull’idea che Vico ha la capacità di far rivivere la retorica in un contesto nel quale essa non è più possibile. Da questo punto di vista, Marshall specifica che è il cambiamento delle condizioni storico-politiche a determinare l’impossibilità per gli individui di confrontarsi nella polis. Una tale idea, che non è priva di una precisa direzione storiografica (si veda ivi, p. 9), si basa sull’idea di sostenere «the evolutionary nature of rhetorical inquiry, which responds to the historically particular conditions of living in society with others» (ivi, p. 20). Cercherò di dire altrove sull’istanza politica contenuta in questa lettura, ma per il momento sia sufficiente aver chiarito come, per Vico, il ruolo dell’oratoria e la definizione che si ritrova nel De ratione dipendano dalla sua precisa “trasformazione”. L’uso di questo termine, nella sua funzione euristica, non è però nuovo. Se ne può trovare un significativo utilizzo anche nella lettura sematologica di J. Trabant, La Scienza, op. cit., p. 36, nota 84.
253 G.B. Vico, De nostri, op. cit., p. 108. L’attinenza di questa discussione vichiana sulla rivalutazione dell’oratoria con la
prospettiva teorica di Perelman trova un riscontro anche da un punto di vista strettamente testuale. A riguardo, si veda: C. Perelman-L. O. Tyteca, Trattato sull’argomentazione, tr. it. di C. Schick e di M. Mayer con la collaborazione di E. Barassi, Einaudi, Torino 1966, p. 26, dove è interessante rilevare come proprio questa citazione vichiana del De ratione sia posta in esergo al paragrafo dedicato al rapporto tra ‘oratore’ e ‘uditore’. Questo primo riferimento consente di segnalare un primo punto di interesse per l’analisi critica della proposta di Perelman, al fine di verificare se il progetto filosofico vichiano proceda in un’effettiva continuità con il modo in cui il filosofo polacco espone il nesso della retorica con la logica.
121 opinioni in relazione a quelle degli altri, Vico stabilisce che, per completare questo compito, è necessario che egli abbia percorso tutti i luoghi degli argomenti: «ut orator omnium animos pertigisse certus sit, omnes argumentorum locos percurrisse necesse est»254. Il riferimento all’oratoria sotto il segno del certus rimanda subito l’attenzione al difetto principale della Critica, la cui efficacia viene a mancare proprio quando è necessario dare certezza all’inclusione dei contenuti della natura umana.
Non senza un deciso rigore argomentativo, dunque, Vico ritorna sulla definizione assegnata all’oratoria, al fine di darne più adeguato rilievo teorico. Lo stravolgimento della Critica dipende da un’operazione in realtà duplice: dalla capacità dell’oratoria di stabilire un sapere che stia nella costante relazione con l’altro (l’uditorio) e dalla creazione di connessioni che si costituiscano a partire dai propri elementi interni, dai locos argumentorum. Su questi due versanti si gioca l’alternativa all’impianto ‘logico’ della Critica.
Il progetto vichiano del De ratione, pedagogico e filosofico insieme, si basa sul tentativo di costituire una forma di sapere che non tradisca l’imperfezione della natura umana. Ed è proprio sulla base di questa direzione assunta dall’opera vichiana del 1709 che Chaïm Perelman ha interpretato la rivalutazione dell’oratoria come la riabilitazione di un punto di vista teorico, che abbia come principale interesse quello di stabilire un accordo tra retorica e logica255.
254 Ibidem.
255 Tale questione, che attraversa il campo della filosofia per estendersi agli ambiti di sociologia e giurisprudenza, si basa
sull’assunto generale che la filosofia moderna, con le sue linee dominanti di razionalismo ed empirismo, abbia prodotto una «limitazione indebita e del tutto ingiustificata del campo in cui interviene la nostra facoltà di ragionare e di provare»: C. Perelman-L. O. Tyteca, Trattato, op. cit., p. 5. In quest’ottica, a essere messo sotto accusa è il metodo cartesiano, cui fa da contrappunto la rivendicazione del sapere verosimile che è alla base della rivalutazione teorica della retorica. Si veda a riguardo quanto detto da V. Florescu, La retorica nel, op. cit., p. 106: «La posizione assunta da Cartesio nei riguardi della retorica è inficiata da un errore pregiudiziale: la sua denuncia ha condotto alla attuale riabilitazione di questa disciplina da parte di Chaïm Perelman e della sua scuola, come vedremo. L’errore consiste nell’aver limitato l’efficacia della ragione umana al dominio dell’evidenza. Ignorando volutamente tutto ciò che supera i limiti dell’evidenza, Cartesio abbandona al caso e all’irrazionale un vastissimo territorio». Con l’ausilio di queste parole si vede ancora meglio, credo, lo sforzo tutto vichiano che anima la riflessione di Perelman. E questo vale non solo perché, come Vico, egli imputa a Cartesio di aver limitato il campo dell’espressione umana. Più nello specifico, l’assonanza con quanto qui si vede nel De ratione sembra stare nella rivalutazione topica della retorica, nel tentativo cioè di mostrare che è possibile una forma di sapere basata sull’imperfezione umana. Nell’opus magnus che è dedicato a questo progetto generale, si può osservare come Perelman tenti di aprire la strada a una via del sapere verosimile. Per vedere più da vicino il modo in cui questa operazione viene messa in atto, si veda per esempi, il caso dei cosiddetti “argomenti quasi-logici”: C. Perelman-L. O. Tytetca, Trattato, op. cit., p. pp. 203-274, in particolare p. 207, dove viene dedicato un interno capitolo ai cosiddetti “argomenti quasi-logici”: «Mentre la contraddizione fra due proposizioni suppone un formalismo, o per lo meno un sistema di nozioni univoche, l’incompatibilità è sempre relativa a circostanze contingenti, siano queste costituite dalle leggi di natura, da avvenimenti particolari, o da decisioni umane». Qui è possibile vedere lo sforzo di Perelman nel mostrare come vi siano argomenti che oscillano tra la dimensione astratta del formalismo e un carattere non formale. In questo caso si osservi che l’”incompatibilità’, per quanto non sia catalogabile nel rigore delle
Si tratta di un’interpretazione complessa, che implica un vero e proprio intreccio concettuale. Da un lato, infatti, la rivendicazione della retorica si articola nell’esigenza di opporre al ragionamento analitico una funzione non ornamentale di quell’ambito di esperienza che non è riducibile alle regole formali. Dall’altro, invece, questa operazione passa attraverso il tentativo di mostrare che la retorica, nonostante la sua costitutiva probabilità, abbia una propria ‘logica’ interna, composta da strutture invariabili che ne costituiscono il valore euristico256.
Nessun dubbio sul fatto che questo pensiero incontri una qualche corrispondenza con il ragionamento vichiano del De ratione che sto qui ripercorrendo. In particolare, alcuni passaggi del Capitolo VII tornano utili per mostrare come Vico condivida con Perelman l’obiettivo di indicare il valore teorico della disciplina oratoria. E questo atteggiamento del filosofo napoletano è possibile riscontrarlo anche quando si fa più aspra la distanza tra il metodo analitico e l’incertezza della ‘prudenza’ umana257. Anche quando, cioè, sembra prevalere lo spirito di contrasto tra gli hominum facta e la recta mentis regula, si rimane sorpresi dall’osservare il rigore argomentativo con il quale Vico traccia l’inversione del sapere topico sulla Critica e procede a mostrarne la struttura operativa: «sed illa Lesbiorum flexili, quae non ad se corpora dirigit, sed se ad corpora inflectit, spectari debent. Atque adeo hoc scientia a prudentia distat, quod scientia excellunt, qui unam caussam, per quam plurima naturae effecta perducunt; prudentia vero praestant, qui unius facti quam plurimas caussas vestigant, ut quae sit vera,
regole logiche, non è per questo suscettibile di un difetto irrazionalistico. L’ipotesi che queste discussioni non siano affatto distanti da Vico trova una precisa conferma storiografica. Basta considerare la fortuna che le prospettive teoriche New
Rhetoric hanno avuto negli studi vichiani. A riguardo, si veda A. Battistini, La degnità della retorica. Studi su G.B. Vico, Pacini
editore, Pisa 1975, pp. 173-241, in particolare p. 176; A. Giuliani, La filosofia retorica di Vico e la nuova retorica, «Atti dell’accademia di scienze morali e politiche della società nazionale di scienze lettere ed arti in Napoli», LXXXV, 1974, pp. 142- 160, in particolare p. 144, per osservare, invece, come la teoria di Perelman abbia trovato il proprio campo di applicazione nell’ambito del diritto e contribuito, in misura non marginale, alla rivalutazione delle Istitutiones oratoriae.
256 Su questa istanza preliminare dell’indagine, si veda quanto detto da Perelman a proposito del metodo dell’opera e della
scelta di non analizzare il campo dell’argomentazione da un punto di vista psicologico: C. Perelman-L. O. Tytetca, Trattato, op. cit., pp. 11-12: «Poiché l’argomentazione tende, mediante il discorso, ad esercitare un’azione efficace sulle menti, la sua teoria avrebbe potuto essere considerata un ramo della psicologia. […] Ma il nostro modo di procedere sarà diverso. Noi intendiamo innanzi tutto caratterizzare le diverse strutture argomentative, la cui analisi deve precedere qualsiasi prova sperimentale di rendimento. Inoltre, noi non crediamo che con i metodi di laboratorio si possa determinare il valore delle argomentazioni utilizzate nelle scienze umane, nella filosofia, nel diritto, perché la metodologia dello psicologo costituisce già essa stessa un oggetto di controversia, e rientra pertanto nel nostro studio».
257 G.B. Vico, De nostri, op. cit., pp. 130-143, dove specificando che la prudentia nella vita civile dell’uomo si regge sulla occasio
ed electio, Vico spiega l’incompatibilità di questa prospettiva con la “rigida regola di verità”. Il nuovo riferimento a questi passaggi fa da integrazione rispetto a quanto detto nel paragrafo 6 del precedente capitolo: ovvero intende mostrare che nel
De ratiome si può riscontrare, con il problema del metodo, anche la sua più complicata collocazione nel nesso tra retorica e
123 coniiciant»258.
Per comprendere gli hominum facta, ovvero la molteplicità delle espressioni umane, è necessaria quella “misura flessibile di Lesbo” che adatta il sé ai corpi. Questa dinamica ribalta la ‘logica’ delle regole di verità, dal momento che l’oratoria e la sua tendenza a basarsi sull’uditorio mantengono un legame con la ratio. L’azione di questa disciplina, per il fatto di consistere nella connessione di tutti gli argomentorum locos, rappresenta la forma del sapere topico, ovvero la possibilità di una conoscenza fondata sulle condizioni incerte e probabili della natura umana.
Così, sembra quasi che Vico percorra la stessa strada seguita da Perelman, il quale, non a caso, in corso d’analisi assume l’idea vichiana di un adattamento dell’oratore all’uditore, al fine di ricavare i criteri oggettivi dell’argomentazione retorica. Egli considera, anzitutto, questa idea come la premessa generale necessaria alla rivalutazione della retorica e su questa base ne sviluppa l’istanza teorica259. Secondo Perelman, l’elaborazione di una norma oggettiva della retorica si ha quando avviene una connessione dell’uditorio particolare con