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L’esercizio della giurisdizione da parte della Corte Penale Internazionale

CAPITOLO TERZO

LE CONDIZIONI PER L’ESERCIZIO DELLA GIURISDIZIONE

3.1. L’esercizio della giurisdizione da parte della Corte Penale Internazionale

La Corte penale internazionale (International Criminal Court, nota con l’acronimo (ICC) costituisce un punto di arrivo ed al contempo solo una linea di partenza nella storia della giustizia penale internazionale.

Un punto di arrivo, perché ne rappresenta un obiettivo fondamentale: la creazione di una Corte permanente, competente solo per i reati “codificati” nello Statuto di Roma e negli Elements of Crimes114 e commessi dopo la sua entrata in vigore, indipendente ed in grado di superare le critiche mosse a tutte le esperienze giurisdizionali internazionali precedenti -a partire da quella dell’International Military Tribunal di fronte al quale si celebrò il processo di Norimberga- e di collocarsi, in quell’ambito, sotto diversi aspetti, come evoluzione.

Una linea di partenza, perché alle caratteristiche menzionate corrispondono solo potenzialità della Corte: infatti, essa tutt’ora presenta molti aspetti critici che debbono essere affrontati e superati per poter trasformare quelle potenzialità in strumenti di lavoro efficaci.

Si tratta, indubbiamente, del raggiungimento di una meta posta alla fine di un sentiero tortuoso, lungo il quale molte volte si è corso il rischio di doversi

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Le norme applicabili di fronte alla Corte penale internazionale sono contenute, oltre che nello Statuto, e negli Elements of Crimes, nelle Rules of Procedure and Evidence, sorta di codice di procedura penale; le Regulations of the Court regolano, invece, il funzionamento quotidiano dell’ICC.

definitivamente arrestare115. A Roma, nel 1998, alla Conferenza diplomatica -al termine della quale venne adottato lo Statuto della Corte- a cui parteciparono i rappresentanti di 148 Stati e di numerosissime organizzazioni non governative, si arrivò, infatti, con la consapevolezza che quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione per la creazione di un organismo giurisdizionale permanente dotato di competenza per i più gravi crimini internazionali116.

La Corte ha preso vita, quindi, a differenza di quanto era accaduto per i Tribunali

ad hoc, diretta emanazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,

attraverso uno strumento tradizionale di diritto internazionale, un trattato, forma che assume lo Statuto di Roma, al contempo testo normativo fondamentale con valore quasi “costituzionale” per il nuovo ordinamento117, adottato al termine della Conferenza diplomatica il 18 luglio 1998 con 120 voti a favore, 7 contrari e 21 paesi astenuti (fra i voti contrari si ricordino quelli degli USA, della Cina ed Israele)118, al quale ciascuno Stato può aderire attraverso la ratifica, trasformandosi, così, in Stato Parte ed accettando su base volontaria, senza imposizioni, salvo

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BASSIOUNI, Indagini e procedimenti penali internazionali: da Versailles a Roma, in Legislazione penale, 2002, p. 817 s.

116 Tale consapevolezza animò le trattative e, soprattutto, l’azione del gruppo di delegazioni degli

Stati definiti “Like-Minded” che aveva come scopo principale quello di rimuovere gli ostacoli alla creazione della Corte (BASSIOUNI, International Criminal Law, 3rd ed., vol. III, Martinus Nijhoff, 2008, p. 131).

Si deve rammentare, inoltre, come essa incise sul processo di negoziazione che, sia in questa fase cruciale sia in quelle successive per la redazione delle Rules of Procedure and Evidence e degli Elements of Crimes, si svolse nell’ottica del compromesso. Proprio per tale motivo, spesso, i testi normativi applicabili di fronte alla Corte penale internazionale presentano, in relazione a molti istituti, vuoti ed aspetti ambigui che debbono necessariamente, e non senza difficoltà, venir colmati o sciolti dall’interpretazione giurisprudenziale dando vita ad una “law-in-action” spesso fortemente divergente dalla “law-in-the-books”.

Per le problematiche inerenti, in questo contesto, al ruolo delle vittime, si veda infra, § 6.

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Per le problematiche inerenti al rango delle fonti normative si veda, da ultimo, G. BITTI, Article

21 of the Statute of the International Criminal Court and the Treatment of Sources of Law in the Jurisprudence of the ICC, in STAHN, SLUITER (eds.), The Emerging Practice of the International Criminal Court, Martinus Nijhoff, 2009, p. 285 s. Il rapporto fra le Regulations of the Court e le

disposizioni dello Statuto è stato recentemente oggetto di un dibattito sorto intorno ad una decisione della Camera Dibattimentale I nel caso Lubanga, poi risolto dal dictum della Corte d’appello. Sull’argomento cfr. infra, § 6.

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Si veda SADAT, The International Criminal Court and the Transformation of International

quelle previste, in relazione all’azione del Consiglio di Sicurezza, la giurisdizione della Corte119.

Essa è, poi, entrata in vigore, in tempi forse inaspettati, quattro anni dopo, il 1° luglio 2002, come prescritto dallo Statuto stesso, al raggiungimento, anzi, di fatto, al superamento, della sessantesima ratifica120.

La Corte penale internazionale (C.p.i.), che ha sede all’Aia, è un’istituzione internazionale permanente, dotata del potere di giudicare le persone responsabili dei più gravi crimini individuali contemplati dallo Statuto. Essa gode di piena indipendenza sia rispetto agli Stati Parte, sia rispetto alle Nazioni Unite. Lo Statuto riconosce alla Corte la personalità giuridica di diritto internazionale, che peraltro in tale ordinamento non si acquista per effetto di una norma convenzionale, bensì mediante la partecipazione effettiva ai rapporti giuridici internazionali, su un piano di parità con gli altri soggetti.

La giurisdizione, o competenza, della C.p.i. non si sostituisce né si sovrappone a quella del tribunale nazionale. Lo Statuto accoglie, infatti, il principio di complementarietà, in base al quale un caso non può essere giudicato qualora lo Stato che ha giurisdizione stia svolgendo indagini al riguardo o stia esercitando l’azione penale, oppure abbia già svolto indagini e deciso di non perseguire le persone coinvolte. La giurisdizione della C.p.i., oltre ad essere complementare a quella degli Stati, non è universale; affinché un caso possa essere giudicato, è infatti necessario il consenso dello Stato che sarebbe competente a esercitare la

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Tale genesi avrebbe dovuto rappresentare un definitivo affrancamento dal Consiglio di Sicurezza ed il punto di origine per lo sviluppo dell’indipendenza della Corte. Sui rapporti della Corte con il Consiglio di Sicurezza cfr. infra, § 4.

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Cfr. Art. 126 Rome St. Si rammenti che, ad oggi, si contano 118 Stati che hanno ratificato lo Statuto, divenendo a tutti gli effetti Stati Parte o accettato la giurisdizione della Corte in modo provvisorio ai sensi dell’art. 12(3) dello Statuto. Su quest’ultimo meccanismo, soprattutto con riguardo al significato del termine “Stato” utilizzato nel testo della norma, si veda infra, § 5.

giurisdizione rispetto a esso. Tale Stato è individuato dallo Statuto in base a due criteri di collegamento con l’ordinamento nazionale largamente utilizzati anche nella legislazione penale degli Stati: il primo è quello della territorialità, il secondo è quello della nazionalità. I due criteri sono alternativi: per instaurare il giudizio dinanzi alla Corte è sufficiente che lo Stato territorialmente competente oppure lo Stato nazionale dell’accusato ne abbia accettato la giurisdizione. Tale accettazione si manifesta con carattere di generalità mediante la ratifica dello Statuto. Se, quindi, uno degli Stati competenti a giudicare un caso è parte allo Statuto, ne discende automaticamente anche la competenza della Corte. Nell’ipotesi contraria, la Corte può esercitare la propria giurisdizione solo se questa venga espressamente accettata, mediante un’apposita dichiarazione, da uno almeno degli Stati competenti a giudicare il caso di cui si tratta. L’unica eccezione al principio del consenso dello Stato competente si ha quando la segnalazione di un crimine alla C.p.i. (referral) è fatta dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In tale evenienza, la volontà statale non assume rilievo, poiché il Consiglio di Sicurezza, in base al capitolo VII della carta dell’ONU, ha il potere di decidere, con effetti obbligatori per gli Stati, ogni azione che esso ritenga necessaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, ciò che, nella prassi, comprende anche l’adozione di misure volte a reprimere gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commesse nel corso di conflitti internazionali e interni, o nell’ambito di altre situazioni che, a giudizio del Consiglio, costituiscono una minaccia per la pace e per la sicurezza internazionali.

In merito al crimine di aggressione vi è sia la competenza del Consiglio di Sicurezza, secondo la Carta dell’ONU, per quanto attiene alle sanzioni nei confronti dello Stato aggressore, sia la competenza della C.p.i., in base allo Statuto,

relativamente alla punizione degli individui responsabili. La complessità del tema e l’esigenza di coordinare le competenze dei due organi hanno pertanto suggerito di rinviare la questione all’esame di una commissione istituita con l’Atto finale della Conferenza di Roma e incaricata di elaborare le norme in tema di aggressione, che dovranno essere introdotte nello Statuto con un emendamento adottato dalla quasi totalità degli Stati contraenti.

Il diritto applicabile nei giudizi è, in primo luogo, lo Statuto stesso, completato dagli Elementi costitutivi dei crimini, adottati dall’Assemblea delle parti per assistere i giudici nell’interpretazione dello Statuto, e dal Regolamento di

procedura e prova della Corte. In secondo luogo, si applicano, all’occorrenza, i

trattati e le norme generali del diritto internazionale, compreso il diritto consolidato dei conflitti armati. Infine, la C.p.i. può ricorrere, ove necessario, ai principi generali di diritto desumibili dalle leggi penali nazionali. Riguardo alle pene applicabili, la più grave prevista dallo Statuto è la reclusione per un periodo di trenta anni, essendo esclusa, come generalmente avviene per i tribunali penali internazionali, la comminazione della pena di morte.

Occorre altresì ricordare che, sul piano operativo, la C.p.i. necessita della cooperazione degli Stati, delle Nazioni Unite e di altri soggetti per potere adempiere effettivamente le sue funzioni. Essa, infatti, non dispone di mezzi propri per procedere all’arresto delle persone accusate, alla raccolta delle prove e delle testimonianze e, in generale, per compiere le attività richieste dallo svolgimento del processo. Lo Statuto pone, quindi, agli Stati contraenti l’obbligo di prestare alla C.p.i., su sua richiesta, la cooperazione e l’assistenza giudiziale necessarie, in conformità con le rispettive leggi nazionali. A tale fine, la C.p.i. può altresì

concludere accordi di cooperazione con gli Stati che non sono parti allo Statuto, e cui non incombe, quindi, il predetto obbligo di assistenza.

In linea generale, il comportamento degli Stati e delle organizzazioni competenti denota che il funzionamento effettivo della C.p.i. è un obiettivo largamente condiviso. In tal senso depongono non solo l'entrata in vigore dello Statuto a pochi anni dall'adozione e il numero elevato degli Stati che l'hanno ratificato (oltre metà dei membri dell'ONU), ma soprattutto l'avvio, nel 2005, dei primi procedimenti dinanzi alla Corte, relativi a crimini segnalati dai governi degli stessi Stati competenti. Sul piano politico permane, tuttavia, l'ostacolo dell'atteggiamento sfavorevole degli Stati Uniti, i quali, come ricordato, pur avendo partecipato alla Conferenza di Roma e firmato lo Statuto, hanno deciso successivamente di non ratificarlo, in ragione della competenza esclusiva che, secondo la legislazione e la prassi statunitense, deve essere riconosciuta ai tribunali nazionali per il giudizio dei cittadini. Si spiega in tal modo l'elevato numero di accordi bilaterali stipulati da tale Stato al fine di escludere l'eventuale consegna alla C.p.i. di cittadini statunitensi, accordi la cui legittimità è peraltro dubbia, quando essi siano conclusi con Stati parti allo Statuto e non rispettino il principio di non impunità dei crimini121. Anche la prassi relativa al rapporto con le Nazioni Unite non è del tutto omogenea. La Corte gode infatti di pieno sostegno da parte dell'Assemblea generale e del Segretario generale, mentre l'orientamento del Consiglio di Sicurezza, influenzato dal potere di veto dei membri permanenti, e segnatamente degli Stati Uniti, appare meno coerente. Per un verso, infatti, il Consiglio di Sicurezza ha esercitato ripetutamente, e a detta di molti impropriamente, il potere di sospendere le indagini e i procedimenti dinanzi alla C.p.i. con l'intento di escludere -non in relazione a casi

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Tale, al riguardo, la posizione comune degli Stati membri dell'Unione europea, 2003/444/PESC del 16 giugno 2003, in GUCE, nr. l 150, 18 giugno 2003.

specifici, ma in termini generali- che persone appartenenti alle forze di pace dell'ONU e aventi la cittadinanza di Stati non parti allo Statuto possano essere assoggettate al giudizio della Corte, se accusate di crimini di sua competenza. Per altro verso, si deve al rinvio del Consiglio di Sicurezza, deciso con risoluzione nr.1593 del 2005, l'avvio di un procedimento dinanzi alla Corte per i crimini commessi nella regione del Darfur, procedimento che, mancando il consenso dello Stato competente (il Sudan), non avrebbe potuto altrimenti essere instaurato, e sempre al rinvio del Consiglio, deciso con risoluzione nr. 1970122, un procedimento, per la prima volta unanimemente deferito alla Corte Penale Internazionale, relativo alla condanna all'uso della forza da parte del regime di Muammar Gheddafi contro i manifestanti che parteciparono alla rivolta libica e l’imposizione di una serie di sanzioni internazionali allo stesso governo libico.

3.2. Il referral da parte degli Stati e il referral proprio motu da parte del